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Pensieri e giudizi Pagine autopsicobiografiche

PREFAZIONE


Mario Rapisardi è comunemente conosciuto solo come poeta, e molti ignorano il Rapisardi prosatore. Tuttavia non è questo il libro che rivelerà compiutamente il nuovo aspetto di Lui, che impresse orme di gigante nella patria letteratura: sono vari pensieri e giudizi filosofici artistici politici sociali, tutti materiati di vita moderna, e che in gran parte Egli mandava ai giovani studenti e ai lavoratori nei comizi lontani per far sentire alla folla la sua parola gagliarda e vibrante. Chè senza dubbio la prosa meglio della poesia è adatta a essere intesa dal popolo, può con fidanza scendere e indugiarsi tra il popolo, ricercando e scotendone le intime fibre sì come acqua di pioggia ristoratrice s’infiltra e si espande nei meandri di un terreno riarso. E veramente a tale ufficio ben risponde questa prosa facile colorita immaginosa, che ha ora l’austerità di una dissertazione dottrinale, ora il fáscino di un colloquio d’amore, ora la concitazione di un proclama di guerra.

Per Mario Rapisardi l’arte fu un apostolato, e la sua missione di educatore egli adempì scrupolosamente e con sicurezza. Come a Lui importava anzitutto essere stimato quale carattere, così voleva che i giovani uscissero dalle nostre scuole non col cervello imborrato di erudizione, ma col cuore pieno di magnanimi sensi, nutriti di sani princípi, pronti sempre a combattere e a cadere per l’Ideale. Egli, rapito sempre in una visione divina di rigenerazione, in una sublime aspirazione al benessere universale, tentava infondere negli animi l’amore alla verità e alla bellezza con la potenza suggestiva delle sue immagini geniali; e tutto quanto vedeva d’inciampo al raggiungimento del grande Ideale umano, cercava abbattere con l’impeto della sua parola fulminatrice, che pareva il grido solenne di un profeta antico annunziante prossima la vagheggiata redenzione.

Flagellare il vizio, esaltare e fare amar la virtù, dovunque e in qualunque modo: a questo mirò costantemente per tutta la sua vita attiva e laboriosa, con entusiasmo giovanile, con sincerità quasi selvatica.

Io tal son qual mi mostro: ai sensi il detto,
L’opra al pensier, l’anima al volto uguale.

E per tale ragione Egli, folle orditor d’alti sogni, che osava dir fango al fango e svelar la putredine sociale, parve a molti eccessivo. Eccessivo, forse; ma in tempi corrotti l’indignazione è indizio di coscienza sicura e la indifferenza potrebbe essere anche viltà. In ogni modo, bisogna convenirne che i suoi intendimenti furono nobili e puri, e la sua opera dissonnatrice fu santa.

Soffrì, è vero, in compenso persecuzioni e dolori, ma i suoi nemici non furono punto degli eroi; combattè a viso aperto, ma non fu mai vinto; e se ebbe l’effimero plauso popolare, non però Egli porse facile orecchio alle meretricie lusinghe del potere, nè s’implicò in faziosi raggiri o in tribunizi armeggiamenti. Anzi ebbe a pentirsi amaramente di aver troppo fidato in certi avventurieri della sua città che gli parvero degni del suo favore incondizionato, e che purtroppo lo sfruttarono in vita e ora lasciano vilmente il suo cadavere insepolto.

Il Rapisardi non fu mai animato da passione di parte: ciò confessò Egli candidamente più di una volta.1 Il suo spirito spaziava oltre alle piccole gare. Era uccello di bosco, e per cantare aveva bisogno di solitudine e di libertà. Libertà andò sempre cercando per sè e per gli altri; e per essa si appartò dal mondo, e la solitudine fu la sua fortezza. Anche leggendo i suoi scritti giovanili appar chiaro che questa aspirazione umanitaria, confortata da un rigoglioso e prorompente amor di patria, Egli mantenne sin dagli anni più teneri. E nell’Ode alla Polonia, che sembra scritta da ieri, fiducioso cantava:


Ov’è causa d’oppressi, ovunque è suono
Di liberi trionfi,
Ovunque è pugna ad atterrare un trono,
Non più, come solea, superba e fiera,
Ma sorella ai gementi
Sventolerà l’italica bandiera!

