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SALVAZIONE
Dopo il forte momento della passione — nelle placide ore di conversazione, quando le confidenze sgorgano, in una espansione spontanea, quando l’intimità sa essere amichevole e amorosa, Flavia parlava volentieri dell’infanzia propria, di quel giocondo tempo, tutto sole, tutto baci, tutto confetti. Questi ricordi la esaltavano, e come se sognasse, guardando lontano, con la voce tremante di emozione, narrava ancora di quante dolcezze l’aveva circondata l’amore materno. Poi, una improvvisa malinconia spegneva quell’eccitamento, la voce si faceva fioca, ella mormorava, vagamente:
— La mamma... la mamma...
Quasi volesse sottrarsi a questa mestizia, prendeva le mani di Cesare, lo guardava negli occhi, dicendogli:
— Dimmi di te, amore, dimmi di te.
Cesare sorrideva, fumando ancora la sua sigaretta, nella beatitudine dello spirito appagato e tranquillo.
— Io sono stato un bimbo molto robusto, molto chiassoso e molto violento, amore. Ecco tutto.
— E niente altro?
— No, cara, niente altro.
— Allora... — diceva lei, crollando il capo — dimmi del tuo bambino.
Cesare si faceva serio per un istante e la fissava, come diffidente. Ma vedeva negli occhi di Flavia tanta umile curiosità, tanto interesse affettuoso, che il suo sospetto si dileguava. Allora, col suo sorriso orgoglioso di padre felice, egli le parlava del suo bimbo, che si chiamava Paolo come il nonno, che non voleva essere più chiamato bebè, perchè era grande, perchè aveva dieci anni.
— Ed ha i capelli molto biondi, come te? — chiedeva Flavia, profondamente attenta.
— Molto biondi e ricciuti. Va in collera quando gli dico che ha il parrucchino: è molto sensibile al ridicolo, non può sopportare che si scherzi con lui. Impallidisce, non piange. Va in un angolo e pensa: se gli parliamo, non risponde. Le sue malinconie sono quelle di un uomo.
— Forse è gracile — mormorava lei, impietosita.
— No, è sentimentale; troppo, forse. Bisogna che io gli faccia perdere questa sensibilità squisita: se no, sarà molto infelice. Se si abitua ad amar troppo, a desiderare troppo, a soffrire troppo per la mancanza di quello che ama e di quello che desidera, povera la mia creatura!
Un silenzio regnava, angoscioso. La conversazione, arrivata di nuovo alla passione, aveva perduto la placidezza e la soavità. Cesare tentava di ricominciare il discorso del bambino, ma anche questo si faceva scabroso: poichè a ogni momento, parlando di Paolo, appariva accanto la figura della madre, della giovane moglie tradita. E per rispetto alla donna che non amava più, per delicatezza verso quella che amava, non poteva pronunziare il nome della moglie innanzi all’amante. Taceva. D’improvviso, Flavia si rizzava in piedi, gli veniva accanto, e con quella sua dolcezza femminile piena di lusinghe, che ottiene tutto, gli diceva:
— Perchè non mi conduci il bambino?
La prima volta che Flavia gli fece questa strana richiesta, Cesare ebbe un moto di ripugnanza e le rispose vivamente:
— È una follia.
Ma Flavia non si scoraggiò. Ogni tanto, quando la tenerezza di Cesare per lei fluiva più larga, ella si faceva tutta buona, tutta pia, per chiedergli di condurle il bambino. Invano egli taceva o cercava di mutar discorso: Flavia vi ritornava, ostinata nel suo desiderio. Fino a che Cesare, infastidito che ella non comprendesse l’indelicatezza di questo capriccio, le rispose:
— Del bimbo dispone la madre e non vorrà mandarlo da te; dovresti intenderlo.
Una scena spaventosa ne seguì, in cui, volta a volta, Flavia si accusò per questo amore colpevole e ne accusò Cesare, pianse, si disperò, si contorse le mani, maledisse la sua esistenza sbagliata e il minuto odioso in cui aveva incontrato Cesare. Egli dovette consolarla; ma ella non si chetava, sfogando tutto il dolore lungamente compresso di una posizione falsa, avvilendosi sino a confessare i propri rimorsi, rimpiangendo tutto un ideale di famiglia, di pace casalinga, di onestà, a cui aveva rinunziato per Cesare. Egli dovette abbracciarla, mormorarle vaghe parole di conforto incerte e puerili — poichè quanto ella diceva, era vero — carezzarla sui capelli come una bimba malata, cullare questo dolore per addormentarlo, e infine prometterle che le avrebbe condotto, un giorno, presto, il bambino.
— Me lo lascerai qui, solo, con me, amore?
— Te lo lascerò, cara, purchè tu non pianga.
— Me lo lascerai, per un’ora?
— Sì, cara.
— O amore mio bello, o gioia mia! — fece lei calma, estatica.
⁂
— Paolo — disse il padre, spingendo avanti il bimbo — ecco qui la bella signora che voleva vederti.
Il bimbo levò gli occhi neri in faccia a Flavia e sorrise lievemente. Ella congiunse le mani, in un gesto di meraviglia:
— Quanto è bello, quanto è bello! — disse sottovoce.
E all’orecchio del padre:
— Cesare, digli se vuol darmi un bacio.
— Paolo, vuoi dare un bacio alla signora?
— Sì — disse il bambino.
E con un atto gentile e delicato, le prese la bella mano gemmata e gliela baciò.
— Come un cavaliere cortese: bravo, Paolo! — disse il padre, insuperbito, mentre Flavia seguitava a contemplare il bambino. — Carino mio, vuoi restare con la signora mentre io vado qui vicino?
