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X
Platone a Critone1
[Guerre e paci di altri popoli, discorsi preferiti dei perditempo — Ignorano e dispregiano le cose della propria patria — Delle nazioni straniere parlano a orecchio e spropositando — Si lascino pur chiacchierare: riveleranno, cosí, da sé la propria stoltezza — Abbondano dopo le turbolenze civili — Discussioni dei tarantini sulla forma di governo loro conveniente — Consigli di Platone — Non trascurare gli affari domestici per ciarlar troppo dei pubblici — Non desiderare cose inconciliabili: p. e., i piaceri sensuali e la virtú militare — Non {stuzzicare con la boria nazionale popoli piú potenti — Non insolentire contro i propri governanti — Né sospirare di continuo per un governo migliore — Ma Platone è ritenuto dai tarantini maestro di tirannide.]
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Quando hai conosciuti i savi ed i matti di una cittá, non hai conosciuto ancor tutti i cittadini. Vi rimane una classe mezzana, che è la piú numerosa, ed è composta di coloro i quali, essendo matti, non parlano, non trattano che cose, le quali dovrebbero esser riserbate ai savi. Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni molti, la cura principale de’ quali è di ragionar della guerra e della pace di tutt’i popoli della terra. Quando sei tra loro, ti par di essere in un concilio di re. Battaglie vinte e perdute, capitani premiati o puniti, province e regni dati e tolti, son la materia giornaliera dei loro discorsi. Se un povero uomo va a parlar loro della raccolta dell'anno, della sterilitá della terra, dell’intemperie delle stagioni, dell’epidemia che distrugge i cavalli di Saturo: — Eh! va’ via — gli dicono — con queste inutili ciance. Chi non le sa? Hai qualche nuova da darci dell’ultimo fatto di armi che vi è stato in Sicilia, a Selinunte, tra i cartaginesi ed i siracusani? —
Tu crederesti che essi giá sappiano tutto ciò che è utile sapere delle cose della loro patria. No: essi le ignorano e, quel che è peggio, le disprezzano. Cosí si rendono inutili entro la cittá e dispregevoli al di fuori.
Tu crederesti che essi abbiano almeno di Cartagine, di Siracusa. di Atene, di Sparta quella cognizione, che quasi ci fa divenir cittadini di tali repubbliche e ci fa risentir vivo interesse alla loro sorte. Nemmeno. Coloro, che tu vedi piú schiamazzatori e piú caparbi, son quelli appunto i quali ti diranno che il gran re abiti un’isola, che daH’Affrica in Sicilia si possa passar per terra. L’istessa ciarliera Atene cede a Taranto per il numero di quegli uomini, ai quali diceva Socrate che tutto sanno fuorché la scienza del bene e del male; di quei giovani, i quali tutto hanno imparato fuorché rispettare i vecchi; di quelli imbecilli che presumon conoscer la repubblica senza aver prima conosciuti loro stessi2. Credimi, o Critone: i mali son gli stessi da per tutto.
Forse un giorno taluno imporrá fine al loro cicaleccio3. Archita non lo cura, ad onta che il piú delle volte si parli di lui, e non sempre con giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt’i giorni in un portico per ragionar di regni? O presto o tardi si credono di esser re. Ma Archita, a taluno che gli ha consigliato di vietar tali adunanze, ha risposto: — Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra la sua stoltezza, né il popolo se ne accorge mai al primo momento. Se vuoi smascherar lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al primo istante? Corri pericolo di farlo riputar savio. —
Tali uomini abbondan sempre dopo le turbolenze civili, quali son quelle, onde sono state agitate e sconvolte, non molti anni sono, queste cittá italiane. Nell’anarchia delle leggi, ciascuno deve abbandonar i propri affari per seguire un partito; nell’anarchia delle idee, ciascuno deve scegliere un’opinione. Ciascuno s’immerge nel vortice, pieno la mente di pensieri, di disegni, di desidèri, di speranze; e, quando poi le cose si ricompongono, è inevitabile che la maggior parte di esse ne debba svanire: perché nelle turbolenze ciascuno avea i pensieri, i desidèri e le speranze proprie; e nel riordinamento non posson rimanere che le speranze, i pensieri, i desidèri di tutti.
