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Perdizione
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PERDIZIONE


Mentre la bionda mammina placidamente ricamava un orlo di camiciuola e Mario, seduto sul tappeto, intagliava certi soldatini dipinti di rosso e di azzurro sulla carta, entrò improvvisamente il giovane padre, tutto allegro:

— Su, Mario, su fantoccetto mio, fatti vestire da mammina ed usciamo: ti conduco a spasso.

La mammina aveva lievemente aggrottate le sopracciglia e non si era mossa: Mario era balzato in piedi, abbracciando le gambe di papà, strofinandosi contro i calzoni:

— O papuccio mio bello, o piccolo papà caro — ripeteva, ridendo, avvinghiandosi come un serpentello.

— Andiamo, Tecla, vesti Mario: si fa tardi.

— Veramente vuoi condurlo a spasso? — chiese ella, sorpresa, senza alzarsi.

— Figùrati, ho due ore di libertà, un vero miracolo! Questa creatura non esce mai con me.

— Se lo conduci al Pincio, avrà freddo.

— Non lo conduco al Pincio. È vero, burattinello mio, che non te ne importa niente del Pincio?

— Non me ne importa, papino, purché tu mi conduca e la mammina mi metta l’abito di raso.

— Ai Prati di Castello ci farà umido — osservò la madre.

— Non lo conduco ai Prati — non lo vuoi far uscire, il bimbo? Sei gelosa eh?

— Ma che! — fece lei, dando una spallata.

E alzandosi lentamente, con una grande svo gliatezza andando e venendo senza fretta, aprendo tutti i cassetti e tutti gli armadi, senza trovare nulla, la mammina bionda vestì Mario. Il quale ritto, in camicia, sul letto, agitava le gambe aspettando le calze e gli stivalini, scherzando con suo padre, buttandosi giù sul letto, facendosi solleticare, ridendo sempre, baciucchiando il suo papà bello che si abbandonava, ridendo, sul letto, anche lui. Più d’una volta, mentre gli tirava su le calze, gli allacciava gli stivaletti e gli abbottonava il vestitino, la bionda mammina si era chinata sul collo di Mario, come se avesse voluto dire qualche cosa in segreto al bimbo. Ma il papà era sempre lì, fermo ad aspettare, sorridente. La mammina sbagliò tutta la fila di bottoni e dovette ricominciarla. Mario fremeva d’impazienza, dimenandosi: il papà aveva già il cappello in testa e mammina cercava ancora un fazzolettino da dare a Mario.

— Gli dò il mio, Tecla, se gli serve.

— Non mi serve, andiamo, papà piccino.

— Non gli comprare giocattoli — disse sottovoce la mammina al papà.

— Non dubitare, non glieli compro.

E allora la mamma diede un lungo bacio sulla fronte del figlioletto, come se volesse far parlare alle labbra una lingua sconosciuta. Essa uscì sul pianerottolo e guardò il padre ed il figlio che scendevano le scale, saltellando e chiacchierando:

— Mario? — chiamò ella.

— Che c’è, mamma?

— Senti una cosa.

— Dilla di lassù, mammuccia.

— Se hai freddo, ti dò il cappottino.

— Non ho freddo. Addio, mamma.

Sulla porta del baraccone, dove si entrava a vedere la vasca dei coccodrilli e il gabbione delle tigri, a Mario era venuta meno la curiosità ed il coraggio. Guardava il suo papà con una faccia fra la paura e il desiderio, ma stava fermo, in mezzo all’esedra di Termini, non osando entrare.

— Sono grossi i coccodrilli, papà?

— Sì, pauroso mio.

— Grossi come Nanna, la cuoca?

— Più lunghi e più schiacciati.

— Andiamo via, papà. Raccontami tu i coccodrilli e le trigi. Mi comprerai un giocattolo a via Nazionale, coi quattrini che dovevi spendere nella baracca.

— No, gioia mia, ne hai troppi di giocattoli.

— O papà, che dici! Alessandro, alla scuola, se sapessi quanti ne ha, di belli, di complicati, con le macchinette dentro, per far camminare! Ci ha la ferrovia, con tre vagoncini, e dentro vi sono i viaggiatori e sulla caldaia vi è un macchinista, tutto nero, poveretto! Poi ci ha un giuoco di cavallo, coi saltatori, coi cavalerizzi che girano, girano. Capisci, si dà la corda, papà. Avevi tu giocattoli, quando eri piccolo piccolo, come me?

— Pochi, Mario.

— E le impertinenze le facevi?

— Meno di te, biricchino.

— Gli scappellotti te li davano, papà?

— Sì, caro.

— E ti facevano male?