— Ritorni presto, papà?
— Ritorno presto, nino mio.
E poichè il bimbo era presente, quei due non osarono toccarsi la mano; scambiarono solo una rapida occhiata. Flavia si chinò, prese per mano Paolo e se lo portò in salotto, presso un balcone aperto, come per guardarlo meglio. Egli se ne stava ritto, nel suo costumino di velluto oliva, tenendo stretto fra le mani il berrettino di velluto.
— Hai tal quale gli occhi di papà tuo — mormorò Flavia, pigliandogli una mano e carezzandola lievemente.
— Sì, ma la bocca è come quella della mamma — disse il bimbo, con un tono di orgoglio.
— Non ti piace di rassomigliare a tuo papà? — e la voce non era sicura.
— Papà è bello: ma la mamma è più bella ancora; ha i capelli lunghi lunghi e le mani piccole piccole. Non la conoscete, voi, la mamma?
— .......no.
— E perchè non la conoscete?
— Non so — fece lei, chinando il capo, mentre gli occhi le si gonfiavano di lagrime.
Paolo la guardò curiosamente e tacque. Ella si levò e gli andò a prendere dei confetti. Egli rifiutò gentilmente, ma guardando i confetti come un bimbo educato, che non osa accettare quello che desidera.
— Perchè non li prendi?
— Non sta bene; grazie.
— Ma se ti piacciono, prendili, Paolo. Te l’hanno insegnato a scuola?
— No, me l’ha insegnato mamma. Io non vado a scuola.
— E chi ti fa lezione?
— Mamma. Essa non potrebbe stare sola, dalla mattina sino alle tre. Così la lezione me la dà lei, sino a mezzogiorno.
— E a mezzogiorno?
— Facciamo colazione, mamma ed io.
— Soli soli?
— Il papà non ci è mai, a colazione. Ha troppo da fare, ha molti affari, molti affari.
Un breve silenzio.
— Prendi i confetti, Paolino.
— Sono troppi — disse Paolo, come ultima svogliata difesa.
— Li dividerai con qualche amichetto tuo.
— Io non ne ho.
— Con chi giuochi tu, dunque?
— Con mamma, quando essa ne ha voglia.
— Non ne ha voglia sempre?
— No.
— E perchè?
Il bambino la guardò e tacque. Un’indicibile, rapidissima espressione di terrore attraversò il volto di Flavia. Ma il bimbo non sapeva nulla, non doveva aver compreso quella domanda.
— Così non ti diverti molto? — riprese ella sospirando, come per sollevarsi da una grande oppressione.
— Sì, mi diverto. Mamma ricama, suona il pianoforte, e io guardo le immagini dei libri, giuoco con quei pezzetti di legno da far case, o guardo la gente che passa nella via.
— Sempre soli?
— Già: dovrebbe esserci papà, ma egli ha molti affari, molti affari.
— Chi te lo ha detto, di questi affari?
— Mamma.
— Ah!
— Essa mi racconta anche le favole, quando io mi annoio. Ma sono troppo tristi, le sue favole, e mi fanno piangere. Ne sapete voi, di quelle favole che fanno ridere?
— No, caro. Te le racconterà di sera, le favole?
— Sì, di sera. Io vorrei andare in teatro dove papà una volta mi ha condotto, con mamma. Ma ora papà non può accompagnarci più e andiamo a letto presto. Egli viene a casa molto tardi, di notte, molto di notte, e cammina pian piano, nell’altra stanza, per non farci risvegliare. Ma la mamma è sempre sveglia e sente: qualche volta sono sveglio anch’io — Ecco papà — mi dice lei, sottovoce. Poi, quando papà entra, a darmi un bacio, noi chiudiamo gli occhi e fingiamo di dormire.
— E ti bacia, papà?
— Sì: e se ne va via in punta di piedi, come è venuto.
— Non dà un bacio alla mamma?
— No — disse il bimbo, facendosi pensieroso.
— Tu, dunque, dormi nella camera della mamma?
— Sì: prima non ci dormivo. Ma papà andò a fare un viaggio di un mese, e mamma, che aveva paura di dormir sola, fece portare il mio lettuccio in camera sua. Dopo, ci sono restato.
Flavia si arrovesciò nella poltroncina, come se svenisse. Il bimbo la guardava co’ suoi occhi buoni e meravigliati. Ella non parlava, non trasaliva, non si moveva, e Paolo cominciava ad aver paura di questa bella signora tutta pallida. Egli stringeva macchinalmente il berretto e desiderava che suo padre tornasse, per andarsene. Poi, Flavia si scosse, levò la testa, e tanto dolore le si dipinse nella faccia, che il bimbo le tese le braccia come a sua madre, dicendole:
— Che hai?
Uno scoppio di pianto la vinse, mentre baciava quel bel bambino affettuoso, tutto sorpreso da quest’impeto. Le lagrime bagnavano le guance, il collo di Paolo.
— Non piangere, signora, non piangere così. Non sarà niente.
— Non piango, no, non piango più. Dammi un bacio, come alla tua mamma.
Egli le buttò le braccia al collo e la baciò.
— Addio, caro, resta un minuto qui. Ora papà tuo verrà e ti porterà via. Io debbo uscire.
— Debbo dire alla mamma che sono venuto qui?
— Perchè?
— Perchè papà mi ha detto di non dirglielo.
Ella pensò: poi, come se gittasse via l’ultimo dubbio:
— Diglielo alla mamma, che sei stato da Flavia.
Per un minuto la bella mano si posò sui riccioli del bimbo, come per benedirlo.
⁂
E mai più Cesare e Flavia si sono incontrati.
fine.