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XXIII. E usa spesso lo stile, la lingua e la scrittura di un defunto che il medio non ha conosciuta
XXII XXIV


Abbiamo parlato finora del contenuto delle comunicazioni medianiche; parliamo ora della forma. Ci sono degli esempj nei quali nemmeno la forma si spiega colla magia dell’incosciente. E la forma può essere più caratteristica del contenuto. E questi esempj sono abbondantissimi. Si possono dividere in tre classi, secondo che si riferiscono allo stile, alla lingua, od alla scrittura del defunto. Esaminiamole partitamente.

1° La prima classe dunque, la meno importante, è quella delle comunicazioni nelle quali si riconoscono lo stile, le espressioni abituali, gli intercalari di un defunto. Gli esempj di questa specie si vedano nell’Aksákow (p. 662, ss. ). Io non ne cito alcuno perchè, sebbene queste prove siano in pratica molto convincenti (sopratutto quando il defunto è ignoto al medio, ed agli astanti, ed il suo stile è riconosciuto da terze persone), la convinzione che danno è più morale che scientifica. Egli è vero che lo stile è l’uomo; ma è anche vero che i più dotti critici tedeschi non possono mettersi d’accordo sulla questione se lo stile di certi dialoghi platonici, per es. del Sofista e delle Leggi, sia o no di Platone. Quindi si potrebbe questionare anche sull’autenticità del romanzo che Dickens morendo lasciò interrotto e che avrebbe condotto a termine per mezzo di un medio scrivente.

2° La seconda classe, più importante assai della prima, è quella delle comunicazioni verbali o scritte in una lingua che era quella del defunto e che è ignota al medio ed agli astanti. Pei fatti di questa classe si veda Aksákow (p. 420, ss. e 657, ss.). Il caso più luminoso è quello della figlia di Edmunds; il padre stesso racconta, nella introduzione al secondo volume della sua opera Spiritualism, che essa non sapeva che l’inglese e qualche pò di francese; che tuttavia ha parlato in nove o dieci lingue, talvolta per ore, colla stessa facilità e speditezza che se fosse nata nei paesi di quelle lingue; che non di rado i forestieri discorrevano per mezzo di lei coi morti del loro paese. Assumendo una volta la personalità di un fratello defunto di Marco Botzaris, essa discorse a lungo con un greco di nome Evangelides, e gli annunziò la morte di un figlio che egli aveva lasciato in patria; Evangelides non potè nascondere la sua emozione; ma, niuno degli astanti comprendendo il greco, non se ne seppe la causa che giorni dopo, quando la triste notizia fu confermata ad Evangelides da una lettera. Ho citato questo caso, perchè è uno dei più convincenti; lo è per la sicurezza del fatto, attestato dall’autorità di un alto magistrato, di un senatore; e perchè il padre poteva ben sapere che lingue aveva studiato sua figlia; e perché sua figlia parlava più lingue, e facilmente, senza essere entranced, e quindi non può dirsi un sonnambulo.

Ora, quando un defunto parla la sua lingua, e questa è ignota al medio, mi par che dia una prova convincente. Infatti quando uno parla speditamente il greco, ciò che tutti ne arguiscono è che egli ha imparato il greco; perchè il senso comune, fondato sull’esperienza dei fatti normali, parte da questa premessa, che una lingua non si può parlare senza averla imparata. Dunque la spiegazione più naturale del caso della Laura Edmunds che parla il greco senza averlo imparato (cioè la spiegazione che presenta più analogia coi casi normali), dovrebbe esser questa: che chi parla per bocca di Laura non è Laura, ma un’altra persona che ha imparato il greco; tanto più se questa persona dice di essere un fratello di Marco Botzaris, e annunzia un fatto veramente accaduto in Grecia e che non si poteva ancora sapere in America.

