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GIUOCHI
Era una grande casa di provincia, con un portone sempre chiuso, quello nobile, pei signori, che vi davano un forte picchio col battente — e un portone sempre spalancato, quello dove passavano i carri di grano, di vino, di carbone, di pasta. Sopra, gli stanzoni vasti, alti di soffitto, con le travi foderate di carta fiorata, coi muri dipinti di giallo chiaro o di lilla pallido. Alle finestre grandi e profonde, invece delle portiere di merletto, quelle strette tendine di mussola bianca, attaccate ai vetri. Mobili antichi e anneriti: scrivanie larghe, coperte di incerata nera, dai cassetti profondi; divani lunghi, angolosi, foderati di lana verde e come imbottiti di spini; armadii larghi quanto una parete, che si serravano con un piccolo catenaccio. Nelle cornici nere e tarlate certi quadri sanguinolenti: la battaglia di Solferino, Mazeppa, Marco Botzari — e certe incisioni sbiadite che rappresentavano il Tempio di Serapide a Pozzuoli, la Via dei Sepolcri a Pompei. Per ornamento, sui cassettoni, sotto le campane di cristallo, certi santi vecchi, vestiti da frati cappuccini. Il salone aveva le imposte sbarrate, immerso nella oscurità, proibito ai bambini; del resto, chiuso a chiave, aperto solo quando veniva una visita ufficiale.
Dalle otto del mattino alle due del pomeriggio, la casa era tranquilla e silenziosa, perchè i bimbi erano a scuola. A tavola il pispiglio era dominato da un appetito formidabile, appetito di bambini sani, grassi, forti: dopo, a dormire sino alle quattro, siesta obbligatoria di provincia. Dalle quattro alle cinque studiavamo quelle poche lezioni per il domani: alle cinque....
Alle cinque era la rottura delle file, la libertà, lo scoppio, la rivoluzione, i diavoli scatenati per la casa. Erano inutili le ammonizioni, le minacce, gli schiaffi: l’uno piangeva e gli altri ridevano, dopo un momento rideva anche lo schiaffeggiato. Le mamme, le nonne, le zie si disperavano, si chiudevano in cucina, si rifugiavano nella cappella. Agli otto bambini di casa — da sei a dodici — se ne univano altri sette od otto, piccoli parenti e piccoli amici, che arrivavano condotti dalle serve. Diventavamo un piccolo popolo di creature bionde o brune, insolenti di salute, dalle gambe grassotte, e nude, dalle guance dure e colorite, dai polmoni fortissimi. Piccolo popolo turbolento, sfrenato, che si allargava attraverso la casa e ne prendeva possesso in tutti gli angoli, in tutti i recessi. Avevamo allora per noi i cameroni vuoti dove si stendeva il bucato nei giorni di pioggia; le larghe terrazze sotto il sole, a cui arrivavamo, arrampicandoci per le ripide scalette di legno; la grande loggia del primo piano, piena di maggiorana e di basilico; avevamo la dispensa del cortile dove si conservavano i salami e i formaggi; avevamo i granai, festa della nostra infanzia, dove rotolavamo giù dalle montagne di grano, dove affondavamo nelle montagne di granone, dove mangiavamo l’uva secca e le mele acerbe. Era una corsa attraverso le stanze, un precipizio per le scale e le scalette, un galoppo di puledri sull’asfalto, una tromba rumoreggiante, squillante, ridente, attraverso la malinconia della casa.
Il preferito fra i giuochi, come dappertutto, eri a capinnascondere. Con molta gravità ci mettevamo in cerchio nella stanza da pranzo e tiravamo a sorte, quello che doveva star sotto. Se capitava a una bambina, faceva il muso e se ne andava borbottando a mettersi in un angolo, col viso rivolto al muro, con gli occhi chiusi per non vedere; se era un maschio, faceva il disinvolto e il sicuro di sè. Dopo es serci assicurati che quello sotto non poteva vederci, partivamo in punta di piedi, in gruppi di due, di tre, per nasconderci: ed era una ricerca muta e nervosa, inquieta e taciturna, di un nascondiglio impossibile. Bisognava trovare presto e bene: avere astuzia e audacia; avere fantasia e attività. Vi era il giuocatore egoista, che trovato un nascondiglio per sè, ne cacciava gli altri, col pretesto che facevano rumore e che lo scoprivano; vi era il giuocatore immaginoso, che si ficcava negli armadi, fra le materasse, senza respirare, sorridendo in quella soffocazione; vi era il giuocatore incerto, che girava tutta la casa, senza trovare un cantuccio soddisfacente; vi era quello audace che si metteva semplicemente dietro una porta, dietro una poltrona, a due passi da quello celato, con la magnifica certezza di non essere scoperto, per le troppe probabilità di essere preso; e vi era finalmente quello sciocco, che si ficcava stupidamente sotto un letto. Quando tutti erano nascosti, si sentiva un griduccio lontano, stridulo, prolungato:
— Vieni.....i!
