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Una fioraia
A un poeta Giuochi

UNA FIORAIA


Date lilia.......


La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per la via stretta e tortuosa dei Mercanti. Ella non guardava nelle botteghe, non alzava gli occhi a quella lunga striscia di cielo che appariva fra le alte case, non guardava neppure dinnanzi a sè. Guardava le pietre, come se le contasse. Camminava, senza curarsi del fango del selciato, degli urtoni che le davano, di qualche rara carrozza che passava. Quando arrivò alla chiesetta del Cerriglio, dirimpetto alla statua dell’Eccehomo vestito di rosso, coronato di spine, con gli occhi pieni di lagrime immobili, la fronte e il petto macchiati di sangue coagulato, la bimba gli dette uno sguardo indifferente e tornò indietro, con la stessa andatura rigida.

Era una mendica. Aveva fame, aveva freddo, aveva sete. Aveva le gambe nude, i piedini scalzi che si deformavano nella mota. In quel gelido giorno di febbraio, ella non portava che una camicia e un sottanino lacero e sfrangiato, mantenuto su, alla cinta, da uno spago. Aggrovigliato al collo, un brandello di ciarpa all’uncinetto. Niente altro. La bimba era molto magra, quasi stecchita: dagli strappi della camicia e del sottanino si vedeva una carnagione esangue, cinerea; sotto la ciarpa si vedevano le due ossa clavicolari sporgenti, come se volessero bucare la pelle; s’indovinava la meschinità malaticcia di quel busto legnoso di bambina. Le spalle erano aguzze, curve, come quelle di chi si raggricchia sempre per freddo o per chetare lo spasimo dello stomaco. Un volto serio e grave, con la medesima tinta plumbea del corpo; rugata la fronte breve; corrugate le sottili sopracciglia, troppo grandi gli occhi dalla palpebra bigia, sottolineati di bistro, incavernati, profondi; duro, rigido il profilo, già formato come quello di una donna; la bocca stretta, chiusa, le labbra pallide, senza fremiti, con due rughe agli angoli. Ella aveva sette anni.

Un giorno aveva avuto una madre scarna, mendica anche lei. Vagavano ambedue per le vie di Porto, cercando l’elemosina. Mangiavano spesso del pane e dormivano in un sottoscala, sulla paglia, la figlia col capo in grembo alla madre. Poi la madre era morta, di tifo: la bambina era rimasta sola, sul lastrico. Non pianse, non gridò, uscì per cercare l’elemosina, non ebbe nulla: quel giorno non mangiò e dormì all’aria aperta, sullo scalino della chiesa di Portanova, arrotondata come un cane.

Per tre anni la vita della bambina non aveva avuto varianti. Ella non sapeva nulla, non ricordava nulla, altro che un lunghissimo giorno in cui aveva avuto sempre fame. Dalla mattina cominciava le sue peregrinazioni. La strada dei Mercanti, lungo budello contorto, era la sua casa, ed ella ne conosceva tutte le viuzze, i vicoli ciechi, gli angiporti paurosi, le botteghe nere, i ruscelli fetidi, i portoncini angusti e bruni, illuminati di una luce fioca e grigia, le scalette smussate. Andava e veniva, senza posa, dalla piazzetta di Portanova, donde era il suo punto di partenza, sino alla cappella del Cerriglio, dove era il suo punto di arrivo. Si fermava a piazzetta di Porto, faceva un mezzo giro e riesciva all’antico Sedile, dava uno sguardo al simulacro del dio Orione attaccato alla muraglia che il popolo chiama Pesce Niccolò, poi saliva per Mezzocannone, bagnandosi i piedi nelle acque azzurre, rosse, violette dei tintori che lavoravano in certi antri lugubri, intorno a caldaie nere, agitandovi un miscuglio misterioso. Arrivata su, non osava andare più oltre e ridiscendeva ai Mercanti; non dava neppure un’occhiata alla taverna aperta sotto un porticato dove si friggevano pesci e pastelle, dove si espandevano le vivezze rosse del soffritto e gli acuti odori delle pastinache in aceto. Voltava a destra per la scaletta lurida di santa Barbara, s’inerpicava fino al famoso biscottaio, ma i biscotti le facevano troppo gola e scappava via: al ridiscendere, si fermava innanzi alla porta dello stabilimento di bagni, guardando una vasca di macigno artificiale, dove non ci era acqua, ma dove si ergeva una musa dalle larghe foglie verdi: continuava la sua via sino al Cerriglio e tornava indietro, sempre col suo passo guardingo, sfiorando i muri, scivolando tra le gambe dei viandanti.