Ma d’altra parte questa supposizione parrà poco naturale perché implica questa: che i morti non siano morti. Allora bisogna far un’altra ipotesi; e la più frequente per questi casi è che si tratti di lingua imparata e poi dimenticata; e si cita per analogia qualche vecchio che nel delirio ha parlato un dialetto imparato nell’infanzia e di cui non si ricordava nella veglia, o la serva d’un curato che vaneggiando al manicomio pronunciava delle frasi latine, rubate senza saperlo mentre il curato recitava il breviario. Ma esempj simili non hanno alcuna analogia con quello della Laura Edmunds, che era giovanetta, e non poteva aver imparato dieci lingue senza accorgersene, e sopratutto senza che se ne accorgesse suo padre.

Allora bisogna ricorrere alla supposizione che l’abbia imparata prima di nascere. Ma se si ammette la preesistenza dell’anima di Laura, e tanto più se si ammette che essa avesse vissuto sulla terra altre volte, e vi avesse imparato dieci lingue, si può ammetter anche la sopravvivenza del fratello di Marco Botzarís.

Se si respinge anche quest’ipotesi, bisogna dire che Laura non aveva imparato il greco nè in questa vita nè nell’altra. Allora, per cercar qualche analogia coi fatti naturali, si può ricorrere a un’altra ipotesi, quella della eredità. È noto che una delle vecchie questioni fra i psicologi è questa: se tutte le nostre cognizioni derivino dall’esperienza, o se ve ne siano di innate, a priori, cioè anteriori ad ogni esperienza; questione che, in linguaggio volgare, si riduce precisamente a questa: se vi siano delle cose che noi sappiamo senza averle imparate. Ed è pur noto che ora i positivisti, l’Häckel e lo Spencer, risolvono la questione così: 1°, vi sono delle cognizioni che ereditiamo dai nostri antenati, i quali le hanno acquistate coll’esperienza; sicché queste cognizioni sono innate nell’individuo, ma non nella specie; 2°, ciò che ereditiamo non è propriamente una somma di cognizioni, bensì la facoltà di acquistarle, la struttura nervosa atta a fornircele in occasione delle impressioni esterne; nell’uomo non c’è alcuna lingua a priori, più che non ci sia in un puledro; ma ci deve esser qualche cosa a priori, in quanto l’uomo può imparar a parlare, leggere e scrivere, mentre il puledro non può; e questo qualche cosa consiste in una diversa struttura delle circonvoluzioni frontali; struttura che deriva per eredità e selezione dall’esercizio della facoltà del linguaggio nei nostri antenati. È chiaro dunque che quest’ipotesi non può servire niente affatto a spiegare in che modo Laura parlasse greco, e sopratutto come lo parlasse senza sapere quello che si diceva.

Ora, se Laura non aveva imparato il greco in questa vita, se non l’aveva imparato in un’altra, se non l’aveva ereditato, non resta più che una supposizione: che lo prendesse a quelli che lo sapevano. Infatti Laura Edmunds, discorrendo con un greco, aveva davanti a sè, a sua disposizione, il cervello di un greco; anzi, siccome Evangelides sapeva l’inglese, il cervello di Evangelides poteva servirle da dizionario per tradurre il suo pensiero. Ci sarebbe una piccola difficoltà, e sarebbe questa: essa non capiva quel che diceva, non lo pensava; come poteva adoperare quel dizionario per tradurre un pensiero che non aveva? ma questa piccola difficoltà non deve arrestarci, poichè possiamo supporre che traducesse un pensiero incosciente. Ma la difficoltà che m’inquieta è questa che un dizionario greco non serve a niente a chi non sa il greco; perchè i nomi bisogna poi declinarli, i verbi coniugarli, e la frase bisogna costrurla secondo la sintassi speciale della lingua; insomma bisogna saper la grammatica. Egli è vero che nella testa di Evangelides c’era anche la grammatica greca; ma le regole di questa grammatica non si potevano cercare una alla volta come le parole nel dizionario; bisogna saperle tutte fin da principio; bisognerebbe dunque attribuire al medio una magia che giungesse fino ad imparare istantaneamente una lingua.

