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GLI SPOSTATI
Suo padre è un giornalista, sua madre una maestra di lingue straniere. Il bimbo ha otto anni, ma pare che ne abbia dodici per le strane cose che sa, per le singolari risposte che dà. Egli è già stato a Venezia, a Firenze, a Napoli, non gli resta più nessuna impressione di paesaggio per la sua gioventù: egli si stringe nelle spalle quando gli nominano il Vesuvio o la gondola. Ha dormito in tutti gli alberghi, da quello di primo ordine, servito come un piccolo principe ereditario, divertendosi a suonare ogni momento il campanello elettrico, a quelli di quart’ordine, stanze fredde ed incomode, senza tappeti, col letto stretto e duro. Questo bimbo ha già pranzato in tutte le trattorie, ha preso il gusto delle pietanze complicate e degli intingoli piccanti: egli sa chiamare il cameriere e ordinargli del vitello alla salsa di tonno e una maionese di arigusta. Prima di entrare egli dice al papà: Papà, se abbiamo quattrini, voglio la pernice coi tartufi. E il papà gliela fa portare: mentre il giorno seguente si pranza a casa in fretta, con un semplice arrosto di capretto, circondato da molte patate. Il bimbo è già stato in tutti i teatri e ha inteso l’Aida, il Lohengrin, il Faust e il Poliuto: egli ama l’Aida per i morettini, il Faust perchè vi è un bel diavolo, ma tollera appena il Lohengrin perchè vi è il cigno, e non può soffrire il Poliuto perchè non vi è nulla di tutto questo. Ama molto la Durand e la Singer: delle altre non si cura. La prosa lo interessa meno della musica, ma ci va per le attrici. Negli intermezzi il padre lo mena sul palcoscenico: questo bambino è amico della Marini, la Tessero lo ha baciato, la Campi gli ha donato dei confetti ed egli ha fatto una passione per la Pietriboni. È un bimbo che non ha mai sonno, a mezzanotte; e quando rimane in casa, invano la serva cerca di narrargli le favole: egli è nervoso, non può dormire. Ha imparato a leggere sopra un giornale e sa gli pseudonimi di suo padre. Non sa scrivere ancora bene e già compone brani di cronaca. È un bimbo che ha sempre male allo stomaco, perchè in casa sua ora si pranza all’una, ora alle otto, ora si beve il Bordeaux, ora il vinello acido. Egli conosce già il modo di licenziare un amico importuno e impara quello di burlare i creditori; ha assistito a un sequestro, mentre sua madre, pallida, piangeva, e suo padre era scomparso. Sono già due o tre volte che suo padre se lo abbraccia strettamente, e baciandolo, gli dice sottovoce di essere buono, di non dare dispiaceri alla mamma: e una di queste volte il papà è tornato a casa, disteso in una carrozza, svenuto, insanguinato, col braccio trapassato da una palla. Durante la malattia, niente pranzetti, niente scarrozzate, niente teatri: ma una miseria crescente, i creditori feroci, la madre sfinita, il padre torbido e rabbioso. Questo bambino, in fine, sa che suo padre è scettico e ha udito una quantità di discorsi ironici sull’amore, sulla patria e sulla virtù — e mi ha detto, un giorno, seriamente: Tutto sta in un buon colpo di rivoltella.
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L’unica figliuola di un albergatore ricco: non ha la mamma. Il padre, che l’adora, l’ha affidata alla cameriera maggiore che se la porta dapertutto, in cucina, in cantina, nelle soffitte, negli appartamenti, al salone di ricevimento, sempre con lei. La bambina — dieci anni — vive in questo grande andirivieni, tra una folla che si rinnova sempre. Ha una stanzetta che è un amore e uno studiolo col pianoforte, ma se la gente è molta, bisogna finire per cedere anche il suo quartierino, e la bimba con la cameriera passano, di stanza in stanza, dormendo ora qua ora là, accampate, salendo dal primo al quinto piano. La bimba finisce con istudiare un quarto d’ora la sua lezione di pianoforte, nel salone, tra il chiacchiericcio inglese, tedesco, francese. I viaggiatori le sorridono, le parlano, la baciano, ed ella ha imparato a non infastidirsi, a sorridere macchinalmente, a fare la riverenza, a dire: «J’aime beaucoup la France, monsieur.» Tutti questi visi estranei, indifferenti, sempre in arrivo, sempre in partenza, le passano innanzi come una fantasmagoria, e lei ha già imparato a ricondurre un viaggiatore fino alla porta, a mandargli un bacio di addio e a stringersi nelle spalle, quando è partito. Ella sa pranzare a tavola rotonda, rifiutare una pietanza, piegare il tovagliolo: ella sa tutte le magagne del cuoco, le costolette dall’osso appiccicato, il burro che serve tre volte, gli avanzi di carne che formano l’infarcitura del timballo, il lesso di quattro giorni che diventa polpetta in umido, il bianco mangiare fatto con l’amido, i pasticci economici di crema di castagne, e sorride della buona fede dei viaggiatori. Ella vede le gradazioni di rispetto dei camerieri per la vecchia principessa col seguito, per la coppia felice di sposini