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IX
Di Cleobolo
[Morale e vita del parassita — Quel che gli manchi per essere un vero amico.]
Ogni mestiere ha le sue regole; ogni uomo ha la sua morale. Hanno la loro morale anche i parasiti.
— Salute, o Cleobolo — mi disse Titamallo1, il giorno seguente. Io stava con Platone nella curia, osservando l’immenso candelabro che Dionisio, non son molti anni, ha donato ai tarantini e che tien tante lampadi quanti sono i giorni dell’anno2.
— Salute.
— Io ti ho conosciuto ieri nel portico di Ercole, insieme con Nearco e Mnestero, e mi sono innamorato di te, o Cleobolo. Mi piace l’amor che tu porti alla filosofia. È vero che ieri ne dissi un poco di male. Ma che vuoi fare? Siamo nel mondo, ed il maggior numero di que’ che si trovavan con noi non eran filosofi. Del resto, domanda di me: tutti mi conoscono. Son capace di contentarmi di dieci lupini. Si tratta di dover bever acqua? sono una ranocchia. Si tratta di mangiar erbe? sono un bruco vero. Se non mi debbo lavare, divento l’istesso squallore; a soffrir caldo, sono una cicala; a vegliare, una nottola3. Sono, insomma, il primo pittagorista d’Italia. — Ma perché — dissi io, — con disposizioni tanto felici per la virtú, non la professi apertamente? Tu hai giá fatto ciò che era il piú difficile: esser virtuoso. —
Ed egli: — Te l’ho giá detto: siam nel mondo, siamo in Taranto. Tu vedi la lussuria che domina in questa nostra cittá. Ascolta tutto il nostro popolo: mangiare, bere e ingrassare allegramente. Tutt i tarantini incominciano a dire che gli altri uomini travagliano per poter godere un giorno: essi, quando han goduto, credono aver vissuto4. Vedi che le feste son piú numerose de’ giorni dell’anno; ed in molte di esse che vedi? Gran quantitá di manzi scannati per dare a mangiare al popolo. Tra poco avremo di questi pubblici conviti una volta al mese5. Se Archita vince una battaglia: — Bravo! — grida il popolaccio: — avremo una fesrta ed un pubblico convito. — Se si stipula coi turii o coi siracusani o coi cartaginesi un trattato vantaggioso: — Bravo! una festa ed un convito. — La repubblica è buona, perche si mangia. Tra questo popolo, che vuoi tu che io faccia? Io sono un povero uomo. Ho bisogno di mangiare. Quando qualche amico m’invita o che in qualche casa si celebrino nozze, io m’indosso la migliore delle mie vesti e corro. Fo di tutto per divertire i convitati: lodo il padron di casa; se taluno osa rimproverargli qualche cosa, lo difendo. Mangio. La sera me ne vo in casa, io, poveretto, solo solo, tra le tenebre, senza lume; perché non sempre posso aver con me un servo. Se mai per la strada m’incontro in qualche guardia, la prego perché non mi bastoni e mi lasci andare per i fatti miei; e se posso arrivar sano e salvo a casa, mi sdraio sul letto e mi godo tranquillamente quel sonno innocente, che mi ha conciliato il vino generoso, premio de’ miei travagli del giorno6. Maledetti coloro che hanno discreditata la piú onesta delle professioni dell’uomo! Un tempo i parasiti eran ministri egli dèi, alimentati dal pubblico7 E, per Ercole! sai tu che cosa è un parasito? È il migliore amico che tu possi avere: almeno è il meno seccatore. E questo, credimi, è molto. Se tu sei lieto, egli è lieto; se sei mesto, ti consola. Non è nè il tuo censore, né il tuo rivale, né l’emulo tuo: non si oppone a nessuno de’ tuoi desidèri, non ti contrasta nessuno de’diletti. Niun parasito troverai che desideri veder povero il suo amico. Si fará ammazzare mille volte per te, se per premio gli prometti una cena. E che fanno mai tanti altri, i quali io chiamo «parasiti-satrapi»? La differenza è nel solo premio: una cena o un comando di armata. Or ditemi, Cleobolo e tu Platone, che sei il piú grande tra i filosofi dell’etá nostra: se è vero che tutte le virtú non hanno altro fine che quello di render gli uomini amici, ditemi, che manca ad un parassito per esser l’amico per eccellenza? — La volontá e la libertá di dir sempre il vero — rispose Platone.