Ma non iscoraggiamoci: resta ancora un mezzo di spiegare il fatto, pur restando d’accordo colla teoria Mary-Jane (nihil est in medio quod prius non fuerit in prœsentibus), ed è di gettar tutto sulle spalle dell’incosciente di Evangelides. Allora la supposizione è questa che Evangelides ebbe l’impressione telepatica della morte di suo figlio, che questa rimase latente nel suo incosciente fin che si trovò davanti al medio, e allora la comunicò all’incosciente di Laura, e se la fece annunciare in nome del fratello di Marco Botzaris, suggerendogli anche, sempre incoscientemente, la traduzione greca del suo pensiero incosciente, e il modo di pronunciarla. Quest’ipotesi è per verità un pò complicata, cioè composta di più ipotesi; e ciascuna di queste ipotesi è maravigliosa; ma è la sola che possiamo fare, se non vogliamo ammettere, oltre Laura ed Evangelides, un terzo interlocutore, cioè lo spirito del fratello di Marco Botzaris.

Per quanto io cerchi, non trovo analogie che possano suggerirmi un’altra ipotesi; egli è vero che il dono delle lingue l’avevano gli apostoli, ma anch’essi credevano che venisse di fuori, cioè dallo Spirito Santo. L’avevano talvolta gli ossessi; ma essi l’attribuivano agli spiriti maligni. Si dice che talvolta l’hanno i sonnambuli; ma il vero è, lo confessa anche Hartmann, che un sonnambulo non capisce una lingua non imparata, bensì capisce il pensiero di chi parla[1]; tanto è vero che quando l’interrogante stesso non capisce, non capisce neppure il sonnambulo; e nessun sonnambulo poi risponde in una lingua che non sa; anche questo lo ammette Hartmann (p. 66); e l’Ennemoser (citato da Aksákow, p. 422) ne dà questa ragione: che il parlare una lingua è un’abilità tecnica, come il suonare un istrumento, e che perciò non si acquista senza esercizio. Ma ammettiamo pure che un sonnambulo faccia anche questo; ciò non servirà a spiegare il linguaggio del medio, ma sarà un altro mistero da spiegarsi come il linguaggio del medio. Ossia se il sonnambulo o medio parla una lingua che non ha imparato nè in questa vita nè nell’altra, se non può averla ereditata, e se non può esser mago a tal segno da imparare istantaneamente una lingua da un cervello presente o lontano, resta soltanto una di queste due ipotesi o che abbia il meccanismo della parola così delicato e sensibile da poter essere adoperato bene anche dall’incosciente di un’altra persona, o che sia un sonnambulo magnetizzato da uno spirito, cioè, come dicono gli Inglesi, un medio controlled da un defunto.

3° Veniamo alle prove d’identità fornite colla scrittura. In queste conviene distinguere due gradi. Ve ne sono di quelle che convincono come le precedenti; ma ve ne sono di quelle che convincono, o dovrebbero convincere, molto di più. Alla prima classe appartengono le comunicazioni scritte da bambini di due anni, di un anno, di sei mesi, di nove giorni, per le quali rimando all’Aksákow (p. 405-420). Vi appartengono pure le comunicazioni nelle quali l’intelligenza occulta si manifesta con alfabeti ignoti al medio, come quello dei sordo-muti (Aksákow, 66o-661), o coll’alfabeto telegrafico (Aksákow, 443.445) o scrive il suo nome in caratteri indiani (v. il Light, 15 febbraio 1890), o scrive a Londra, colla lingua e la scrittura di una delle isole del mare del Sud, una comunicazione che non si riesce a decifrare se non coll’aiuto di un missionario (Wallace, ed. francese, p. 369). In tutti questi casi la prova non è maggiore che in quello della Laura Edmunds; perchè lo scrivere senza aver imparato, lo scrivere con un alfabeto che non si è imparato, in una lingua che non si è imparata, provano sempre (come il disegnare o il suonare uno strumento senza aver imparato, per es. Aksákow, p. 446), che il medio esercita un’arte senza averla imparata; e che quindi non può esercitarla da sè, bensì deve esser guidato da un altro; ma, siccome al mondo ci sono dei viventi che conoscono quell’arte, così non è necessario supporre che sia guidato da un defunto; può esser guidato da un vivente, bastando per ciò il supporre che, come il suo meccanismo vocale, così il suo meccanismo grafico sia tanto delicato e sensibile da poter esser adoperato anche da un altro vivente, anche involontariamente, anche incoscientemente, anche ad una distanza come quella dall’Australia all’Inghilterra. Ipotesi che chiunque troverà naturalissima, in confronto di quella della sopravvivenza dell’anima. Del resto abbiamo già visto che l’Aksàkow cita casi di comunicazioni medianiche di viventi, specie dormenti.

