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Nebulose
Alla scuola Moda

NEBULOSE


Sulla via che si allunga, diritta, quasi interminabile, sotto i pioppi, camminavano lentamente i due amanti che non si amavano. Lasciavano alle spalle un tramonto di viola: andavano verso un tramonto di un grigio tenue delicatissimo. Ella si trascinava stanca e svogliata, facendo strisciare nella polvere la punta del suo ombrellino, trattenuto mollemente dalle dita: lo sguardo aveva la sola espressione di una grande lassezza. Egli si era calcato il cappello sugli occhi, portava il bastoncino sotto l’ascella e fumava attentamente una sigaretta. Non si parlavano nè si guardavano: andavano freddi e noncuranti, immersi ciascuno nell’egoismo delle proprie riflessioni. Erano due cuori inariditi, secchi, morti, che avevano assaggiata l’amarezza di un’ultima delusione, credendo di amarsi. Attori consumati nel mestiere della rappresentazione, avevano insieme recitata la commedia ignobile della passione, esaltandosi sino al punto da crederla vera: ma l’impotenza delle loro anime li aveva prima condotti all’ingiuria feroce, poi all’indifferenza. Perchè odiarsi? Erano due miserabili esistenze, due tronchi colpiti dal fulmine. Ogni tanto, in lei, un senso di nausea, un sussulto nervoso per quest’ultimo convegno, in quella mitezza autunnale, nella campagna malinconica, dinnanzi al triste mare. Un carro carico di botti passò fra loro e li divise: ella fece un moto di disgusto, per quel puzzo di vino, egli si strinse nelle spalle. D’un tratto, lungo la siepe che separa i campi dalla via, in quella luce dubbia del crepuscolo, una piccola ombra scivolò. Era un bambina scalza e cenciosa, che portava sul capo un piccolo fascio di legna.

— Oh, la piccina! — esclamò la donna.

I due amanti si posero a seguire la bimba, che camminava senza far rumore, presto presto.

— Chiamala — disse la donna.

L’uomo chiamò la bambina con due o tre nomi carezzevoli, ma quella parve non avesse inteso. Allora i due amanti affrettarono il passo, la raggiunsero: la bambina camminò accanto a loro, senza guardarli. Finalmente la donna si piantò innanzi alla bambina, impedendole il passo.

— Come ti chiami?

Nulla: alzò un paio di occhi selvaggi, li riabbassò e fece per andarsene.

— Lo vuoi, un soldo? — domandò l’uomo.

E gli mise un soldo nella manina. Il soldo cadde dalle dita aperte, a terra: e la bambina scomparve nella notte.

— Oh povera! — mormorò la donna.

— Poveretta — mormorò l’uomo.

E si lasciarono, per sempre, senz’ira, in un comune sentimento di pietà.

Il bimbo stava fermo innanzi alla vetrina di Natali, guardando le bambole vestite da ciociarine, i fantocci vestiti da arlecchino e le scatole dove annidavano le casettine dipinte e gli alberetti di trucioli verdi. Diceva alla serva:

— Se avessi quattrini, comprerei quel fratello Girard che fa le capriole con le mani e coi piedi: forse costa cinque lire e mamma non vuole mai spendere più di venticinque soldi. Comprerei anche quel sorcetto che si dà la corda e corre per la casa: la palla elastica non la voglio, perchè è brutta, perchè ne ho avute tante....

Allora, accanto a questo bimbo snello e pallido, di una bellezza pensierosa e sentimentale, si fermò una bambina. Era una ragazzina di sarta: portava uno scatolone ovale, coperto di pelle nera, con una larga correggia passata al braccio. Lo scatolone poggiava sul fianco e la faceva piegare tutta da una parte. Vestiva di nero, un nero stinto, dove diventato rossastro, dove verdastro: portava un cappellino di paglia nero, vecchio, circondato da un brutto nastro. Ella stessa era bruttissima, capelli rossi, viso macchiato di lentiggini, occhi senza ciglia, naso rincagnato. Essa, invece di guardare i giocattoli, guardava il bambino, ascoltando i suoi discorsi. D’un tratto il bambino si accorse di lei e le disse:

— Quanto sei brutta!

Quella trasalì, ma non rispose, e restò lì, incantata, a contemplare quel bel bambino, dal labbro orgoglioso.

— Sei brutta, vattene! — disse il bimbo, facendole dei versacci.

Ella se ne andò pian piano, sbilenca sotto il peso dello scatolone, e si perdette nella folla di quella serata estiva. Anche il bimbo si avviò, dando la mano alla serva che lo rimproverava delle cattive parole, dette a una povera creatura. Egli s’indispettiva e rispondeva soltanto:

— È brutta, è brutta, è brutta.

Si ritrovarono di nuovo, sul marciapiede. Sembrava che la bambina avesse aspettato: e seguiva passo passo il bambino, fingendo di guardare in aria o nelle botteghe, quando egli si voltava. Ogni tanto con uno sforzo e con un sospiro si rialzava lo scatolone sul fianco e correva dietro al bambino, senza mai perderlo d’occhio. Fino a che egli si accorse di questa persecuzione e battè i piedi in terra, per la rabbia: si piantò sul marciapiede e quando la ragazzina fu obbligata a passargli innanzi, le dette un pugno in un fianco. Ella se ne fuggì, con le lagrime negli occhi, sorridente e beata.

Batte il sole di settembre sulla piazza di San Marco: è il pomeriggio silenzioso e chiaro. La piazza è deserta. Sotto le Procuratie passeggia qualche ozioso, con le lenti azzurre: intorno ai tavolinucci del caffè Florian, due o tre veneziani sonnolenti guardano nel fondo delle loro tazze, con gli occhi socchiusi. L’ombra del campanile si allunga, bizzarra, sulla piazza. I colombi dormono sul cornicione del palazzo reale, sulle braccia delle statue; ogni tanto se ne stacca uno, fa un volo rotondo, per aria, senza toccare terra, e ritorna al suo posto. A un tratto si ode un largo fruscìo, un batter d’ali sordo e precipitoso, e tutto lo stormo dei colombi vien giù. In mezzo ad essi una bimba, con una gonnelluccia corta e uno scialletto che le avvolge il busto, cava dalla tasca manate di granturco e ne lascia filtrare i grani fra le dita. I colombi formano intorno a lei un circolo fitto, fitto, pizzicandosi, beccandosi, per arrivare al granturco: lei sta nel centro, piccola, con una testolina minuta, con una grossa treccia fulva, mezzo discinta sul collo. Mentre cadono i grani ella guarda i colombi, fissamente, con certi occhi verdini, glauchi. Quando non trova più nulla nella tasca, un’espressione di malinconia le si diffonde sulla faccia. I colombi restano ancora un poco, cercando gli ultimi granelli, pigolando, beccandole le scarpette: poi, a gruppetti di tre, di quattro volano via, se ne vanno sul campanile. Pochi ostinati restano, cercando ancora: e questi qui se ne vanno ad uno ad uno. Ella li vede partire tutti sino all’ultimo, seguendoli con l’occhio, nel volo largo.

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