Quelle viuzze nere, quella strettezza, quella miseria, quelle case stillanti umidità, quei cattivi odori, quei portoni sospetti, quelle tinte cupe, quell’assenza di sole, quelle facce usuraie dei commercianti, quelle facce losche dei loro mediatori, quelle facce ebeti di male femmine, quella merce gretta, impolverata, avariata, erano tutto il suo mondo. Sentiva vagamente che di sopra santa Barbara, di sopra Mezzocannone, di sopra il Cerriglio, alla fine di via Principessa Margherita, vi era un altro mondo, ma ella temeva di arrischiarvisi, ne aveva una paura selvaggia. Anche giù nei Mercanti, ella aveva paura delle altre mendicanti che la picchiavano, dei cani che volevano morderla, delle guardie che potevano arrestarla: ma ella era furba a schermirsi da questi pericoli. Lassù, il pericolo era ignoto. Quando arrivava a quei limiti, dava uno sguardo sospettoso in su, poi fuggiva, nascondendosi il capo ricciuto nel braccio, come se la perseguitassero.

Chiedeva l’elemosina, ma non gliela davano spesso. Tutta quella gente affaccendata a guadagnare una dura giornata, bottegai accaniti a imbrogliare i compratori contadini, facchini curvi sotto le balle, serve luride e straccione, non badavano a lei. Qualche galantuomo la prendeva per una piccola ladra e si tastava le tasche, dicendole una parolaccia; qualcuno, anche vestito decentemente, era povero, la guardava e si stringeva nelle spalle. A qualcuno faceva disgusto, e la scacciava con un gesto di noia. Ella chiedeva prima a voce alta, quasi imperiosa, un soldo per mangiare, non avendo mangiato il giorno prima, nella tortura dello stomaco che si ribellava: poi la voce si abbassava, diventava supplichevole, ansante, lamentosa, poche e gelide lagrime le scendevano per le guance. Essa continuava ad andare e venire, come per istinto, balbettando parole indistinte, sino a che la voce le si seccava nella gola riarsa: allora chiedeva l’elemosina con la intensità dello sguardo. Verso la fine della giornata, quando non le avevano dato nulla, era presa da una grande stanchezza, il capogiro la faceva vacillare, ella si trascinava sino ai gradini della chiesa di Portanova e vi rimaneva, immobile, accoccolata, come un batuffolo di stracci, donde sfuggiva un sordo lamento. Si rialzava, per girare ancora, fra i lumi che si accendevano, gli operai che ritornavano dal lavoro e l’odore di mangiare che usciva dalle botteghe socchiuse. Allora arrivava a raccogliere due centesimi o una fetta di pane o un osso di costoletta o uno scampoletto di trippa, e scappava a divorarlo, provando un bruciore insopportabile allo stomaco. Ma venivano spesso i giorni in cui non aveva nulla e si addormiva in un torpore malaticcio, senza aver mangiato altro che le bucce di aranci fradici, o masticato i baccelli dei piselli. Il sabato era il migliore suo giorno: al sabato una femmina giovane, col fazzoletto di seta rosso attorno al collo, la gonna corta e legata sullo stomaco, la pianella col tacco alto e il fiocco verde, la pettinessa d’argento nell’alto cocuzzolo dei capelli impomatati, le guance cariche di carminio, le dava un soldo. La giovane femmina stava per lo più accantonata a un portoncino, le mani nelle taschette del grembiule, lo sguardo vagante, la fisonomia stupida, canticchiando dalla mattina alla sera una canzoncina lenta:

Spina de pesce,
Sta vita desperata quanno fenesce?

Ogni giorno, molte volte, la bimba le passava daccanto. Ma solo il sabato l’altra le dava un soldo: questo per cinque o sei mesi. Poi la donna scomparve. L’avevano buttata o s’era buttata nel pozzo.