Ed eccoti che in Taranto si disputa tutt’i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno abbastanza oligarchici...
— Tornate ai vostri affari — ho detto io a molti di questi tali; — fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e starete anche meglio nella cittá. Se voi vi volete occupar sempre degli affari pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomiglierete quei viaggiatori, i quali, per la curiositá di osservar gli edifizi pubblici nella cittá in cui arrivano, trascurano di trovarsi un albergo, e poi si dolgono che in quella cittá si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate prima uomini virtuosi.
Quando Pandora apri la prima volta il suo vaso, tutto ciò che vi si conteneva era bene, perché tutto è bene quanto vien dagli dèi. Ma i loro doni diventano spesso funesti ai popoli, perché non conoscono i veri rapporti delle cose, e spesso voglion godere di quelle che sono inconciliabili tra loro. I vostri maggiori eran liberi, perché forti e virtuosi. Voi non siete piú virtuosi, e pure volete continuare ad esser governati come lo erano i vostri padri, e volete riunir cose di loro natura opposte: la follia nelle vostre azioni e la saviezza nel vostro governo. Volete esser stolti impunemente e saggi senza incomodo. Non otterrete né l’uno né l’altro, e vi perderete.
Voi siete snervati dai piaceri de’ sensi; voi delirate per i vostri cavalli, per i vostri cocchi, per le vostre ville; della vostra giornata un terzo si consuma ad ungervi e pettinarvi, un altro terzo si dá alla crapula ed al vino, e l’altro terzo al sonno. Perché non vi godete in pace quei beni che vi offrono un suolo fertile, un cielo felice, un commercio vastissimo? Perché ricordate inutilmente i tempi di Falanto e dei duri suoi compagni?
Voi ambite la gloria delle armi; e poi temete i pericoli della vita militare, e, piú de’ pericoli, ne temete le fatiche. Irritate col vostro orgoglio nazioni piú potenti: prendete parte ora nelle dissensioni de’lucani, ora de’ napoletani4. Non vi è nazione, vicina o lontana, colla quale non siate o in guerra o in trattati piú peficolosi della guerra. E, quando poi il nemico, stanco di piú soffrirvi, vorrá vendicarsi, voi non potrete resistere, e sarete costretti o a cedere o a darvi ad un altro amico, il quale, sotto nome di protettore, sará per voi piú pesante di un conquistatore. E cosí, senza acquistar gloria, perderete finanche i vostri piaceri.
Voi non vi sapete governare, ed intanto insolentite contro ogni savio che voglia prender cura dei vostri affari; ed i vostri giovani non cessano di riscaldarvi la fantasia con idee di governi migliori, di eguaglianza, di libertá. Stolti che siete! voi volete esser tutti eguali, cioè tutti egualmente felici, ed intanto non riponete la felicitá nella virtú, che sola tra i doni degli iddii è stata distribuita egualmente a tutti gli uomini! Voi volete esser liberi, ed incominciate dall’esser schiavi di voi stessi! Queste visioni di uno stato migliore vi faranno perdere, un giorno, quello stato nel quale, se sapeste contentarvi, potreste esser felici. Imperciocché di ogni cosa se ne trova sempre un’altra migliore. Chi può mettere un freno all’immaginazione di colui che cerca una ragione per non esser soddisfatto? Ma l’ottima di tutte le cose è sempre quella di cui l’uomo è contento. Voi passerete da guerra in guerra, finché diventerete preda di un signore straniero; passerete da rivoluzione in rivoluzione, finché, stanchi degli errori e de’ delitti di coloro che vi ci hanno strascinati, giugnerete aH’ultimo grado di avvilimento in cui possa cadere un popolo, quello cioè di credere chimera la libertá. —
Questo io dico spesso ai tarantini per il tuo e mio amico Archita, che solo potrebbe restituir la felicitá ai medesimi, se gli stolti ne fossero capaci. Ma i tarantini mi fan de’ rimproveri, quasi che io fossi maestro di tirannia5. Tale è lo stato di corruzione in cui son caduti tutt’i popoli, che non possono piú soffrire né i loro vizi né i rimedi; e le veritá della filosofia si debbono vedere, con una specie di miracolo, condannate dai savi e predicate dagli stolti.