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Alla scuola
Profili Nebulose

ALLA SCUOLA


Aspettavamo i giorni di tirocinio con una ansietà segreta. I giorni di lezione erano monotoni, spesso tristi. Noi studiavamo senza voglia, malamente, con programmi incerti, con professori troppo severi o assolutamente inetti. Eravamo già maestre e l’essere trattate da scolarette ci umiliava, ci stizziva. A casa, qualcuna di noi aveva la povertà, quasi tutte una miseria decente — e chi un fratello ebete, chi un padre paralizzato, chi una matrigna tormentatrice, qualche piaga celata con cura, qualche vergogna nascosta con una nobile pietà, qualche infelicità, qualche ingiustizia del destino, a cui la rassegnazione era completa. Non erano allegri i nostri diciotto anni, e le aride lezioni di aritmetica, di pedagogia, di geografia, finivano col ravvolgerci in un ambiente di malinconia.

Ma il tirocinio ci salvava dalla tetraggine, rompendo la monotonia, dandoci un giorno di pausa. Eravamo trenta e ne scendevano tre al giorno al pianterreno, nelle scuole elementari: così il turno capitava ogni dieci giorni. In questo benedetto decimo giorno, le tirocinanti indossavano l’abito nuovo se lo avevano, e se non lo avevano, mettevano un colletto pulito, un fiocco di nastro per cravatta: si pettinavano meglio, qualcuna si faceva i ricciolini. Entravano in classe alle otto, dicevano la preghiera, segnavano la presenza sul registro, e stavano lì, distratte, con gli occhi trasognati, aspettando le nove per andar giù, mentre le amiche mormoravano:

— Beate voi che andate al tirocinio!

Risalivano alle due, molto riscaldate in volto, coi capelli un po’ arruffati, con gli occhi lucenti, stanche, ma felici, felici di quelle ore passate fra le bimbe, felici di quel primo contatto, di quelle prime lezioni date timidamente, contente di quella nuova dignità conquistata. E narravano alle altre quello che avevano spiegato alle piccine, l’addizione sul pallottoliere, i dittonghi e la maglia di calza: dicevano che le piccine erano tanto carine, tanto intelligenti, alcune tranquille, alcune insolenti, che la maestra titolare lasciava fare tutto alla tirocinante, che insegnare era un po’ duro, ma che infine diventava un piacere. Poi venivano i caratteri delle piccole descritti minutamente: Orefice è buona, ma è stupida e si succhia il mignolo: bisogna tenerla sempre d’occhio — Abbamonte è bellina, ma è zoppa, poveretta, non può fare la ginnastica — Chiarizia è insolente, risponde male e brontola, ma è figlia di un segretario municipale, non si può sgridarla molto. — Tutte quelle che avevano fatto il tirocinio prima di me, mi avevano detto:

— Quando andrai giù, Aloe ti farà dannare.

— Aloe ha un diavolo per capello.

— Se non ci fosse Aloe, la classe sarebbe tranquilla.

— Dovrebbero cacciarla, Aloe: è un demonio di malignità.

— Aloe è terribile.

Finalmente andai io: traversai il giardinetto della ginnastica e mi fermai innanzi alla porta vetrata della classe, con una certa trepidazione. Sullo scalino una bimba era accoccolata, col capo chinato; ma non piangeva.

— Che fai qui? — le chiesi, dandomi un tono d’autorità.

— Sono arrivata tardi — rispose a bassa voce, senza guardarmi in volto — e la maestra non ha voluto farmi entrare.

— Perchè non te ne vai a casa?

— Perchè mamma non ci sta, a casa, adesso.

— E dove sta mamma?

— Alla fabbrica del tabacco.

— Come si chiama mamma?

— Si chiama mamma — disse lei, semplicemente, un po’ meravigliata.

— Entra con me in classe; ti farò perdonare dalla maestra il ritardo.

Appena entrai vi fu un movimento precipitoso: tutte quelle piccine — sessanta forse — si alzarono, strillando su tutti i toni:

— Buon giorno, maestra! Buon giorno, maestra!

Credo di essere diventata rossa dall’orgoglio; mi tremava la voce, dicendo alla maestra titolare:

— Buon giorno, signorina. Fate sedere le piccole: vi prego, lasciate che questa qui rientri in classe.

La maestra fece una smorfietta:

— Questa qui è Aloe. Vi divertirete bene — disse.

E volte le spalle, se ne andò a far colazione. Aloe le cavò la lingua, tanto per cominciare. Era una bambina di dieci anni, molto brutta, molto magra, coi pomelli sporgenti, una bocca larga e avvizzita di donna, due occhi grigi e vivi, maliziosi, una criniera nera di ricciolini ruvidi, troppo folti, che pareva le lasciassero il volto esangue. Portava un vestitino di lanetta stinto, le calze di cotone azzurro tutte rattoppate col filo bianco e aveva le scarpe rotte.