In quella giornata di domenica, la bimba si sentiva morire. Ogni tanto le mancavano le forze e si sedeva per terra. Le botteghe erano chiuse, i viandanti frettolosi non le davano retta, dirigendosi tutti alle strade superiori, scomparendo lassù: ella li seguiva macchinalmente, con lo sguardo. Entrò nella chiesa di Portanova. La chiesa era vuota, le parve immensa e paurosa; ebbe una sensazione di freddo, co’ suoi piedini nudi sul marmo; il sagrestano l’acchiappò e la mise fuori. Ella riprese la sua corsa nelle strade spopolate: si vide sola, disperata. Tutti erano andati lassù.

Allora, dimenticando la sua paura, spinta dalla fame, dall’istinto, superò la frontiera, e oltrepassato il larghetto di Rua Catalana, salì gli scalini di san Giuseppe. Fu stupefatta: vedeva quello che non aveva mai visto, la strada larga, i magazzini puliti, i palazzi bianchi, i giardini, il cielo. Dimenticava la sua fame davanti a così mirabile spettacolo: non vi pensò più dinnanzi a un negozio di giocattoli. Lassù tutto era bello: ed ella seguì la folla che si avviava per Fontana Medina, fermandosi ogni momento, eccitata, curiosa, scordandosi di chiedere l’elemosina. Solo le carrozze la spaventavano col continuo loro incrociarsi; ma seguiva il marciapiede. A piazza Municipio, vinta di nuovo dalla stanchezza, sedette sopra un banco, presso il giardino; ma dopo un poco saltò giù e corse anche lei verso san Carlo: là si perdette, piccina come era, nella folla che la trascinò verso san Ferdinando. Non vedeva niente, annullata fra la gente; aveva caldo, stava bene. Ogni tanto vedeva passare nell’aria un mazzetto di fiori, poi un altro, poi una pioggia di fiori: ogni tanto la folla si gettava da parte, per lasciar passare un equipaggio, dentro una signora bellissima, seduta in mezzo alle stoffe e ai fiori: visioni rapide, fuggevoli, fulgide, che quasi sgomentavano la bambina. Passò il tempo, così. Imbruniva: i fiori cadevano più lenti, il clamore era più basso, la folla si diradava. Accanto alla bimba passò una leggiadra apparizione di donna, dall’abito nero, succinto e ricco, dal volto bianco e sorridente, dagli enormi brillanti alle orecchie delicate: portava in mano un cestino di fiori, a mazzetti e disciolti. Era una fioraia meravigliosa, che accumulava denari nel fondo del cestino.

— Signora, signora — mormorò una voce infantile — dammi un fiore.

E la fioraia, con un moto gentile e svelto, lasciò cadere nelle mani della bimba un manipoletto di garofani. La bimba sorrise, ficcò un garofano in un bucherello della sua camicia e volle anch’essa vendere i fiori, poiché ne aveva tanti. Ma da lei la gente non ne comprava. Uno studente le disse: quando sarai più grande, potrai vender fiori. Un grasso signore si pose a declamare contro l’accattonaggio e contro l’inerzia della questura. La bimba non comprese il senso, ma inteso che la maltrattavano. Neppure lassù erano buoni con lei. Ella era lacera, scalza, brutta: i suoi grandi occhi spalancati mettevano paura, la sua testolina arruffata e selvaggia faceva paura. Ora la fame riappariva feroce, mettendole un fuoco nel petto, straziandola. Si trovava presso la Boulangerie française, donde usciva un odore di pane e di pasticcini che la faceva svenire. Offriva i suoi fiori macchinalmente, senza poter più parlare, con un singhiozzo lento che le sollevava il petto. Un soldato passò e comprò un garofano: dette un soldo. La bimba entrò nella panetteria e comprò un panino da un soldo. Le bastava. Voleva andar via. Ricominciava ad aver paura. Quelle carrozze la stordivano, lei che voleva passare dall’altra parte. Prese la rincorsa, abbassando il capo... Nella carrozza una signora gittò un grido e svenne.

Ma sulla via, presso il marciapiede, agonizzava una innocente creatura, con la gambina sfracellata. Agonizzava, giacente fra i garofani che le si erano sparsi d’attorno, stringendone uno sul petto, tenendo il panino nell’altra mano, con la faccia bianca e seria, la bocca socchiusa, coi grandi occhi meravigliati e dolorosi che guardavano il cielo.

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