< Pensieri (Leopardi)
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XCIX CI

C.

Tornando ai difetti o svantaggi che alcuno può avere, non nego che molte volte il mondo non sia come quei giudici ai quali per legge è vietato di condannare il reo, quantunque convinto, se da lui medesimo non si ha confessione espressa del delitto. E veramente non per ciò che l’occultare con istudio manifesto i propri difetti è cosa ridicola, io loderei che si confessassero spontaneamente, e meno ancora che alcuno desse troppo ad intendere di tenersi a causa di quelli inferiore agli altri. La qual cosa non sarebbe che un condannare sé stesso con quella sentenza finale, che il mondo, finché tu porterai la testa levata, non verrá mai a capo di profferire. In questa specie di lotta di ciascuno contro tutti, e di tutti contro ciascuno, nella quale, se vogliamo chiamare le cose coi loro nomi, consiste la vita sociale; procurando ognuno di abbattere il compagno per porvi su i piedi, ha gran torto chi si prostra, e ancora chi s’incurva, e ancora chi piega il capo spontaneamente: perché fuori d’ogni dubbio (eccetto quando queste cose si fanno con simulazione, come per istratageinma) gli sará subito montato addosso o dato in sul collo dai vicini, senza né cortesia né misericordia nessuna al mondo. Questo errore commettono i giovani quasi sempre, e maggiormente quanto sono d’indole piú gentile: dico di confessare a ogni poco, senza necessitá e fuor di luogo, i loro svantaggi e infortuni; movendosi parte per quella franchezza che è propria della loro etá, per la quale odiano la dissimulazione, e provano compiacenza nell’affermare, anche contro sé stessi, il vero; parte perché, come sono essi generosi, cosí credono con questi modi ottener perdono e grazia dal mondo alle loro sventure. E tanto erra dalla veritá delle cose umane quella etá d’oro della vita, che anche fanno mostra dell’infelicitá, pensandosi che questa li renda amabili, ed acquisti loro gli animi. Né, a dir vero, è altro che ragionevolissimo che cosí pensino, e che solo una lunga e costante esperienza propria persuada a spiriti gentili che il mondo perdona piú facilmente ogni cosa che la sventura; che non l’infelicitá, ma la fortuna è fortunata, e che però non di quella, ma di questa sempre, anche a dispetto del vero, per quanto è possibile, s’ha a far mostra; che la confessione de’ propri mali non cagiona pietá ma piacere, non contrista ma rallegra, non i nemici solamente ma ognuno che l’ode, perché è quasi un’attestazione d’inferioritá propria, e d’altrui superioritá; e che non potendo l’uomo sulla terra confidare in altro che nelle sue forze, nulla mai non dèe cedere né ritrarsi indietro un passo volontariamente, e molto meno rendersi a discrezione, ma resistere difendendosi fino all’estremo, e combattere con isforzo ostinato per ritenere o per acquistare, se può, anche ad onta della fortuna, quello che mai non gli verrá impetrato da generositá de’ prossimi né da umanitá. Io per me credo che nessuno debba sofferire né anche d’essere chiamato in sua presenza infelice né sventurato: i quali nomi quasi in tutte le lingue furono e sono sinonimi di ribaldo, forse per antiche superstizioni, quasi l’infelicitá sia piena di scelleraggini; ma certo in tutte le lingue sono e saranno eternamente oltraggiosi per questo, che chi li proferisce, qualunque intenzione abbia, sente che con quelli innalza sé ed abbassa il compagno; e la stessa cosa è sentita da chi ode.

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