Allora quello sotto si moveva con precauzione, non allontanandosi molto dal suo posto, guardando a dritta, a sinistra, camminando a piccoli passi. Palpitavano i piccoli cuori nei nascondigli; dove erano nascosti due l’uno diceva all’altro:
— Non ci trova, no; è troppo scemo.
Finalmente quello sotto si risolveva a lasciare il posto e la stanza da pranzo: allora si schiudevano le porte, gli armadi, si scostavano le sedie, le scrivanie, e i nascosti fuggivano, al posto, strillando la loro vittoria. Mentre quello sotto ne perseguitava uno, invano, gli altri sbucavano da tutte le parti, gridando, felici di non essere stati presi, correndo al posto. Allora quello sotto se ne andava tranquillamente a guardare sotto i letti e trovava il bimbo sciocco, accovacciato, che non aveva osato fuggire e che si faceva prendere come un sorcio in trappola, chinando il capo e allungando il muso; noi gli dicevamo, ridendo:
— Stupido, perchè ti sei messo sotto il letto? E non potevi scappare, quando lui è passato?
— Sapevo questo, io, che lui mi trovava — borbottava lo scemo, andandosi a metter sotto.
Ma le partite più interessanti erano quando colui che stava sotto era molto furbo — Michele, per esempio, che poi è diventato medico. Allora noi ci riscaldavamo, facevamo un complotto nell’anticamera, per trovare un nascondiglio assurdo. Michele, dalla sala da pranzo, diceva con voce canzonatoria:
— Posso venire?
E noi, in coro, impazientiti:
— Non ancora, non ancora!
Infine decidevamo di ficcarci due o tre nel gallinaio, spaventando le galline; un altro paio dentro l’arca, dove s’impastava il pane, tenendone un po’ sollevato il coperchio per respirare; e qualcun altro saliva sopra gli armadii, a rischio di rompersi il collo: la più piccola, Adelina, si andava maliziosamente a ficcare dietro Mariagrazia, la serva che filava e non si moveva più per non scoprire Adelina. Allora quel furbo di Michele stava un poco a pensare, poi direttamente, come se qualcuno glielo avesse detto, andava al gallinaio e ne prendeva due pel collo, apriva l’arca e ne prendeva un altro paio, diceva a quelli sull’armadio di scendere: e noi restavamo mortificati, chiedendogli:
— Come ci hai trovati? chi te lo ha detto? Quella birbona di Concetta, la cameriera?
— Ho capito — diceva lui, modestamente glorioso.
— Ma me, non m’hai chiappato — gridava Adelina, spuntando di dietro a Mariagrazia.
— T’avevo vista, ma non t’ho voluta prendere — diceva lui, sdegnoso e trionfante.
Sino a che un giorno, a questo malizioso e dispettoso Michele, pensammo di giocargli un tiro. In un granaio pieno di quadri vecchi e di mensole del primo Impero, vi era un canestrone rotondo, alto tre metri, come due botti di vimini, una sovrapposta all’altra. Ci si met teva la biancheria sporca. Per entrarvi dentro lo facemmo traboccare per terra, e vi entrammo, in sei, come nella bocca di un forno: poi premendo sul fondo, lo facemmo rialzare e restammo immobili, in fondo a questo pozzo rotondo. Ridevamo fra noi, perchè certo Michele non ci avrebbe mai trovati. Stavamo allo stretto, uno addosso all’altro, ma felici di aver burlato Michele. Appena Adelina si lamentava che le doleva un piede, qualcuno le mormorava:
— Zitto, bestia! ci farai scoprire.
Passava il tempo. Michele non veniva.
— Non ci trova, non ci trova — dicevamo sottovoce, ridendo.
Poi, cominciammo a seccarci. Poichè Michele non ci trovava, era meglio uscire di là e andargli a dire che era uno scemo, uno scemone, che gliel’avevamo fatta. Ma che! Noi premevamo sul fondo e il canestrone rimaneva ritto, con le sue pareti alte come quelle di una torre: non sapevamo rovesciarlo più, per uscirne. Le pareti contro cui battevamo per farlo voltare, scricchiolavano, ma noi pesavamo troppo sulla base. Prima ci guardammo tutti spaventati: poi Adelina pianse e strillò: poi piangemmo e strillammo tutti. Dopo un quarto d’ora di questa desolazione in fondo al canestro, vennero a liberarci Mariagrazia e Concetta, le serve, che rovesciarono il canestro e ci trassero fuori, esse ridendo, noi piangendo. Ma il più terribile dell’avventura fu questo: che quell’infame di Michele era venuto piano piano nel granaio, aveva capito che noi eravamo nel canestro e se n’era andato placidamente, prevedendo la nostra impossibilità di uscirne, a far merenda con un pezzo di pane e una fetta di prosciutto. Egli pel primo e poi tutti i parenti si burlavano di noi, anche lo zio cancelliere che era così serio, anche zio Gabriele che era paralitico. Fu una sconfitta famosa.