ricchi, pel banchiere tronfio e pel deputato chiacchierone: ha imparato a disprezzare i miserabili che vogliono una stanza al quarto piano, con finestra sul cortile, che non pranzano a tavola rotonda, che non pigliano caffè nell’albergo e portano nella valigia una quantità di steariche, per non consumare quella dell’albergo, che costa una lira. Ella vede e sente una quantità di cose, dagli usci socchiusi, passando pei corridoi, entrando improvvisamente nel salone, alla fine del pranzo o di notte: disordini equivoci di camere, signore in camiciuola che si pettinano, signori in maniche di camicia che si tingono i mustacchi, camerieri che baciano furtivamente le cameriere, signori arzilli, scricchiolii di porte, sbagli di numero, ombre che attraversano i corridoi di notte, dialoghi sommessi. Lei china gli occhi, impallidisce e sorride. Quando si sta in famiglia, col padre, con lo zio, coi cugini, ella sente i discorsi brutali d’interesse, i progetti avidi di guadagno, le combinazioni migliori per scorticare la gente, e tutto l’odio, il disprezzo che ha l’albergatore pel viaggiatore. E due cose l’hanno maggiormente colpita, a dieci anni: la figura di quella grande signora biondissima, che stette tre mesi, spendendo e spandendo, ricevendo tutta Roma, buttando il denaro dalla finestra, facendo accorrere i camerieri tutti quanti, che non saldava mai il conto e contro la quale suo padre era furioso, che poi lo saldò in un modo strano, mandando a chiamare l’albergatore, trattenendolo mezza giornata e rimandandolo tutto sorridente — e quel signore magro e pallido, che stette mezza giornata, bevette due bicchieri d’acqua, non parlò con nessuno e a mezzogiorno si ammazzò aprendosi le vene.
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Marito e moglie abitano la stessa casa, per convenienza, ma sono divisi. La moglie abita a terreno, il marito il primo piano, il bambino al secondo. Pranzano tutti tre insieme, ma la signora legge un libro e il signore legge un giornale: il bimbo sta in mezzo, guarda ora la mamma, ora il papà, coi grandi occhi meravigliati, e pranza silenziosamente. Il bimbo ha una gouvernante e un precettore giovane: ogni tanto la madre si degna di assistere alla lezione, in vestaglia di pizzi, con le pianelle ricamate d’oro, e trova che il figliuolo studia troppo, spiegando al precettore, sottovoce, le ragioni per cui non si deve studiar molto. Il bimbo guarda di sottecchi. Quando, ogni tanto, le prendono questi impeti di maternità, ella vuole con sè suo figlio, dalla mattina alla sera: il bimbo vede la madre che si dipinge gli occhi, che si sparge di polvere le braccia e il collo, che si distende delicatamente il rossetto sulle guance. Talvolta, per ischerzo, la mamma fa il viso al bimbo, che ride, solleticato, turbato da quei profumi. La madre, per condurlo fuori, lo trova goffo, mal vestito, e presa dalla furia materna, gli annoda alla vita una larga sciarpa femminile, gli mette al collo una cravatta meravigliosa, di trina, e se lo porta, così vestito, in carrozza, su e giù per molte ore, col freddo, senza paltoncino, mentre a lui si fa il naso rosso e vengono le lagrime agli occhi per la noia. Lei saluta tutti, mostra il suo bimbo, lo bacia spesso, gli domanda se vuole un dolce, se vuole un giocattolo, fa la commedia della madre amorosa. A Villa Borghese, nel viale della fontana, fa fermare la vettura e apre conversazione coi giovanotti, che le dicono certe cose piccanti che la fanno ridere brevemente, mentre il bimbo ascolta, cercando di comprendere. Spesso, ella sale un momento da una amica, lascia il bimbo in carrozza e si trattiene un’ora; la povera creatura aspetta, con gli occhi imbambolati, annoiandosi, e il cocchiere che sa tutto, borbotta certe frasi brutali. Poi, per quindici giorni la madre dimentica il bimbo, dandogli un bacio distratto al mattino, facendogli uno sgarbo nelle ore di nervosità, gridando alla cameriera di portarlo via, se piange. In certe ore, al bimbo è assolutamente proibito di entrare nel salotto della madre. Non ci si va: dice la gouvernante, sorridendo. Per favore la madre si fa vedere dal figliuoletto, in abito da ballo, scollacciata, ma invano il bimbo tende le braccia a quella bella figura: essa ha paura di guastarsi l’acconciatura e parte, senza abbracciarlo, dicendogli di star quieto. In certe epoche un terremoto di feste scuote la casa: sarte, sarti, camerieri, balli, fiori, porte sbattute; non si pranza più, non si dorme più: poi la signora si abbandona a un riposo assoluto, non vede nessuno, è nervosa, pare mezzo pazza. Il padre è fuor di casa tutto il giorno, talvolta tutta la notte. Ogni tre o quattro mesi padre e madre hanno una lite tremenda, spaventosa, innanzi al bimbo, con ingiurie plateali, mobili rotti, svenimenti e minacce di separazione completa. E il bimbo sente in anticamera, in cucina, tutto quello che i servi dicono del padre e della madre.