< Pensieri (Leopardi)
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XXXVIII XL

XXXIX.

Baldassar Castiglione nel Cortegiano assegna molto convenientemente la cagione perché sogliono i vecchi lodare il tempo in cui furono giovani, e biasimare il presente. «La causa adunque, dice, di questa falsa opinione ne’ vecchi, estimo io per me ch’ella sia perché gli anni, fuggendo, se ne portan seco molte comoditá, e tra l’altre levano dal sangue gran parte degli spiriti vitali, onde la complession si muta e divengon debili gli organi per i quali l’anima opera le sue virtú. Però dei cuori nostri in quel tempo, come allo autunno le foglie degli alberi, caggiono i soavi fiori di contento, e nel luogo dei sereni e chiari pensieri entra la nubilosa e torbida tristizia, di mille calamitá compagnata: di modo che non solamente il corpo, ma l’animo ancora è infermo, né dei passati piaceri riserva altro che una tenace memoria, e la immagine di quel caro tempo della tenera etá, nella quale quando ci ritroviamo, ci pare che sempre il cielo e la terra e ogni cosa faccia festa e rida intorno agli occhi nostri, e nel pensiero, come in un delizioso e vago giardino, fiorisca la dolce primavera d’allegrezza. Onde forse saria utile, quando giá nella fredda stagione comincia il sole della nostra vita, spogliandoci di quei piaceri, andarsene verso l’occaso, perdere insieme con essi ancor la loro memoria, e trovar, come disse Temistocle, un’arte che a scordar insegnasse; perché tanto sono fallaci i sensi del corpo nostro, che spesso ingannano ancora il giudicio della mente. Però parmi che i vecchi sieno alla condizion di quelli che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta; e pur è il contrario, che il porto, e medesimamente il tempo e i piaceri, restano nel suo stato, e noi con la nave della mortalitá fuggendo, n’andiamo l’un dopo l’altro per quel procelloso mare che ogni cosa assorbe e divora; né mai piú ripigliar terra ci è concesso, anzi, sempre da contrari venti combattuti, al fine in qualche scoglio la nave rompemo. Per essere adunque l’animo senile subbietto disproporzionato a molti piaceri, gustar non gli può; e come ai febbricitanti, quando dai vapori corrotti hanno il palato guasto, paiono tutti i vini amarissimi, benché preziosi e delicati sieno, cosí ai vecchi per la loro indisposizione, alla qual però non manca il desiderio, paion i piaceri insipidi e freddi e molto differenti da quelli che giá provati aver si ricordano, benché i piaceri in sé sieno i medesimi. Però, sentendosene privi, si dolgono, e biasimano il tempo presente come malo; non discernendo che quella mutazione da sé e non dal tempo procede. E, per contrario, recandosi a memoria i passati piaceri, si arrecano ancora il tempo nel quale avuti gli hanno; e però lo laudano come buono; perché pare che seco porti un odore di quello che in esso sentiano quando era presente. Perché in effetto gli animi nostri hanno in odio tutte le cose che state sono compagne de’ nostri dispiaceri, ed amano quelle che state sono compagne de’ piaceri.»

Cosí il Castiglione, esponendo con parole non meno belle che ridondanti, come sogliono i prosatori italiani, un pensiero verissimo. A confermazione del quale si può considerare che i vecchi pospongono il presente al passato, non solo nelle cose che dipendono dall’uomo, ma ancora in quelle che non dipendono, accusandole similmente di essere peggiorate, non tanto, com’è il vero, in essi e verso di essi, ma generalmente in sé medesime. Io credo che ognuno si ricordi aver udito da’ suoi vecchi piú volte, come mi ricordo io da’ miei, che le annate sono divenute piú fredde che non erano, e gl’inverni piú lunghi; e che, al tempo loro, giá verso il dì di Pasqua si solevano lasciare i panni dell’inverno, e pigliare quelli della state; la qual mutazione oggi, secondo essi, appena nel mese di maggio, e talvolta di giugno, si può patire. E non ha molti anni, che fu cercata seriamente da alcuni fisici la causa di tale supposto raffreddamento delle stagioni, ed allegato da chi il diboscamento delle montagne, e da chi non so che altre cose, per ispiegare un fatto che non ha luogo: poiché anzi al contrario è cosa, a cagione d’esempio, notata da qualcuno per diversi passi d’autori antichi, che l’Italia ai tempi romani dovette essere piú fredda che non è ora. Cosa credibilissima anche perché da altra parte è manifesto per isperienza, e per ragioni naturali, che la civiltá degli uomini venendo innanzi, rende l’aria, ne’ paesi abitati da essi, di giorno in giorno piú mite: il quale effetto è stato ed è palese singolarmente in America, dove, per cosí dire, a memoria nostra, una civiltá matura è succeduta parte a uno stato barbaro, e parte a mera solitudine. Ma i vecchi, riuscendo il freddo all’etá loro assai piú molesto che in gioventú, credono avvenuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va scemando in loro, scemi nell’aria o nella terra. La quale immaginazione è cosí fondata, che quel medesimo appunto che affermano i nostri vecchi a noi, affermavano i vecchi, per non dir piú, giá un secolo e mezzo addietro, ai contemporanei del Magalotti, il quale nelle Lettere familiari scriveva: «Egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi sono piú; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventú, a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno d’impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno».

Questo scriveva il Magalotti in data del 1683. L’Italia sarebbe piú fredda oramai che la Groenlandia, se da quell’anno a questo, fosse venuta continuamente raffreddandosi a quella proporzione che si raccontava allora. È quasi soverchio raggiungere che il raffreddamento continuo che si dice aver luogo per cagioni intrinseche nella massa terrestre, non ha interesse alcuno col presente proposito, essendo cosa, per la sua lentezza, non sensibile in decine di secoli, non che in pochi anni.

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