< Platone in Italia
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VII. Di Cleobolo
VI. Discorso di Platone VIII. Di Cleobolo

VII

Di Cleobolo

[Archita — Sua saggezza e sue cariche — Preponderanza di Taranto nella Magna Grecia a lui dovuta — Porto di Taranto il piú importante del Ionio — Porpora, privativa dei tarantini — Traggono la — lana da un’ostrica — Posizione geografica privilegiata di Taranto Discorso di Archita — Interpetrazione dei miti sulla fondazione di Taranto e di Atene — Distruzione di Carbina e sue conseguenze — Comunanza di religione, prima fonte di amicizia tra i popoli — Guerra c concorrenza commerciale — Agricoltura, industria della lana e allevamento delle razze equine, introdotte a Taranto da Archita — I.ibro di lui sull’agricoltura.]

Archita è ritornato. La sua presenza non ha diminuita in me l’opinione che di lui mi avea data la fama. Se Taranto occupa tra tutte le altre cittá d’Italia il primo luogo, lo deve ad Archita1

Egli è stato tre volte capitano di tutta la federazione de” greci, e sette della sua patria. Ha sostenute molte guerre, ed è stato sempre vincitore. Una volta i suoi nemici pervennero colle loro briglie a farlo deporre, ed i tarantini furono battuti. Si diceva che Archita, perpetuandosi nel comando, infrangeva le leggi. Quasi il principal fine di ogni legge non fosse quello di far che governino gli ottimi!

Oggi Sibari non è pili, e Turio, che è surta sulle sue ruine, non l’ha mai eguagliata; Locri e Crotone non conservano altro che il nome e la memoria dell’antica grandezza; e Reggio non occupa che il secondo luogo dopo Taranto. Mantiene la repubblica tarantina quarantamila fanti e seimila cavalli, un’armata di mare piú potente di quella di terra2 il piú opportuno al commercio. Nessun porto vi è sul Tonio, dalla punta di Leucopetra fino ad Adria, che possa preferirsi a quello di Taranto. Il porto di Brindisi, che forse potrebbe per ampiezza superare il porto di Taranto, manca finora degli uomini necessari a mantenervi un commercio molto esteso3. Tutti gli altri porti, che sono sul Ionio, sono piccoli ed incomodi. L’Italia al mezzogiorno di Taranto si va restringendo, ed il commercio è ivi diviso tra i popoli che sono sull’uno e sull’altro mare. Ipponio e Velia dividono il commercio di Locri e Crotone, e Reggio suddivide ancora il commercio di tutte e quattro queste cittá. Taranto si trova nella fronte dell’Italia che incomincia dalla Messapia a divenir spaziosa, ed è cosí il centro comune del commercio di molti popoli.

I tarantini hanno ciò che nel commercio è utilissimo, una derrata privativa, che non teme concorrenza, la porpora. Essi la traggono da due specie di conchiglie, una delle quali dá un liquore di turchino carico, e l’altra di un rosso chiaro. Dalla diversa preparazione e dalla varia mistura di questi due liquori nasce quella quasi infinita varietá di colori, che si vendono sotto il nome di «porpora». Il piú pregiato è quello che si rassomiglia alla violetta4. La quantitá della porpora, che in Taranto si prepara, è tanta, che dai cocci che avvanzano si è formato un monticello fuori della porta Marittima.

Preparano anche i tarantini una lana colla lanuggitie di un’ostrica. Questa lana è molto piú morbida della lana ordinaria; il suo color naturale rassomiglia un tessuto di squame di ferro levigato e di oro, e ne ha in parte anche il lucido5. I popoli vicini a Taranto sono utili al suo commercio ed alla sua forza. Al suo commercio, perché, non avendo essi arti, ed abbondando, dall’altra parte, de’ prodotti che loro somministra un terreno fertile e coltivato con diligenza, vendono questi ai tarantini a piú mercato e comprano le manifatture piú care. Alla forza, perché, essendo piccoli, divisi, non possono, nemici, dare alcun timore, ed amici, possono accrescergli molto di forza. I crotoniati, i locresi, i reggini, i turii confinano coi lucani, nazione potente e numerosa, che ha i suoi interessi propri e la sua particolar ragione e di pace e di guerra. I tarantini confinano coi turii, coi messapi, coi salentini, cogli appuli, popoli piccioli, i quali non possono far altro di meglio che servire ad una nazione piú grande. I tarantini li contengono colle forze proprie e coll’amicizia de’ lucani e de’ sanniti, nazioni potenti, non gelose, perché lontane, ed amiche dei tarantini, perché due potenti, i quali non sono gelosi tra loro, si riuniscono sempre, quando vi sieno le spoglie di un altro da dividere.

Tali sono i principi coi quali Archita ha elevato Taranto al primo grado di grandezza tra tutte le altre cittá di questa parte dell’Italia. Ma egli non si è rimasto a questo, ed ha creduto che nulla si sarebbe fatto, se alla superioritá dell’impero non si fosse aggiunta anche la superioritá della mente e della sussistenza.