Le cinque poesie, che io qui riporto, tutte mirabili per semplicità greca di movenze, per maschia esuberanza di sentimento, furono così ordinate e corrette da Lui, che ebbe in animo di includerle nell’edizione definitiva della sua opera poetica. Le aveva chiuse in un foglio con sópravi la indicazione autografa: «Dopo la Francesca da Rimini — Odi civili. 1862-1865». Forse il timore che avrebbero potuto guastare l’euritmia del Volume lo ritenne dal ristamparle, e per la stessa ragione io non seppi per esse trovar posto fra le «poesie postume», credendo più acconcio pubblicarle a compimento di questo libro. Ad esse faccio seguire gli «Aforismi» di Seneca e di Siro, che il Rapisardi tradusse in vari tempi e che volle chiamare con significativa espressione: «Saggezza antica».

Gli odiernissimi saccentelli, che minosseggiano ventosamente pei circoli e pei caffè, certo sogghigneranno alla lettura di queste pagine, come di cose oramai viete, come di ciarpame di retorica patriottica, come di sentenze di moralità squarquoia. Ma quanti hanno l’animo educato ai forti studi e il cuore aperto alle più belle manifestazioni della vita udranno echeggiare in questo libro la voce carezzevole di un amico buono, il quale fu un uomo dalla eroica tempra, che ebbe fede inconcussa nei destini umani, e che resterà come un monolito superbo, una colonna miliare nell’infinito progresso della civiltà dei popoli.


Alfio Tomaselli

  1. «Catania, maggio 1890. Dichiarazione. Per risparmiare a tante benigne persone il fastidio di venire, in certe occorrenze o ricorrenze più o meno solenni, a cercarmi, devo una volta per tutte dichiarare che io non sono aggregato a nessuna società segreta o palese e non faccio parte di nessun sodalizio, non intervengo a comizi nè ad accademie politiche o letterarie. Io mi permetto, come ogni uomo che pensa, l’innocuo lusso d’avere delle opinioni, ma diversamente da molti altri le professo e le difendo, per conto mio, a modo mio, coi mezzi e con le armi, qualunque siano, che la natura m’ha date, e sempre nel campo dell’arte letteraria, che per me non è mestiere, nè passatempo. Se queste mie opinioni s’incontrano qualche volta e per puro caso con le opinioni del prossimo, me ne rallegro tanto; se no, salute. A me non importa far proseliti; penso e scrivo, e ai pensieri e agli scritti m’ingegno conformare la vita: ecco tutto. Chi da un fortuito incontro di opinioni argomentasse in me tale abnegazione da prestarmi gentilmente, come fanno i cantanti, a totale beneficio delle sue idee orfane e degli ospizi marini, in cui altri cura la rachitide dei suoi marmocchi apostolici, s’ingannerebbe. Se ho dato qualche volta il mio nome a qualche pubblica manifestazione civile, cedendo ad uffici ed istanze di amici troppo teneri di me, esperienza vecchia e motivi novelli m’impongono avvisare i promotori e architettori e organizzatori delle sopra lodate manifestazioni, che la parte quantunque onoraria e non so quanto onorifica, da loro troppo generosamente assegnatami, ora m’è venuta a noia invincibilmente: e che da oggi innanzi non permetterò a nessuno di valersi del mio nome in nessuna occorrenza. Il mio nome oscuro in tutto, oscurissimo in politica, non è buono a chiamar gente; nè io in ogni modo sarei disposto a far da trombettiere. Chi lo crede, è in errore; e chi si ostinasse a crederlo dopo questa dichiarazione, mi seccherebbe. Il buon vino per altro non ha bisogno di frasca; e far da frasca al vin guasto, andiamo via, è un ufficio troppo modesto che io lascio volentieri a chi spetta. M. Rapisardi».

Note

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