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II.
Mentre don Francesco, sdraiato sopra un lungo e largo divano della sua stanza da toletta, fumava una sigaretta, le tre lettere giacevano accanto a lui, sopra un vassoino di argento, sopra un tavolinetto di lacca. Due lettere erano grosse, voluminose, suggellate: la terza era un semplicissimo e piccolissimo biglietto da visita, chiuso frettolosamente in una busta. Don Francesco guardava le tre lettere, con l’occhio indolente e stanco, e ritornava alla sua sigaretta, crollando il capo, come se si volesse staccare da tutte le noie umane. Per un momento, prese il piccolo biglietto da visita, chiuso nella busta e lo guardò, esitando: cercò financo di leggerlo, senz’aprirlo. Ma non vi arrivò, posò la letterina di nuovo, cercò di riaddormentarsi, in quel torpore dolce della volontà, che era il suo stato abituale. Pure le tre lettere erano lì, immobili, ma quasi vive, quasi personificate in coloro che le avevano scritte: ed egli rivedeva un volto pallido dai lunghi capelli, di un biondo smorto, rivedeva un vivido volto dagli occhi neri e dalle labbra simili al fiore del melograno, rivedeva quei due occhi così pieni di conturbante luce smeraldina: e per sottrarsi all’incubo di queste tre figure, che si soprapponevano, l’una all’altra, egli stese la mano e aprì una delle lettere.
«Oggi io sposo il principe di Schillingfurst; — scriveva la fanciulla — nel medesimo giorno, tutti tre i matrimoni. Io debbo sposare questo vecchio principe innanzi all’ufficiale dello Stato Civile, e innanzi alle due chiese, la cattolica romana e la protestante. Per tre volte dovrò dire di sì, dovrò dire che sono contenta di sposare questo vecchio tedesco, che sono contenta di seguirlo, laggiù, nel suo castello, dove saremo, è vero, sudditi e tributari della Germania, ma dove i contadini, e i servi, e i visitatori ci daranno dell’altezza Serenissima. Mamma è contenta, poichè il mio matrimonio e la mia partenza, la tranquillizzano sul mio avvenire e le preparano una seconda gioventù, piena di libertà e piena di allegrezza: chi si rammenterà che donna Olimpia di Nerola, ha una figliuola maritata? Ed Ella stessa sarà assai felice, quando potrà dire, con quella disinvoltura signorile che la distingue: mia figlia, la principessa regnante di Schillingfurst. Anche Ferdinando, mio fratello, è contento: poichè pare che intorno al mio castello, vi siano delle bellissime caccie, e lo sapete, egli adora le grandi caccie, all’antica: e, d’altronde, quante volte egli fingerà di partire per Schillingfurst, e andrà a Nizza, o a Trouville, a Lucerna, o in Iscozia! Una sorella lontana è il pretesto per tutte le scappate: e Ferdinando è contento. Anche il mio fidanzato, il principe di Schillingfurst, è contento: è vecchio, ma non ne ha tanto l’aria: ha vissuto assai tempo a Parigi, ha mangiato colà molto danaro e adesso vuol dare una principessa regnante ai felici popoli di Schillingfurst, vuol avere degli eredi, vuol finir bene, ecco tutto. Io sono la sua fine: e per una fine, mi trova abbastanza graziosa. Egli è stato compitissimo, mi ha donato dei bellissimi gioielli, mi ha riconosciuto uno spillatico conveniente: io potrò avere ogni anno dodici vestiti di Worth, senza indebitarmi. Sono io contenta? Io vi amo Francesco, così profondamente, così inguaribilmente, che soltanto nello scriverlo, la mia mano trema e un impeto di tenerezza mi soffoca il cuore. Io vi amo: voi lo sapete. Quando portaste via la rosa rossa, nel ballo di casa Sutri, voi portaste via l’anima mia: e ogni volta che vi ho incontrato, dapertutto, poichè voi mi seguivate, ogni volta che mi avete guardata, lungamente, ogni volta che avete detto al mio orecchio le parole strane e fatali che abbruciano, io ho sentito che l’anima mia era vostra. Come è dolce la vostra voce! Io non la udrò più: io debbo non udirla più. Perchè dunque, portando nel cuore questa ferita così profonda, io sposo il vecchio principe di Schillingfurst? Perchè è il mio dovere di farlo: perchè, se non sposavo lui sarebbe stato un altro, oggi, dimani, un altro giorno; ma infallibilmente un altro, una persona qualunque, un tedesco o un