Ma ci possono esser prove migliori. Infatti una lingua è parlata da tutta una razza; ma la pronunzia e la scrittura variano per ogni individuo. Dalle parole che odo io non distinguo solo se chi parla è italiano, ma distinguo un amico da un altro; dalla soprascritta di una lettera si indovina chi è che scrive. Prove date dalla voce del defunto colla bocca del medio, non se ne citano ancora, non solo perchè parlando colla bocca d’un altro la voce deve alterarsi, ma perché una prova di simil genere non ha valore, fin che non si possa conservare col fonografo, per escludere l’illusione. Ma vi sono comunicazioni scritte da defunti ignoti al medio ed agli astanti, e nelle quali tuttavia la scrittura del defunto è stata riconosciuta dopo l’esperimento confrontandola con manoscritti del defunto.

Per esempj di scrittura autentica dei defunti si veda Aksàkow (p. 666, ss.). Io citerò invece un esempio che mi fornisce il Rossi-Pagnoni, uno dei più vecchi e coraggiosi spiritisti. Il Rossi-Pagnoni dice dunque che la sua scrittura ordinaria è brutta e sempre la stessa; che quando invece scrive automaticamente, cambia scrittura secondo le comunicazioni; che quando uno spirito ritorna, spesso inaspettato e dopo lungo tempo, ritorna colla scrittura della prima volta. (Noto tra parentesi che questo l’ho verificato io con due medii scriventi). Egli aggiunge che tuttavia, coll’incomoda scrittura automatica, ha scritto quache volta con una bella calligrafia, che non saprebbe riprodurre scrivendo liberamente. Tutto ciò proverebbe soltanto che non era lui che scriveva, ma non che chi scriveva fosse un defunto. Ma questa prova l’abbiamo poi nelle dichiarazioni firmate da quelli che hanno riconosciuto il carattere dei defunti loro amici. Tra le altre v’è quella di un maestro di calligrafia. Egli dichiara di aver pregato il Rossi-Pagnoni di chiamar a scrivere il defunto suo maestro Luigi Brunetti, e di aver avuto in sua presenza per mezzo del Rossi-Pagnoni una comunicazione scritta; nella quale il carattere e la mano del suo maestro erano chiaramente visibili; e si firma Cletto Masini, maestro di calligrafia e di contabilità nella R. Scuola tecnica di Pesaro.

