< Pensieri (Leopardi)
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XXXI XXXIII

XXXII.

Venendo innanzi nella cognizione pratica della vita, l’uomo rimette ogni giorno di quella severitá per la quale i giovani, sempre cercando perfezione, e aspettando trovarne, e misurando tutte le cose a quell’idea della medesima che hanno nell’animo, sono sí difficili a perdonare i difetti, ed a concedere stima alle virtú scarse e manchevoli, ed ai pregi di poco momento, che occorrono loro negli uomini. Poi, vedendo come tutto è imperfetto, e persuadendosi che non v’è meglio al mondo di quel poco buono che essi disprezzano, e che quasi nessuna cosa o persona è stimabile veramente, a poco a poco, cangiata misura, e ragguagliando ciò che viene loro avanti, non piú al perfetto, ma al vero, si assuefanno a perdonare liberalmente, e a fare stima di ogni virtú mediocre, di ogni ombra di valore, di ogni piccola facoltá che trovano; tanto che finalmente paiono loro lodevoli molte cose e molte persone che da prima sarebbero parute loro appena sopportabili. La cosa va tant’oltre, che, dove a principio non avevano quasi attitudine a sentire stima, in progresso di tempo diventano quasi inabili a disprezzare; maggiormente quanto sono piú ricchi d’intelligenza. Perché in vero l’essere molto disprezzante ed incontentabile passata la prima giovinezza, non è buon segno: e questi tali debbono, o per poco intelletto, o certo per poca esperienza, non aver conosciuto il mondo; ovvero essere di quegli sciocchi che disprezzano altrui per grande stima che hanno di sé medesimi. In fine apparisce poco probabile, ma è vero, né viene a significare altro che l’estrema bassezza delle cose umane il dire, che l’uso del mondo insegna piú a pregiare che a dispregiare.

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