inglese, un veneto o un napoletano, vecchio o giovine, che importa! Ma voi, giammai. Tutta la mia famiglia, tutte le tradizioni di casa mia, mi portavano a questo matrimonio; e non ho avuto il coraggio di ribellarmi. Fare una tragedia, perchè? Il mondo, per un momento si meraviglia, per un momento si commuove, per un momento ride: e tutto finisce e coloro che han fatto la tragedia, egoisticamente, hanno addolorato la famiglia e gli amici, senza scopo. Fare una tragedia, in questo mondo frivolo, cinico? Ebbene, vi confesso qui la verità, Francesco io ho tentato di farla, in un’ora di disperazione. In una notte, quando più mi parea cocente il mio amore per voi, e più mi parea insopportabile l’idea di lasciarvi, per sposare il vecchio principe tedesco, invece di aprire la mia finestra che dà sulla piazza e buttarmi giù, sul selciato, come una buona figliuola del popolo, disperata, io sono andata a gittarmi alle ginocchia di mia madre. Quanto era bella, di ritorno dal ballo, tutta chiusa in un accappatoio di lana bianca? Bella e giovane e delicata. Io le dissi tutto, tutto: io ho pianto, ho singhiozzato, ho strappato i miei capelli neri, che voi amate tanto. Mia madre sulle prime si è meravigliata, poi si è commossa: ella ha passato la notte con me, tenendomi le mani, baciandomi ogni tanto, accarezzandomi, piangendo con me. E ha cercato in tutti i modi di convincermi che le tragedie non risolvono nulla, nella vita: che dánno sgomento, e dánno dolore, e pongono molta gente nel più crudele imbarazzo, ma non servono ad altro. Ma una obbiezione ha scalzato le mie ragioni, cioè la mia sola ragione, poichè io le diceva una cosa solamente, che vi amavo: ella mi ha chiesto se mi amavate, se mi volevate sposare. Che le potevo dire, Francesco? Io non so nulla di voi, del vostro cuore, della vostra volontà: quanto accade in voi, mi sfugge. Quando, talvolta, mi avete detto che mi volevate bene, la vostra voce era assai tenera; ma i vostri occhi così glaciali! Tre volte mi avete detto che mi volevate bene: una sera, al teatro Valle, mentre recitavano, sul palcoscenico, la commedia degli Innamorati di Goldoni: un giorno, a villa Pamphily, quando ebbi paura di quel cavallo che pascolava libero, nel prato: e una sera, a quell’Oratorio di Haydn, mentre la divina musica turbava i cuori. Tre volte, di nascosto, ma innanzi a tutti: e io dovetti celare il mio turbamento, io non potetti rispondervi, io non potetti interrogarvi di nuovo, e sapere di più, sapere più profondamente: io me ne andai, portandomi via il mio segreto, un segreto vago che mi riempiva di confusione, che mi faceva fremere. Che poteva io rispondere a mia madre? Mentivate o dicevate il vero, in quelle ore? Io non potetti mai accertarmene, o non volli: io mi contentai di quello che mi avevate detto, per amarvi ancora, a sempre vi avrei amato, anche se non mi aveste detto niente, poichè è il mio destino di volervi bene, così per la solitaria dolcezza di amarvi. Nulla potevo rispondere alla mamma, poichè nulla mi avevate promesso e nessuna promessa io vi aveva chiesto. Le ho detto tutto. Ella crollava il capo, dolcemente, poichè ciò che pare un tesoro alle anime innamorate, è nulla per le persone che non amano. Ella mi disse che le vostre parole, dette così, leggiermente, in un minuto di capriccio, o di aspettazione — perchè di aspettazione? — non costituivano un impegno di nessun genere; che, se tutti gli uomini che hanno dotto di voler bene alle ragazze, le dovessero poi sposare, il mondo sarebbe pieno di matrimonii. E così dolcemente, senza rimproverarmi, ella ha tolto alla mia vita ogni speranza di unione con voi: ed ella aveva ragione, poichè voi, certo, disprezzate il matrimonio, e non vi legherete giammai. Voi siete il signore dell’anima mia, io non ho il diritto di giudicare la vostra condotta. Ben felice, se in un’ora della vostra vita mi avete amato e vi siete degnato di dirmelo! Ma dopo questa persuasione amara che mia madre mi ha istillata nell’anima, io l’ho pregata, l’ho scongiurata, che per amor di Dio, per amor del mio nome, non mi obbligasse a sposare quel vecchio principe tedesco: che io avrei portato in quel matrimonio, il