— Qualche volta, Mario.

— Vedi, papuccio, quando mamma mi dà uno schiaffetto, non mi fa mai male. Io piango forte e strillo, ma non è vero niente. Ora non me ne dà più mamma.

— Le vuoi bene a mamma?

— Sì, papà piccolo: ma voglio più bene a te.

— Non lo devi dire, questo. Perchè vuoi più bene a me?

— Non ti vedo che a pranzo, papà mio! E la mamma, la vedo sempre. Se mi compri un giocattolo, dico che voglio bene lo stesso a tutti due.

— Brutto bugiardone! Non preferisci prendere una granita da Singer?

— Sì, papà; la granita di amarena che è rossa.

Poi quando ebbe lentamente presa la sua granita per farla durare di più, Mario volle comprare le paste per portarle alla mammina che, poveretta, era rimasta in casa e non aveva avuto granita. Volle portare il pacchetto, infilando il dito nel nodo dello spago.

— Papà, quando sarò grande, potrò mangiare una granita ogni giorno?

— Ti faranno male allo stomaco.

— No, no, non mi faranno niente. Papà, io voglio essere corazziere.

— E se rimani piccolo? Tu sei ancora il mio pupazzetto!

— Oh dammi da mangiare, fammi diventare alto e grosso, papà. Se resto piccolo, non mi vogliono per corazziere, papà.

Ma la grande vetrina di Natali lo sedusse. Tacendo, con gli occhi intenti, con la bocca socchiusa, guardava quei giocattoli meravigliosi. La manina stringeva quella del padre, come se volesse comunicargli i tuoi fremiti. E il visino era così pallido di desiderio, gli occhi buoni supplicavano tanto, che il padre non seppe resistere ed entrò con Mario nella bottega per compargli un giocherello.

— Sono contento che tu mi abbia comprato questo paese — mormorava Mario, salendo in carrozza, per tornare a casa. — Quante saranno le case?

— Venti, forse.

— Ed io ti darò venti baci piccoli, e se vi è un lungo campanile, te ne darò uno grosso grosso. Sono più contento, perchè questo è un giocattolo con cui posso giuocare a casa. Venerdì mamma m’ha comprato un cerchio di legno e una palla elastica. Che n’ho da fare, in casa, del cerchio e della palla? Guastano i mobili e possono rompere gli specchi.

— Ti servono al Pincio, mummietta mia ragionevole.

— No, no, mi servono a villa Pamphily. Venerdì ci siamo stati, con mamma. Io ero annoiato di stare in carrozza chiusa, con mamma, ma essa m’ha detto: quando siamo lì, scenderemo.

— Non eri mai andato in carrozza chiusa, Mario?

— Mai, papà.

— E lassù hai giuocato col cerchio e con la palla?

— Sì, mentre mamma discorreva con Riccardo.

— Con Riccardo?

— Sì, papà.

— Che faceva Riccardo?

— Passeggiava, papà. Per un pezzo sono stato con loro, ma non mi davano retta e sono corso innanzi, con la palla: poi la palla è andata in un viale di contro e, per cercarla, non ho più trovata la mamma. Se mi perdevo, papà, mi avrebbero mangiato i lupi, in quella foresta.

— Sì... forse. E... la mamma?

— L’ho riacchiappata vicino alla carrozza, che mi aspettava.

— Dopo quanto tempo, Mario?

— Dopo cinque minuti, papà.

— È troppo poco.

— Allora dopo cinque giorni, papà. M’ha sgridato ed io ho pianto. La colpa era del cerchio e della palla e li ho bastonati. Riccardo è salito in carrozza con noi. Allora hanno abbassate le tendine e non vedevamo più la strada. Siamo scesi a Ripetta, papà, ma prima Riccardo ha baciato mamma sul collo. Perchè lo ha fatto, papà?

— . . . . . . . .

— Noi siamo andati via e lui è rimasto in carrozza. Ma perchè lui bacia la mamma sul collo? Lui non è il mio papuccio bello; lui non è Mario, la mummietta bella, per baciare la mamma. Digli che non lo faccia più, papà.

— Glielo dirò, figlio mio.

La madre aspettava il bimbo sul pianerottolo, tendendo l’orecchio al rumore dei passi.

— Sei solo, Mario?

— Solo. Papà m’ha comprato il paese, mamma, e le paste per te.

Ella tremò tutta, impallidendo. Il bimbo, ritto innanzi a lei, la guardava, con gli occhi lucenti.

— Dove è tuo padre, Mario?

— È andato a dire a Riccardo che non ti baci più, mamma.

— Figlio mio! — gridò lei, piombando a terra, con le braccia aperte.

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