Un’altra la citerò per intero, ritraducendola da una traduzione inglese (nei Proceedings, ecc. V, 552), non avendo sott’occhio il testo italiano: «Il mio caro amico Ercole Artazú, ora morto da più anni, era un buon scrivano, e figlio di Luigi Artazú, impiegato municipale e maestro di calligrafia, morto da lungo tempo. Io mi ricordo benissimo che una volta, in conversazione, il mio amico Ercole mi assicurò che prima non avea creduto allo spiritismo, ma che una volta venne a casa vostra, e voi gli faceste vedere certe comunicazioni scritte colla matita; che voi diceste di averle ricevute evocando lo spirito di suo padre Luigi, senza alcuno fosse presente; che non solo egli riconosceva in quelle pagine la forma elegante della scrittura di suo padre, molto differente dalla vostra, che è tutt’altro che bella; ma che il ghirigoro fatto sotto alla segnatura era esattamente quello che usava suo padre; e che egli stesso, che l’aveva avuto per tanto tempo davanti agli occhi, sarebbe stato incapace di riprodurlo, per lo meno colla stessa rapidità e speditezza». E si firma Ciro Giovagnoli, ufficiale telegrafico.

Questi esempj, se non sono fra i più rari, sono però i più adatti a convincerci della realtà del fatto; perché non si tratta di un fatto accaduto al signor X di Chicago o al signor Y di Baltimora; e il Rossi-Pagnoni, rettore di un ginnasio governativo a Pesaro, non poteva inventare un impiegato municipale senza essere smentito dal municipio, nè falsificarne la firma senza essere smentito dall’impiegato. E se un buon scrivano e un maestro di calligrafia non sono giudici competenti della scrittura del loro padre o del loro maestro di calligrafia, bisognerà rinunziare assolutamente alle perizie calligrafiche. Ora il ragionamento su questo fatto e sui fatti analoghi non può più esser lo stesso che per la lingua del defunto.

Nessuno ammetterà che Rossi-Pagnoni sia un falsario. Dovrebbe dunque esserlo il suo incosciente. Ma ognuno ammetterà che il più abile falsario ha bisogno, per imitar una scrittura, di due cose: 1º di un modello, 2º di esercizio. Ora il Rossi-Pagnoni non aveva i modelli; ma mettiamo pure che ne avesse avuto sott’occhio qualcuno senza farvi attenzione, od ancora che il suo incosciente li avesse rintracciati colla chiaroveggenza. Ad ogni modo il suo incosciente non aveva potuto esercitarsi a copiarli, perchè per farlo aveva bisogno del braccio e della mano del Rossi-Pagnoni, che ne era almeno comproprietario insieme al suo incosciente, e che se ne sarebbe accorto. Dunque il suo incosciente era guidato da un’altra persona.

Ma quale persona vivente poteva guidare la mano di Rossi-Pagnoni? Un medio americano che scrive in italiano può esser consigliato da trenta milioni di italiani; ma uno che imita perfettamente la cifra di Luigi Artazú, non può essere guidato che da una o due persone che conoscono perfettamente la scrittura di Luigi Artazú. Il primo, e quasi il solo su cui potrebbe cadere il sospetto in questo caso, sarebbe precisamente suo figlio Ercole Artazú. Ma se Ercole, sebbene figlio di Luigi, e buon scrivano, diceva d’essere incapace di imitare tanto bene la cifra di Luigi, anche scrivendo volontariamente e di sua mano, potremo noi supporre che l’abbia imitata esattamente, colla mano del Rossi-Pagnoni, involontariamente, incoscientemente, e a distanza?

Non è egli più naturale, meno improbabile, che la firma fosse autentica? Insomma a spiegare i fatti di questo capitolo non basta supporre che nei cervelli e nell’etere si conservino le traccie di tutto il passato; bisogna supporre che un medio possa acquistar istantaneamente un’arte, imitar senza esercizio la scrittura di un dato individuo.

4° Per concludere: anche se non avessimo altre prove dell’identità di alcune intelligenze occulte coi defunti che le prove intellettuali, cioè quelle fornite dal contenuto e dalla forma di certe comunicazioni medianiche, l’ipotesi dell’incosciente del medio mi parrebbe meno probabile che quella dell’intervento dei defunti. Infatti:

Mi pare che l’ipotesi dell’incosciente del medio non abbia altro vantaggio sulla spiritica che quello di esser più naturale, cioè più conforme a ciò che la scienza sa (o la maggioranza degli scienziati crede di sapere) sulla natura;

Mi pare che la difficoltà di trovare dei casi nei quali essa sia assolutamente esclusa derivi soltanto da questo che in un incosciente non ci si può veder dentro, e quindi possono metterci tutto quello che vogliono; è un vero asylum ignorantiœ, un Deus ex machina, une bonne à tout faire.

