< Piccolo romanzo
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II

III.


Il piccolo coupè di don Francesco, fermato innanzi alla villa Nada, al Macao, innanzi al cancello stranamente ornato, era pieno di rose. Don Francesco era andato dapertutto, per trovare queste rose: dai fiorai più ricchi di fiori, ne aveva trovate pochissime, tutte fredde, tutte scolorate, tutte mangiate dalla brina, come bruciate, con gli orli già nerastri della morte. Era andato al Pincio, dove, al sole caldo, la Zamperini ha la sua serra: ma le rose erano piccole e come gelate. Infine era andato a villa Savella, fuori porta s. Paolo, dove la povera folle di casa Savella, donna Lucrezia Savella, l’ultima di casa Savella, colei che languiva in una dolce e molle follia, coltivava il gran giardino, tutto rose. Ogni tanto, pietosamente, gli amici di casa Savella andavano a passare un quarto d’ora con la pazza, che li conduceva subito in giardino, fra le rose, fra i profumi. Era una creatura di quaranta anni, magra, magra, vestita di nero, con un gran grembiale di cotonina azzurra, per non sporcarsi di terriccio.

— Volete delle rose? — disse donna Lucrezia Savella, con la sua voce gutturale.

— Una soltanto.

— Anche venti, anche cinquanta.

E la folle si mise a tagliarle, con un coltellino sottile, e ne raspava gli steli per toglierne le spine: e le buttava leggermente a don Francesco.

— A chi le date? — A una persona che vi vuol bene?

— No, donna Lucrezia.

— Allora, a una che amate?

— Sì.

E se ne andò, carico di rose, empiendone il piccolo coupè, non osando muoversi per non schiacciarle. Villa Nada taceva sotto il sole d’inverno. Entrò nell’immenso salone terreno, stranamente diviso, dove donna Maria di Lanciano si dondolava in una grande poltrona, guardandosi le punte delle scarpe, ricamate in oro e di rosso. Ella era vestita di una ampia tonaca di lana bianca, senza forma alla cintura, vestito monacale, quasi ieratico, quasi bizantino: le maniche erano doppie — strettissime le prime, abbottonati i polsi da bottoncini di oro; ampie le seconde e ricadenti sulle spalle. I capelli neri rialzati sulla nuca, in gran disordine, attraversati da un pugnaletto di acciaio: alle delicate orecchie pendevano due enormi smeraldi, che, battendo sulla fine pelle del collo, la rendevano rossa.

— Quante rose, quante rose, Francesco! — disse ella, levandosi e accorrendo a lui.

La tonaca si era distesa, con pieghe rigide, come nei vecchi mosaici. Con le piccolette mani, che sparivano sotto la punta angolare delle maniche, ella prese le rose, a fasci, levandogliele, caricandosene, scomparendo dietro a quel fascio che le posava sul petto. E, girando per il salone, ne buttava dappertutto: sui divani, dove le rose nascosero le scintillanti stoffe orientali, dai colori pieni di passione: sulle seggiole coperte bizzarramente di trina d’oro e di trina d’argento: sul tappeto smirniota, dai piccoli fiori, sui tavolini dove caddero fra le singolari cose che il lusso dell’Estremo Oriente manda dovunque vi sia uno spirito strano, innamorato delle forme artistiche. Era una pioggia di rose fresche, vivide. Donna Maria di Lanciano, quando ebbe buttata via l’ultima rosa, si gittò sulla grande poltrona e dondolandosi, col capo arrovesciato, schiacciava le rose sotto i bastoni ricurvi della poltrona. Don Francesco, seduto accanto a lei, sopra una seggiola bassa, aveva preso una mano sottile, sottile, dove scintillava, attaccato a un impercettibile filo d’oro, un enorme smeraldo, verde come gli occhi della dama.

— Siete stato a casa Gallicano, ieri sera, Francesco; — domandò ella, con voce bassa, velata, profonda.

— Sì... — mormorò lui, distratto, preso dalla adorazione di quella molle mano.

— Avete ballato?

— No.

— Giuocato?

— No, non giuoco.

— E che avete fatto?

— Vi ho aspettato, Maria.

— Non vi piace giuocare?

— Non mi dà nessuna emozione.

— Nessuna? — disse ella, come incredula.

— Io conosco le emozioni supreme.

Ella lo guardò freddissimamente con quegli occhi verdi, pieni di gelo: e: contrasto seduttore, irritante, irresistibile, le labbra rosse fiorivano, quasi chiamanti i baci.