mio amore per voi: che sarei stata una cattiva moglie, per il povero vecchio che mi affidava la sua pace e il suo onore, che rivedendovi, a Roma, a Parigi, a Schillingfurst, in viaggio, in un ballo, dovunque, voi non avreste avuto che a guardarmi, che a dirmi una parola, perchè io vi seguissi dovunque: che per amor di Dio, ella non esponesse la sua creatura a questa pericolo, a questo disonore. Povera mamma! Le mie parole l’hanno confusa tanto, che poco mancò non mi svenisse fra le braccia: e infine, dopo aver molto esitato, con la voce più grave, con l’accento più profondo, ella mi fece la sua confessione. Ella, per darmi la forza, per darmi il coraggio, per farmi sposare serenamente il vecchio principe tedesco, mi disse che anche lei, donna Olimpia, era entrata nel matrimonio, portando nel cuore una passione per un altro uomo. Anche lei si era disperata, dovendo sposare mio padre, anche lei aveva voluto morire: ma di questo matrimonio, non era morta. Ella non era partita da Roma, dove abitava l’uomo che ella amava e che non aveva potuto sposare: ella era stata obbligata a incontrarlo sempre, dovunque, di vedere dappertutto quegli occhi fatali, di sentire sempre alle sue spalle quella voce incantatrice. Assai di più: quell’uomo veniva in casa e le parlava di amore. Oh come ho intesa tramutata la voce di mia madre, nel momento di questa strana confessione, che le faceva rivivere tutto il passato! Ella si nascondeva la faccia fra le mani, e alla poca luce della lampada, che ardeva innanzi alla Madonna della Seggiola, io ho veduto scorrere le sue lagrime. Allora io mi sono inginocchiata innanzi a lei e l’ho pregata di perdonarmi, se io, figlia sommessa, figlia obbediente, figlia rispettosa, mi permettevo di chiederle una cosa: l’ho pregata di perdonarmi, se le chiedevo di sollevare tutti i veli del passato, se le chiedevo quello che era il segreto della sua esistenza: l’ho pregata di perdonarmi, se rompevo la distanza che vi è fra madre e figliuola, se consideravo soltanto di essere una donna, una donna lì lì per perdersi, e che chiede dalla migliore sua amica una parola di salvazione. Io volevo sapere da mia madre, se una donna che porta un altro amore nel matrimonio può conservarsi onesta; se una donna che incontra ogni giorno l’uomo che è il dolce peccato, può salvarsi dal peccato; se vi è una forza, nella coscienza, che resista alla tentazione quotidiana, quando tutto, tutto vi mette in tentazione; se ella mia madre, non amando di amore il marito, amando e vedendo ogni giorno l’uomo del suo amore, aveva resistito. Questo ho osato di chiedere a mia madre, guardandola negli occhi, per strapparle la verità. Ella ha guardato la Madonna della Seggiola e solennemente, semplicemente, mi ha detto.
— Va in pace, figliuola. Io non ho peccato: tu non peccherai.
«Ma voi non verrete mai nè a Parigi, nè a Nizza, nè a Schillingfurst, nè altrove, Francesco: voi non verrete mai, dove io sono, ve ne prego, ve ne scongiuro.»
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«Ripiglio in questo punto la lettera. Narrandovi in questo punto la scena strana e appassionata, fra me e mia madre, una profonda emozione mi ha vinta, come se ancora, innanzi alla disperazione della figliuola una buona mamma adorata facesse la suprema fra le confessioni. Ho dovuto alzarmi e vincere, passeggiando, pregando, l’impeto dei singhiozzi. A noi, fanciulle nobili, la religione è insegnata molto, ma come un dovere, o come una delle tante frivole nostre occupazioni: mentre è una cosa così dolce e così solenne, nel medesimo tempo, così intima, così diretta alle nascoste fibre spirituali, che dovrebbe essere la base della nostra educazione. La religione è bella: ma voi, forse, non credete. Infine, essa ha rasciugato le mie lagrime, quella notte, e questa. Io sono calma. Ma anche nell’ora della freddezza, quando io guardo glacialmente il mio avvenire, come se fosse quello di un’altra, anche quando tutto è deciso, io vi dico: Francesco, non venite mai più per la mia strada. Non potrei incontrarvi, senza seguirvi, poichè questo è il mio destino, questa è la mia fatalità. Scomparite per me. Non ho la virtù di mia