Mi pare che l’ipotesi di uno sdoppiamento del medio in due persone simultanee non sia molto naturale, nè psicologicamente, nè fisiologicamente;

Mi pare che con quest’ipotesi si spieghi bene soltanto una cosa: in che modo l’intelligenza occulta indovini i pensieri del medio;

Perchè possa spiegar il resto, bisogna concedere all’incosciente la chiaroveggenza, la lettura del pensiero, e le altre cognizioni magiche, ossia una gran parte di ciò che finora si è giudicato soprannaturale;

E bisogna ricorrere anche alla memoria latente e suggestione incosciente degli astanti e degli assenti; sicchè l’ipotesi dell’incosciente, oltre ad esser poco naturale, diventa anche poco semplice, anzi complicatissima;

Inoltre la chiaroveggenza, cioè il vederci senz’occhi, anzi il vederci meglio senza occhi che cogli occhi, dà diritto di sospettare che ciò che è vero degli occhi sia, vero del cervello, e, senza fondare lo spiritualismo, permette di credere che non abbia fondamento il materialismo, cioè la principale delle obbiezioni contro lo spiritismo;

Il pretendere poi che un pezzo di cervello addormentato sia addirittura veggente, indovino e profeta, e viceversa il medio e gli astanti, i quali sono svegli, non siano, mai giudici competenti di ciò che possono o non possono aver imparato, mi sembra un pò arrischiato;

Il pretendere che un incosciente, il quale per ipotesi vede fino in China la morte di un nostro amico, sia poi così cieco da non sapere chi è lui, e da credersi quel morto, mentre è un pezzo d’un vivo, mi pare una contraddizione;

E che, mentre l’intelligenza occulta vede il nostro pensiero e noi non vediamo il suo, pretendiamo insegnare a lei chi è, e correggerla del suo errore nell’esser suo, mi pare presunzione;

E il sostenere che tutte queste intelligenze sono ostinate e concordi nel loro errore per solo effetto di superstizione contagiosa od ereditaria, mi pare una supposizione così poco fondata da potersi quasi dire gratuita;

Sicchè, davanti a questa complicazione di ipotesi poco naturali, poco soddisfacenti per la spiegazione dei fatti, e perfino contradittorie fra loro, mi par quasi più naturale l’ammettere una maraviglia sola: che certe comunicazioni medianiche sono dovute alla suggestione mentale dei defunti.

Il lettore preferirà forse metter di nuovo in dubbio i fatti su cui si fondano queste teorie. Gli parrà che siano pochi. Ma la dozzina, che ho citato io, non è che un campionario della dozzina di centinaia che gli sarebbe facile di raccogliere, se leggesse i libri che nessuno legge. Egli dubiterà forse anche delle centinaia, perchè non sono raccontate che dai mistici, specialmente dagli spiritisti; ma pensi che deve esser così: 1° perchè gli spiritisti soli sperimentano; quindi, essendo i soli che cercano, sono i soli che trovano; 2° quelli che riescono a verificare uno di questi fatti, diventano spiritisti; 3° quei pochi, che acconsentono a pubblicare le prove avute, naturalmente le pubblicano sui giornali spiritici, e non sui giornali politici o di mode, che non le cercano; e sopratutto non sulle riviste di filosofia scientifica, le quali per ora le rifiutano.


Note

  1. Questo è facile a verificare con esperimenti di suggestione mentale. Comandate ad alcuno mentalmente, ma chiaramente e fortemente, di voltarsi; comandate in italiano; vedrete che l’esperimento riesce, quando riesce, anche coi forestieri. L’idea non è la parola.
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