La mosca cieca veniva dopo. Tutto lo studio era di stringere bene il fazzoletto sugli occhi a quello che stava sotto e poi domandargli:
— Ci vedi?
— No.
— Di’: quanto voglio bene a mammà, non ci vedo.
Ed egli giurava, e cominciava a brancolare, mentre noi scappavamo, facendo scambietti, capriole, accovacciandoci, sfuggendo come anguille: fra le risa convulse scoppiava il grido:
— Ci vede, ci vede! il giuoco non vale!
Poi, egli ne acchiappava una che si dibatteva, tenendola stretta:
— Chi è? Chi è?
— È Clelia.
— Bravo, Peppino, bravo! è Clelia!
Clelia andava sotto. Ma alla semplice mosca cieca noi ne preferivamo una più complicata, quella con la spazzola. I bimbi e le bimbe si prendevano per la mano e facevano un circolo attorno a Clelia, ritta in mezzo, bendata, con la spazzola in mano. Dopo aver fatto due o tre giri in modo da confondere le idee di Clelia, ci fermavamo, tenendoci sempre per mano. Allora ella si accostava a una e cominciava a passarle delicatamente la spazzola sul viso, sul collo, sui vestiti. La spazzolata si inchinava avanti, si piegava indietro, si inginocchiava per non farsi riconoscere e fremeva di non poter ridere, per non fare sentire la sua voce, e si contorceva tutta, mentre gli altri erano convulsi di risate taciturne. Dopo avere molto spazzolato, Clelia pensava un poco e diceva:
— Ha il nastro nei capelli: è Cristina.
E tutti scoppiando:
— Ma che Cristina, che Cristina! Giro, giro, giro!
La ronda ricominciava, si arrestava di nuovo, Clelia faceva passeggiare la sua spazzola sopra un altro viso, lungamente, producendogli il solletico. Si moriva dal ridere, affogandosi per non farsi udire. Finalmente Clelia, trionfante, esclamava:
— Ha il grembiule di mussola: è Matilde.
Ma stanchi di questi giuochi, ne inventavamo una quantità, parodiando i grandi. Giocando alle visite si udivano questi dialoghi:
— Come sta il vostro bambino?
— Benissimo, ma ha sette anni e vuole succhiare ancora. E vostro marito, Carluccio, come sta?
— È troppo impertinente: lo metterò in collegio.
Si giocava all’ammalato. Adelina si stendeva sopra due sedie, Manuelita faceva la mamma disperata, Cesarino, con un paio d’occhiali fatti di buccia d’arancio e con voce burbera, diceva:
— Questa bambina sta male, ha mangiato troppe ciliege e troppa crema. Le darete due once di olio di ricino...
— Io non lo voglio! — strillava Adelina.
— E allora tu muori. Poi un poco di brodo, poi un pollo arrosto, poi un merluzzo allesso, poi un biscottino....
— Ne voglio cinque! — strillava Adelina.
— Figlia mia, figlia mia, mi fai disperare — diceva Manuelita.
Si giocava alla chiesa, facendo l’altare con un tovagliolo sopra una panca, il ciborio con un organino ritto sulle pieghe. Ferdinando si metteva un berretto di carta e una pianeta tagliata da un giornale: poi usciva, con Carluccio dietro, per dire la messa. Noi eravamo le divote, inginocchiate, leggendo in certi libretti nostri, battendoci il petto. Spesso due divote chiacchieravano fra loro:
— Io ho piacere della messa di don Ferdinando, perchè è breve.
— E si capisce tutto. Sta dicendo il rosario?
— No, mi racomando alla Madonna Addolorata.
— Pregate per me!
— Indegnamente.
Dopo, seduto dentro un quadrato formato da quattro sedie, Ferdinando faceva il confessore nel confessionale: la penitente veniva tutta compunta:
— Padre, ho detto molte bugie.
— Hai fatto male, figlia: quante ne avrai dette? ventimila?
— Più assai.
— Un milione?
— Oh padre! Ho anche rubato certi pezzettini di zucchero, dalla zuccheriera.
— Ora lo dico a mammà — esclamava Ferdinando, levandosi in piedi.
All’imbrunire, quando ci era venuta la stanchezza e la malinconia, ci riunivamo intorno a Mariagrazia.
— Mariagrazia, dicci un conto! Un conto. Mariagrazia, vogliamo il conto!
E Mariagrazia, prendendosi Adelina e Peppino sulle ginocchia, lentamente, senza guardarci, con noi che la guardavamo negli occhi, ci raccontava la fiaba del Re serpe o quella del Re porco o quella della Schiava Saracina o il vero fatto accaduto di Fra Giovanni.