madre. Ella non volle e non seppe peccare: io, peccherei. Vedete che confessione atroce fa qui una ragazza, che oggi deve maritarsi? Pensate che scandalo, se qualcuno lo sapesse! Ma il silenzio e il riserbo e la compostezza e la freddezza a cui siamo obbligate, noi ragazze - nè, forse, potrebb’essere diversamente - ci isolano, e avendo l’apparenza di gentili bambole indifferenti, insensibili, noi viviamo, profondamente, una vita interiore, tumultuosa, spesso, che ci esalta. Chi supporrebbe in donna Clara di Nerola, così piena di sorriso, di serenità, di giovinezza, che sposa così volentieri il vecchio principe di Schillingfurst, chi supporrebbe in questa ragazza bella ma esteriore, come tutti dicono, una passione divoratrice, una passione prepotente e indomabile, che ne ha già distratto la segreta virtù? Non venite sulla mia strada: o sono perduta. Siate gentiluomo, siate principe, dimenticate quella vostra natura indifferente e fredda e dimenticate che solo il vostro egoismo esiste e vogliate sparire per me. Vedete che sono stata buona, buona: non mi sono uccisa, il che avrebbe potuto procurarvi qualche fastidio: non sono fuggita di casa mia, per venire nella vostra, il che vi avrebbe dato una grande noia. Sposo un vecchio e vado via dalla mia bella Roma, lascio il mio paese e la mia famiglia; abbiate pietà di me, non mi gittate alla perdizione. Che farò io di questa passione? Dove divamperà questo fuoco nascosto? Chissà! Oh, perchè non siete voi uno fra tanti, uno di quelli che ballano, cavalcano, fumano, giuocano come mio fratello, Ferdinando di Nerola! Vi dimenticherei, così presto, se foste uno fra tanti! O, forse, non vi avrei amato. Ma voi mi farete questa grande carità, voi non verrete mai, mai, dove io sono. Io vi amo tanto tanto, in un modo così assoluto, così imperioso, che il solo vedervi apparire, scomporrebbe per sempre la mia vita. Non venite. Alle dodici, oggi, andiamo al Municipio; alle nove di questa sera alla chiesa di sant’Agostino: alle dieci, al tempio protestante. Non venite in nessuno di questi posti, partite per Maccarese, per Nizza, restate chiuso nella vostra casa, ma non apparite. Se venite, io do in un urlo di gioia, e vengo a buttarmi nelle vostre braccia. È uno scandalo enorme. È la rovina di dieci, di quindici persone. Addio, Francesco. Perchè mi avete detto che mi volevate bene? Forse non era vero. Forse ho sognato. Oh, la voce vostra! Se la sentissi, dal paradiso, nell’inferno, verrei a dannarmi con voi. È un’eresia, un sacrilegio, quello che ho scritto. Come avete guastato la mia esistenza! Ma non importa, mi avete detto che mi volevate bene. Addio, addio. Metto qui il mio nome di fanciulla per l’ultima volta. Nella prima lettera che scriverò, dopo di questa, sarò la principessa di Schillingfurst. È atroce. Addio — Clara.»
Don Francesco aveva letto la lunga lettera, con molta attenzione, ma senza che la sua fisionomia dimostrasse nessuna impressione. Dopo, per un momento, stette a guardare i fogli sottili, pieni zeppi di quei caratteri, sorrise per un momento, poi suonò il campanello elettrico.
— Dite al cuoco — ordinò al cameriere, che si presentò — dite al cuoco che prepari la colazione per le undici e mezzo. Alle dodici, debbo essere in un posto.
E si rivolse di nuovo al vassoino dove giacevano, ancora, le due altre lettere: di nuovo, una curiosità lo prese, guardò il biglietto da visita nella busta. Pure, si dominò: e non l’apri. Aprì invece la seconda lettera. Era scritta in lungo e snello carattere inglese: anche essa voluminosa.
«Principe — cominciava a scrivere la fanciulla — io non ho neppure il coraggio di chiamarvi per nome, tanto questa familiarità mi turba e mi sconvolge. Voi, sì, mi chiamate per nome: e provo quando voi pronunciate il mio nome, in italiano o in inglese, io provo una così inebriante dolcezza, che mi fa vacillare. Voi sapete questo: e prima di pronunciarlo, mi guardate intensamente, come per prepararmi a tale dolcezza, e lo pronunziate con tale lentezza, che io ho la sensazione acuta di una lunga, profonda vibrazione. Quando voi dite, Daisy, Daisy, Margherita, un solco mi si scava nell’animo. Di tutto ciò, io muoio.