— Andate al posto — le dissi — e state quieta.

Ella andò lentamente al banco e stette cinque minuti tranquilla. Ma mentre si diceva l’Avemaria, diede un pizzicotto nel braccio a Cavalieri, che si mise a piangere. Cavalieri era una grassottella, bianca e pienotta, coi capelli castagni, la boccuccia rotonda e schiusa; le fossette nelle guance, al mento, nelle manine; una piega nel grasso del collo, una piega nel grasso dei polsi. Era vestita di flanella rossa, calda calda, con un grembiule bianco ricamato, con le calzette di lana rossa: aveva un panierino elegante per la colazione. Passava il tempo a guardarsi le braccia, a guardarsi le mani, a guardarsi i piedi, a guardarsi le pieghe del grembiule, sorridente e rotondetta, gonfiando il bocchino, non capendo nulla, attirando i baci per quell’aspetto di pallottolina bianca, rossa e pulituccia.

— Aloe, perchè avete dato il pizzicotto a Cavalieri?

— Signora maestra, perchè è troppo grassa — mi rispose, levandomi in volto i suoi occhi di donnina malata e cattiva.

— Cercatele scusa, subito.

— No — rispose, duramente, battendo un piede sul tavolato.

— Andiamo, Aloe, siate buona: le avete fatto male a Cavalieri, Cavalieri piange, chiedetele scusa.

Allora, senza guardare nè me, nè la piccola vicina, mormorò a bassa voce:

— Chiedo scusa.

Cavalieri, rabbonita, le buttò al collo le braccia grassocce e la baciò sulla guancia. E Aloe si diede a piangere, tremando tutta, singhiozzando, inconsolabile.

Per quanto cercassi d’essere imperiosa, non ci riescivo. Quelle creature non ci credevano alla mia durezza, alle mie occhiate burbere, alla voce secca e breve, alle minacce di castighi. Mi sogguardavano, sorridendo; oppure mi chiedevano perdono con certi sguardi supplici — io mi voltava verso la lavagna, per non perdere la gravità. Non era possibile di farle stare tranquille: ogni momento nasceva un nuovo incidente. In quanto a Parascandolo, una bimba sottile, con certi occhi lionati e un nasino dalle nari dilatate, ella mangiava sempre. Prima aveva mangiato il pane della sua colazione, poi aveva cavato di sotto al banco una arancia e l’aveva mangiata; poi si era messa a rosicchiare certe nocciuole che aveva in tasca.

— Parascandolo, voi mangiate ancora?

— Maestra, è un confetto che aveva nel panierino.

Più tardi:

— Parascandolo, finitela di mangiare.

— Maestra, è una noce, me l’ha data Amarante.

E dopo:

— Parascandolo, dite la lezione.

Ella inghiottiva di traverso, diventava rossa, le venivano le lagrime agli occhi, non si raccapezzava, si tastava le tasche del grembiule, a sentire se vi erano certe sementi infornate che aveva comperate. Invece Edwige Santelia sapeva tutte le lezioni, addizionava a tre cifre, faceva le aste bene inclinate, teneva la penna leggermente, senza sporcarsi le dita d’inchiostro. Stava zitta zitta, senza voltarsi alle piccole compagne, guardandomi fissamente in volto con certi occhi timidi, come se volesse interpretare la mia volontà. Feci una quantità di tentativi per confonderla, per coglierla in fallo, leggermente irritata di quella bonomia monotona. Mi rispondeva sempre bene, con una lentezza e una umiltà, senza turbarsi mai. Così fu che mi vinse: e in un momento in cui Aloe aveva cavata fuori la spugna del calamaio, impiastricciandosi orribilmente d’inchiostro, le gridai:

— Aloe, ma non potete star ferma un minuto? Vedete Santelia!

— Ah! quella è Santelia — mi rispose, con un accento profondo.

Lei Aloe non sapeva nulla, non aveva il sillabario, non aveva la penna, non aveva l’abbaco, non aveva il quaderno per le aste. Stava ritta innanzi al cartellone delle sillabe, guardandolo con le mani penzoloni, senza aprire bocca. Una viva espressione di sofferenza le si traduceva sulla faccia smorta.

— Leggete dunque.

— Non so — mormorava — non so.

— Andate a sedere all’ultimo banco e fatevi prestare il sillabario da Tecchia: essa leggerà in quello di Buongarzone.