— E poi, che avete fatto? — chiese ancora, monotonamente, come se compisse un interrogatorio di dovere.

— Sono venuto quassù, a girare intorno al villino. La vostra finestra era illuminata, di rosso: ci ho buttato un sasso, contro.

— Ho udito — ella disse, sorridendo lievemente.

— Ma non avete aperto.

— Faceva freddo — diss’ella, semplicemente. — E dopo, che altro avete fatto?

— Sono andato a casa e vi ho scritto.

— Dove è la lettera? — disse il fiero giudice d’istruzione.

— Eccola — e la cavò dalla tasca del soprabito: una lettera voluminosa.

Ma il fiero giudice sdegnò la lettera, perchè la tenne in mano, scherzandovi, senza aprirla.

— Stamane, che avete fatto?

— Ho letto delle lettere.

— Che lettere?

— Cose inutili — disse lui con un cenno di distacco.

— Inutili?

— Sì — ribattè lui, senz’altro.

— E dopo?

— Dopo? Ho cercato le rose.

— Avete dovuto metter molto tempo, per cercare le rose, se siete venuto così tardi?

— Non ve ne erano. Tutte le rose sono morte, per il freddo. I fiori muoiono facilmente: il giardino, qui fuori, è pieno di desolazione.

— Anche io sono piena di desolazione — diss’ella, ridendo, col suo riso stridente.

— Perchè? perchè?

— Perchè voi mi amate — e rideva ancora, quasi che non credesse nulla di nulla di quello che diceva.

E, come la piccola mano stellante di smeraldi, era rimasta fra le mani di don Francesco, ella la ritrasse. Si mise a guardare lo smeraldo, simile ai suoi occhi gelidi.

— Non mi amate più, non mi amate più — disse schiacciando le rose sotto i piedini.

E mordeva un bocciuolo di rose. Egli cercò di strapparglielo, per baciarlo: ma non vi riescì.

— Oh, cattiva! — mormorò lui puerilmente.

— Non si è mai abbastanza cattivi — rispose lei, sempre profondamente.

Tacquero. Egli la guardava, preso nelle profondità smeraldine degli occhi.

— Chi vi ha dato queste rose, Francesco?

— Qualcuno...

— Chi? — ribattè lei, imperiosamente.

— Donna Lucrezia Savella.

— Sono dunque i fiori della follia?

— Sono i miei fiori, Maria.

— Voi siete assai savio, Francesco, così savio che mi fate orrore.

— Che dovrei fare? — chiese lui, girando attorno lo sguardo smarrito. — Volete che muoia?

— Breve follia — diss’ella, seccamente.

— Si può morire così a lungo... — osservò egli, malinconicamente.

— Tutti muoiono — diss’ella, duramente.

— Trovate una follia, trovatela — disse don Francesco, supplichevole.

Ella scosse il capo: e, incrociando le mani, le alzò dietro la nuca: le lunghe maniche ricaddero sulla poltrona: e si dondolava, tutta bianca, con gli occhi smeraldini, col viso duro e chiuso.

— Che vi ha detto, donna Lucrezia Savella?

— Mi disse, se portavo i fiori alla mia innamorata.

— E che rispondeste?

— Riposi: no.

— Perchè no?

— Perchè voi non mi amate.

— V’ingannate: io vi amo molto — disse ella, con una glaciale freddezza.

— Oh, Maria.

— Vi assicuro che vi amo — ripetette ella, canticchiando, rovesciando sempre più la testa sulle mani.

Egli si fece mortalmente pallido. Allora ella si abbassò, raccolse una rosa dal tappeto e gliela gittò. Egli la prese, avidamente, come un fanciullo felice.

— Che farete oggi, Francesco? — domandò ella, reprimendo un leggiero sbadiglio.

— Nulla, disse lui, vagamente — nulla, altro che amarvi, come sempre.

— E domani?

— Amarvi sempre, Maria.

— E se io parto?

— Partire con voi.

— Se muoio?

— Morire.

— Bisogna dunque amarvi — diss’ella, con un riso stridente, feroce.

Gli poggiò una mano sui capelli. Egli arrossì vivamente, chinando l’umile testa domata. E le ore fuggivano, per chi andava al dolore, per chi andava alla morte, per gli agonizzanti, per i trionfanti. Fuggivano le ore, inavvertite.


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