«Principe, io partirò, oggi, per Torino. Ho licenziato la mia dama di compagnia, da otto giorni, e con un po’ di denaro per consolarla, ella è partita per la Scozia, quietamente. Non mi amava e non l’amavo. Noi siamo benefici pei nostri servi: ed essi sono, per noi, assai rispettosi. Ma nessun altro vincolo ci lega, altro che la carità ed il rispetto. Noi settentrionali, noi stranieri, noi gelide creature dei paesi brumosi, non siamo come voi altri, tutti avvampanti di amore, nella fantasia, e che poi non amate nessuno. Noi diamo l’anima nostra a un sol uomo, ai nostri figli, se li abbiamo e a Dio, che raccoglie tutti questi affetti. Quanta gente amate voi! I servi che sono cresciuti in casa e i bimbi che vedete andare a scuola, le ragazze che vi sono state compagne d’infanzia e i vecchi che hanno conosciuto vostro padre, i vostri maestri e i vostri amici, quelli che avete visto un anno, e quelli che avete visti un giorno! Amate una quantità infinita di gente. Oggi amate questa fanciulla, perchè le parlaste, in una sera di primavera, in un giardino dove le violette olezzavano e scintillavano le lucciole; domani amate quella signora pallida, perchè la vedeste disperarsi, nel truce giorno in cui le si uccise il marito; dopodomani amerete la folle cavalcatrice, dai capelli biondi e dal cavallo biondo, che vedeste galoppare, nella campagna romana, dietro la volpe che fugge e si rintana. Amate moltissime donne, voi italiani, voi meridionali; questa, perchè ha gli occhi di una cugina che vi morì, l’altra, perchè ride sempre e sempre canta, la terza, perchè veste sempre di nero e porta sempre un mazzolino di mughetti; quest’altra, perchè sempre sogna; e chi sa ancora chi, per una ragione fantastica, per una causa talvolta puerile, bizzarra sempre. Quanta gente, quanta gente amate! Ma, voi, principe, non amate nessuno, nessuno, nè amico, nè amante, nè fanciullo innocente, nè vecchio carico di ricordi, nè donna dagli occhi pieni di languore: nessuno. Voi sorridete, talora, voi parlate con la vostra voce armoniosa e dite delle cose, lentamente, con dolcezza, in modo che chi vi ascolta, freme di gioia; ma non amate, nessuno. Il vostro sguardo accarezza, spesso, i capelli neri delle donne e i capelli biondi dei fanciulli, ma non amate nè le donne, nè i piccoli. Voi non amate nessuno. E di questo, mi fate morire.
«Dunque, parto. Sola. Quando sarò stata due o tre giorni a Torino e avrò fatto perdere le mie tracce a chiunque potesse cercare di me, partirò, per le Alpi. Io andrò, piano piano, senza affrettarmi, ma senza fermarmi mai, prima sulle praterie coperte di brina, ma ancora tutte verdi e tutte fiorite; poi salirò, fra la neve, alla montagna. So che voi odiate la montagna. Tutto ciò che è serenità delle cose e vivificazione dello spirito, tutto quello che serve a dar forza alla fibra e coraggio alla volontà, voi lo odiate. Voi siete realmente l’uomo di Oriente, quello che ama vivere, sdraiato sopra un divano, ascoltando il canto di una fontanina di profumi, guardando dalla grande finestra spalancata, l’oleandro roseo e il mare azzurro. Voi siete l’uomo d’Oriente, coi suoi lunghi sogni dove scomparisce ogni senso del reale, con le sue indefinite contemplazioni, dove si smarrisce il concetto e la forza dell’azione: l’uomo egoista, e fiacco, e cattivo, e felice, nello stesso tempo. Oh come aveva sognato, anche io, di vincere in voi l’indolenza dell’uomo orientale, di rendervi meno egoista, più buono e tenero e benigno, meglio felice! Oh, come ho odiato tutte le cose che spezzano la volontà e corrompono il carattere, le rose profumate, i cuscini soffici, le molli sere di primavera e di autunno, il grande mare azzurro che conduce al sonno, alla immobilità! Ma non ho potuto vincerle, tutte queste cose, esse sono troppo forti, troppo forti in voi, e mi hanno vinta. Avrei voluto darvi l’amore della montagna, dei suoi bianchi fiori vellutati, dei suoi negri abeti, dei suoi temporali subitanei, delle sue valanghe ruinose, spettacolo immenso. Ma voi odiate il freddo, odiate il movimento, la neve vi immalinconisce e i ghiacciai vi danno l’idea della morte. Anche a me l’hanno data.
«Così, me ne vado alla montagna. Chissà dove andrò e quanto resterò lassù! Ma io troverò una buona guida, una guida valorosa che mi accompagni, fra i ghiacci eterni. Andremo errando, insieme, per la montagna, sulle erte cime e nelle vallate profonde, dove la voce umana pare un fenomeno meraviglioso: andremo per le vie cattive, rasentando i precipizii, affrontando tutti i pericoli. Non temete per me: nulla d’impensato può accadermi. Io voglio morire pensatamente, tranquillamente, se è possibile, nel giorno e nell’ora che ho fissato. Voglio inebbriarmi, sulla montagna, di solitudine, di grandezza, di sublimità. Voglio inginocchiarmi sulla neve e chiedere perdono, a Dio, di quello che commetto. Voglio dirgli, nell’umiltà della preghiera, che non posso fare altro che morire, poichè vi amo e poichè voi non mi amate. È un grave, gravissimo peccato il suicidio: e le anime cristiane, come la mia, dovrebbero averne un santo orrore. Ma voi non mi amate: io lo dirò a Dio, sulla montagna. Come Mosè, io lo invocherò e gli dirò il mio dolore: egli deve perdonarmi, perchè io non posso vivere, poichè voi non mi amate.