Perchè Tecchia e Buongarzone, una brunettina pallida e una biondina dagli occhi azzurri, stavano sempre accanto, leggevano nello stesso libro, intingevano la penna nello stesso calamaio, avevano una sola cartella. Capitavano alla scuola, tenendosi per mano, serie serie. Quando Tecchia non sapeva la lezione, neppure Buongarzone la sapeva: quando Buongarzone andava in castigo, Tecchia piangeva sommessamente, sino a che non si mandasse in castigo anche lei. Alla ricreazione passeggiavano a braccetto, senza parlarsi. Facevano colazione insieme, senza far rumore, in un angolo di banco, rosicchiando come due sorcetti. Quando Tecchia andava al pallottoliere, Buongarzone restava fremente al banco, cercando di suggerire, di aiutare l’amica:

— Tecchia — settantatre e otto?

E Buongarzone soffiava, chinando gli occhi, per non farsi scorgere:

— Ottantuno.... ottantuno.

Si capivano fra loro, senza dirsi nulla. Ogni tanto scoppiavano a ridere, di accordo, non si sa perchè, pigliandosi per mano. Poi, si scambiavano le loro riflessioni:

— L’abbaco è scucito.

— Ci vuole il filo bianco.

— Bisogna domandarlo alla bidella.

— Non ci sta.

E si guardavano, l’una nell’ammirazione dell’altra, come se le altre bimbe non esistessero, aspettando l’ora dell’uscita, per andarsene pian piano, tenendosi per mano, dicendo di queste cose:

— Oggi ci stanno i maccheroni.

— Mammella ha fatto la cicoria.

Ma l’ora lunga e difficile fu quella dei lavori donneschi. Poche sapevano fare la calza, qualcuna sapeva far l’orlo: e di queste, poche avevano il filo e i ferri e l’ago e il ditale e qualche cosa da orlare. Santelia cuciva già una camicia. Cavalieri si bucò un ditino, ne sprizzò il sangue, lo succhiò e non volle più cucire. Tecchia e Buongarzone avevano la calza e lavoravano, urtandosi coi gomiti, dure dure, come se contassero le maglie. Le altre che non cucivano e non facevano la calza, non potevano star ferme, non potevano tacere. Dovetti andare molto in collera per ottenere un po’ di silenzio. Dopo cinque minuti, una vocina timida mi chiese:

— Maestra, fateci un favore.

— Che favore?

— Dite prima, che ce lo fate.

— Se non so che cosa è....

— Maestra, ce lo potete fare.

— Dite dunque.

— Maestra, vogliamo sapere come vi chiamate.

Dissi in fretta il mio nome e subito un coro di esclamazioni:

— Oh che bel nome che avete, maestra! Beata voi che avete questo nome.

Ma in questa ora, quella scarna di Aloe, dagli occhi febbrili, fece quante impertinenze possono frullare in una testolina stravagante: stracciò un quaderno, tolse una scarpa a Parascandolo, si ficcò uno spillo tra due denti che non si poteva più cavare, sventrò il cuscinetto di un banco, ruppe un vetro e si ferì una mano. Niente ci poteva: si rideva delle sgridate, si rideva del castigo, andava in un angolo, ballava la tarantella e faceva le castagnette con le dita, si buttava per terra, faceva le capriole. Frenarla non era possibile. In certi momenti mi veniva da schiaffeggiarla: in certi altri mi salivano le lagrime agli occhi. Ella era indomabile.

— Aloe, se non state un po’ tranquilla, chiamo la direttrice e me ne vado su — le dissi placidamente.

Ella mi guardò, di sottecchi.

— Se vi fate dare un bacio, mi sto quieta — mi disse.

— Che! siete troppo impertinente.

— Voglio darvi un bacio — ripetè, ostinata.

Infine dovetti farmi baciare. Allora lei si sedette, stette immobile, con le mani in croce, presa da una tristezza grande. Quando me ne andai, quelle piccine mi circondarono, strillando:

— Maestra, tornate presto! Maestra, non lo dite sopra che siamo cattive!

Aloe se ne andò senza parlarmi.

Nelle vacanze, vicino alla bottega di uno stagnino, vidi Santelia seduta, che cuciva. Mi riconobbe e si alzò, guardandomi con lo stesso sguardo timido:

— È papà vostro, lo stagnino?

— Sì, signora maestra.

— Voi siete passata all’altra classe?

— Sì, signora maestra: ho avuto la medaglia.

— E le altre?

— Ce ne sono restate venti, signora maestra.

— Anche Aloe, nevvero?

— No, signora maestra: Aloe è morta.

— Quando è morta?

— Nel mese di agosto.

— E di che male?

— Aveva la febbre e aveva pure la tosse e le faceva male il petto. Poi, è morta.

— Voi l’avete vista?

— Sì, signora maestra: ci è andata la direttrice e io ci sono andata con Cavalieri. Ha detto alla direttrice: dite a tutte le maestre che cerco perdono delle impertinenze. E le scarpe nuove che la mamma le aveva fatte, che non poteva più mettere, perchè se ne moriva, le ha mandate a regalare a Casanova, quella poveretta che veniva a scuola con gli zoccoli.

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