«Dio deve perdonarmi. Quando avrò abbastanza pregato, abbastanza pianto, quando avrò detto, all’eco della montagna, perchè muoio, nell’ora migliore, io andrò alla morte. La montagna è piena di abissi e ogni passo falso, un sol passo falso può condurmi alla morte. La guida, accorrente, esterrefatta, vedrà precipitare il mio corpo nella valle, dalla neve, fra le nevi: e quando vedrà che nulla può fare, sola, per ritrovare almeno il mio corpo, tornerà, correndo, all’asilo più vicino: e intanto su me, morta, fioccherà larga e pura la neve. Dall’asilo, dal villaggio più vicino, verranno i buoni montanari con le ascie, con le pale, incappottati nei bruni e caldi mantelli: li seguiranno le loro donne, buone, che accorrono sempre, dove è una disgrazia. Porteranno con sè la rustica, la poetica barella fatta di tronchi d’albero: sono abituata alla montagna, io, ho visto la barella dei morti. Per le vie meno pericolose, mentre l’aria già imbrunisce, discenderanno nella valle: e delicatamente, con cure amorose, metteranno il corpo della morta sulla barella, e al lume delle torce, poichè sarà già venuta la notte, la mesta processione si avvierà all’asilo: porteranno la morta al grande albergo, che la vide partire svelta, tranquilla, coraggiosa, piena di forza e di salute, e ora vedrà rientrare un viso bianco, macchiato di sangue, un corpo sfracellato. All’albergo tutto sarà in ordine, nella mia stanza: le mie carte, per provare chi sono: il mio testamento, con cui lascio la mia fortuna ai poveri di Londra, vecchi e fanciulli, uomini e donne. Mi seppelliranno, secondo la mia volontà, non nell’umida, brumosa, soffocante Inghilterra, ma nel cimitero coperto di neve, sulla montagna coperta di neve. Io merito questa tomba di purezza. Nessuno saprà, prima, o dopo, che io mi sono uccisa. Voi soltanto.
«Sentite, Francesco — sì, voglio chiamarvi per nome — il segreto della vita, è l’amore. Credo così profondamente in questa verità, che nulla per me esiste, fuori dell’amore: tutto è illusione, tutto è chimera. Forse anche l’amore è una illusione: dice lo scettico. Che importa! È la più bella, la più grande delle illusioni; e la sua perdita è irrimediabile. Nulla si può mettere al posto dell’amore: nè la tormentosa ambizione, nè la pazzia del giuocatore, nè la dolce passione mistica: nulla vale l’amore. Dico un sacrilegio, forse? Nulla, nulla. Nè i piaceri della vanità, nè la voluttà del lusso, nè le gioie sapienti della intelligenza, nè i trionfi della bellezza, nè le seduzioni dell’arte; nulla vale l’amore. Non credete che io sia una fanciulla audace e peccaminosa; vi dico queste cose, purissimamente, nell’ora della morte. Tutto mi è assolto, da questo abbandono che faccio, senza esitare, a venti anni, della vita. Oh, Francesco, se conosceste che è l’amore, voi direste che ho fatto bene a morire. Poichè, mentre non sapevo far altro della mia esistenza, che amarvi, voi non mi amavate, non mi amate. Non vi hanno insegnato, Francesco, che cosa è l’amore: nè voi avete cercato mai d’impararlo. Non sapete nulla, non conoscete nulla. Siete voi felice? Pare. Chi ne sa niente! Voi stesso non potete dirlo. Forse, mancandovi la grande scienza, vi manca il grande desiderio. Oh, io ne muoio, di desiderio d’amore! Non mi fraintendete. Sentitemi bene.
«Sentitemi, poichè non vi ho mai detto questo. Io vi ho amato subito, così, nel primo momento che mi avete guardata, nel primo momento che mi avete parlato: e voi lo avete inteso, subito, poichè siete certo abituato ad essere amato, poichè, anche non avendo mai amato, conoscete negli altri l’amore. Io, non ve l’ho detto. A noi inglesi il temperamento, l’educazione, l’ambiente, l’esempio, ci creano un carattere di un sol pezzo, un carattere duro e forte, che non mente e che non tollera menzogne, che non è flessibile e disprezza la flessibilità altrui. Io, poi, sono stata avvezza anche più duramente, perchè non aveva padre e madre, perchè il mio tutore è morto anche lui e a sedici anni amministravo di già la mia fortuna, leggevo quel che volevo, potevo viaggiare dove mi piaceva, discorrere, ascoltare, amare chi volevo. E freddamente, io ho voluto conoscere che cosa era la vita, da me, per vivere felice, o per morire, se non potevo esser felice. Io ho visto che solo l’amore era il segreto, e che quel segreto, cercato, ritrovato, invocato e ottenuto, poteva riempire la mia esistenza delle più grandi emozioni. Ero assai fredda, assai tranquilla, allora, quando faceva questi ragionamenti psicologici: e andava formando la mia educazione umana, lentamente, per non cadere nell’errore. Ero così fredda, che potevo scrutare nei cuori umani, come nel mio, e leggervi l’egoismo, lo scetticismo, la indifferenza: e leggervi, peggio, la volgarità, il calcolo, la venalità. Non volevo legare la mia esistenza nell’amicizia o nell’amore, che per l’amore: non volevo darmi a chi non mi amava. Voi lo avete conosciuto, Guido Arezzo? Siciliano, bruno, ardente, pieno d’immaginazione, col sangue bruciante, che gli bruciava le vene, egli diceva di avere una furiosa passione per me, che ero inglese, bionda, pallida, anemica, glaciale. Egli ha dato le dimissioni, egli andava, alla messa, per vedermi: egli aveva la parola calda e la frase prorompente; era ricco quasi quanto me, e libero, e giovine, e nobile: tutti mi dicevano che egli mi amava e che io doveva sposarlo. Ma non mi ha convinta, mai un minuto, perchè io sentiva il vuoto dell’anima sua, sotto le sue parole, perchè io vedeva, passata la vampa fugace, tutto un avvenire glaciale, una unione di due persone che tutto divideva, il carattere, la nascita, lo spirito. Oh, se ci fosse stato l’amore! Ma, come Guido Arezzo, neppur voi mi amavate, l’ho subito visto, l’ho sempre visto.
«Eppure, come la parola vostra era soave, quando dicevate di amarmi, Francesco! Vi rammentate, questo inverno? Dopo il ballo di casa Sutri, il giorno seguente, alle tre, veniste a casa mia così, liberamente, senz’avvertire e senza chiedere il permesso, poichè sapevate che le fanciulle inglesi ricevono liberamente qualunque giovinotto. Io leggevo nel grande hall, innanzi all’immenso camminetto, dove ardeva un gran fuoco: ma fuori, nelle vie, e penetrante dalle finestre larghe nell’hall, vi era ancora il sole. Leggevo il Tennyson, vi rammentate, il poeta dei pallidi e gracili amori: Tennyson, che voi non intendete. Mi faceste leggere qualche strofa ed io obbedii; poichè quello che voi volete, io voglio: ma non ascoltavate e tacqui. Voi eravate perduto nel silenzio, nei sogni. Infine mi diceste che bisognava leggere Goethe, leggere il Faust, il Faust dove è passata l’orma di uno spirito quasi divino; che solo Faust era il poema dell’amore, che solo Margherita aveva saputo amare.
«— Ma Faust amava Margherita — ho detto io.
«— Sì, Faust amava Margherita — mi avete risposto, profondamente.
«Imbruniva. Mi guardavate, dopo avermi detto che mi amavate. Oh, dolcissimo inganno! Che minuto lungo, in cui io sentivo la dolcezza e sentivo l’inganno! Io non dissi d’amarvi. Voi lo sapevate. Quando stringeste la mia mano era gelida. Ve ne andaste. Da quell’ora ho sentito che dovevo morire.
«Poichè invano, invano mi avete detto, innanzi alle stelle del cielo e fra le rose del mio giardino, innanzi alla chiesa del villaggio dove ci siamo trovati insieme, nell’estate, e sul mio libro di preghiere, dove avete appoggiato la vostra mano, invano avete ripetuto le sacre parole, le sante parole dell’amore, quelle che si dicono veramente, una sola volta, l’unica volta. Voi mentivate soavemente: ma io, anche amandovi, intendevo, intuivo, sentivo la menzogna, non avevo neppure più il primo minuto della illusione, avevo il senso glaciale della verità, nuda, implacabile. Oh, come ho pianto, come ho singhiozzato, come ho chiesto al Signore la fede, la felicità dell’illusione, come avrei voluto poter credere, senz’altro, ciecamente, a quello che mi dicevate! Come avrei voluto, non che fosse la verità, ma che io potessi credere quella la verità! Ma era inutile: la profonda passione e il profondo desiderio del vostro amore non mi toglievano la lucidità. Sentivo l’anima lontana; sentivo fra me e voi l’ostacolo, ignoto, ma forte, ma insormontabile. Se mi aveste amato, ora non andrei alla morte.
«Se mi aveste amato, lo avrei inteso e avrei vissuto, per questo: perchè, quando si è amati, bisogna vivere. Non so quello che sarebbe accaduto di me. So che avreste potuto chiedermi tutto ed io lo avrei fatto: o non chiedermi nulla, e io avrei egualmente fatto tutto. Sarebbe piaciuto al mio dolce signore avere una sposa umile e fedele, amorosa e devota, legata a lui, nel nome di Dio e nel nome degli uomini, una sposa per il bene come per il dolore? Io sarei stata quella sposa. Piacea forse al mio buon principe avere una amante leggiadra, intelligente, e appassionata, una donna perduta nella grandezza dell’amore, non conoscente più altro che l’amore? Io sarei stata quell’amante. Piaceva al mio bel signore lasciarmi e ritornare a me, andar lontano, essere un giorno amoroso, un giorno gaio, l’altro triste? Io sarei stata come lui, per lui. Niente mi sarebbe stato ingrato, per lui. Oh, felice, felice, il peccato, nell’amore, quando l’amore vi è, intenso, profondo, unico! poichè l’anima finisce per purificarvisi tutta, per perdere ogni bassezza, ogni volgarità umana. Sono sacrilega ancora, lo sento. Ma l’amor vostro, Francesco, pensate, l’amor vostro, voi che non amate nessuno, voi che non amate niente!
«Niente. Tutto è finito per me. Sono scolorate tutte le più vivide cose dell’esistenza: e le linee, i colori, le forme si confondono in un gran bigio monotono, dove non riluce tinta, dove non freme vita. Non voglio più niente, non mi piace più niente, non debbo più vivere. Voi non mi amate. Ora, la Indifferenza, vedete, la invincibile Indifferenza mi uccide. Sono fiera, non posso sopportare nè la freddezza, nè la pietà, nè la compassione: non mi contento nè della stima, nè dell’amicizia, nè dell’affetto. Sono fiera. Non me ne fo rimprovero. Voglio la vita come la merito, completa, piena di amore, piena di ardente, incandescente amore: non la voglio, fondata sulla bugia, sulla scambievole indulgenza, sul perdono. Avevo un ideale, lungamente invocato, invocato con tutta la potenza della mia giovane anima e questo ideale mi sfugge. Io vado a ritrovarlo di là.
«Restate sereno. Ognuno, attraverso il tempo, attraverso le cose, ha la sua parte, talvolta, semplice, talvolta bizzarra, talvolta inconscia. Che sapete voi, del male che fate? Voi non misurate, perchè vi manca la nozione dell’amore, e ve ne manca la misura. Il solco che scavate, vi sfugge. Dite le parole di amore, così, come il dilettante canta a orecchio, perchè avete una bella voce, perchè la musica delle parole amorose fa in voi stesso un gran diletto, perchè vi piace ingannare, senza sapere il pericolo dell’inganno, perchè voi stesso siete forse in buona fede, credendo di amare. Restate sereno. Io muoio, perchè troppo alto era il mio semplice e puro ideale. Io voleva essere amata: ciò che è dato all’ultima donna della terra non mi è stato concesso. Vi rammentate? In casa Sutri, mi avete parlato di Siebel che non potea toccare un fiore, senza farlo appassire; mi avete parlato di Faust, ma Faust amava Margherita; voi siete dunque Mefistofele, lo spirito che non può amare. E io devo morire. — Margherita.»
Don Francesco, quietamente, ripiegò i foglietti sottili, lievissimi, dove miss Daisy aveva scritto le sue ultime parole, rimise i foglietti nella busta e la busta sul tavolino. Le due lettere, di donna Clara e di Margherita, si toccavano. E mentre riaccendeva la sigaretta spenta, don Francesco vedeva nel bianco, finissimo fumo una bella testa bruna coronata di fiori d’arancio, ma portante negli occhi neri una insanabile disperazione, vedeva una testa bionda, dai biondi e smorti capelli, dalle labbra scolorate, una testa macchiata di sangue, dalle palpebre livide e dalla bocca chiusa per sempre. Egli suonò di nuova e chiese al cameriere:
— Sapete a quale ore parte il diretto, per Torino?
— No, Eccellenza; ma ora glielo saprò dire.
Col dito mignolo, il principe scuoteva la cenere dalla sua sigaretta, pensoso, ma tranquillo: pure, innanzi agli occhi, vedeva sempre un profilo di fanciulla bruna, profilo purissimo, ma pieno di malinconia, come assottigliato e consumato da un malore spirituale: vedeva sempre una linea vaga, di fanciulla bionda e gracile, vestita di bigio, che saliva, lentamente, a una immensa montagna bianca, per uno stretto e ruinoso sentiero.
— Alle due e cinquanta, Eccellenza — disse, rientrando, il cameriere.
— Bene: fate preparare le valigie: parto con quel treno.
Ma quando il cameriere fu uscito, per togliersi a quelle strane apparizioni, egli prese la terza lettera, la busticina dove vi era soltanto un biglietto da visita, e che due volte aveva tentato di leggere, per una bizzarra idea, attraverso la busta. Aprì questa volta. Era un biglietto che portava questo solo nome: Maria. E Maria scriveva, semplicemente:
«Oggi, portatemi una rosa.»