Ti narrerò ciò che egli su questo proposito mi ha detto. — Taranto si crede fondata da Tara, che era un guerriero tíglio di Nettuno6. Voi ateniesi avete della vostra origine una tradizione, secondo la quale Nettuno e Minerva contrastarono lungamente per sapere chi dovesse dare il nome alla vostra cittá. Queste favole sono immaginate dagli stessi popoli, e, se non svelano la loro vera origine, indicano però il loro modo di pensare. I vostri maggiori indicarono, colla contesa dei due numi, l’unione dell’agricoltura e del commercio; i nostri, col guerriero figlio di Nettuno, l’unione del commercio e della guerra. Gli spartani, i quali vennero posteri or mente ad abitar questi lidi, fecero prevalere la guerra. S’incominciò dal distruggere gli abitanti del paese e ridurli in schiavitú; indi si passò a distruggere i vicini. Far la guerra non era altro che distruggere o esser distrutto: non si sapeva altro mezzo di divenir grande che quello di rimaner solo. Insensati! Il solo non è né grande né piccolo: è miserabile. Quando voi avrete ridotta l’Italia ad esser un deserto, non avrete fatto altro che distruggere Taranto. Il primo effetto della sapienza è stato quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo «li distruggersi, ma di difendersi; e, convien dirlo, questo primo effetto si deve alla religione piú che alla filosofia.

Tu hai potuto veder in vari siti della nostra cittá delle pietre, sulle quali si leggono scolpiti i nomi di molti che piú non esistono. Essi sono nomi di quei tarantini che presero Carbina, terra de’ Iapigi, e nel furore della vittoria rinchiusero tutti gli abitanti in un tempio, ed ivi, al cospetto degli dèi, dopo aver sfogata tutta la militare libidine, non perdonando né ad etá né a sesso, tutti li scannarono. Tali erano i nostri antichi padri. Narrasi che gli dèi, sdegnati contro tanta scelleraggine, fulminarono tutti coloro che vi ebbero parte. Nessuno si salvò dalla giustizia celeste. Gli stessi loro discendenti sono condannati a perpetua miseria; e, se in Taranto si vuol indicare un uomo estremamente misero, si dice: — Egli è della discendenza di coloro che distrussero Carbina7 — Questa memoria di tremenda vendetta divina si è creduto utile conservarla sempre viva nelle menti de’ nostri cittadini. Sembrerá strano, ma pure è vero: gli uomini non si riconoscon simili alla forma del corpo e della mente, che la natuta ha data comune a tutti, e, per credersi fratelli, debbono incominciare dall’aver degl’iddii comuni. A misura che i costumi e la lingua e le leggi diventan simili, i vari popoli diventano piu umani. L’ateniese incomincia a veder nello spartano un greco; il tarantino nel crotonese un italiano: allora la saviezza compisce l’opera e dice a tutti: — Voi siete figli della stessa terra. —

Il primo passo, che la sapienza umana fa per giugnere a questo fine, è quello di persuadere ai popoli che colla sola guerra non si vive. I popoli, per tal modo, diventan piú umani, perché hanno minor interesse ad esser crudeli. Sorge tra loro un’altra guerra di commercio, nella quale, per vincere, è necessarie che gli uomini si conservino e si moltiplichino. Ma quello di cui io piú mi glorio, se mai gloria alcuna l’uomo da bene può trarre da ciò che ha tentato per l’utile della sua patria, è di aver persuasi i tarantini che commercio non vi è senza arti, e che tra le arti la prima è l’agricoltura.

Noi abbiamo la porpora, e tempo fa non avevamo lana. Eravamo costretti a vender quella a vilissimo prezzo, e comprar ad altissimo i panni tinti da altri. Ora s’incominciano a moltiplicar le pecore e si ha molta cura della lana, che è divenuta la prima tra tutte le altre8. Tu hai potuto ben osservare le terre intorno al Galeso ricoperte di pecore, le quali l’industria de’ nostri tien quasi vestite di una pelle, onde la loro lana né si guasti dal fango e dall’intemperie delle stagioni, né si perda fra gli sterpi e gli spini9. L’uomo è divenuto piú industrioso, e la natura ricompensa piú generosamente il suo lavoro. Si è migliorata la razza de’ nostri cavalli. Il nostro suolo, piano, adusto, è opportunissimo al nutrimento di questo generoso compagno dei perigli e della gloria dell’uomo10. Io ho creduto utile raccogliere i precetti della buona agricoltura e formarne un libro, che possa servire a render il popolo piú istruito su di ciò che, ignorato, nuoce egualmente al povero ed al ricco e, conosciuto, giova egualmente al ricco ed al povero11. Non ho potuto mai né imitare né lodare ciò che raccontasi del vostro Talete, cioè che egli sapesse tutte le cose utili alla vita e mettesse la sua gloria in disprezzarle. Se ciò è vero, ben gli sta che, per osservar gli astri, sia caduto in un pozzo. Io non mi stancherò mai di ripetere ai miei tarantini per essi non esservi nulla piú utile della buona agricoltura. Se mi dimandano come Taranto sia diventata grande, rispondo: — Colla buona agricoltura. — Come possa conservarsi grande? — Colla migliore agricoltura. — Come possa accrescere la sua grandezza? — Coll’ottima agricoltura. — Essi talvolta voglion favole, ed io rammento loro che Apollo non altro contesse a Falanto che Satureio ed i fertili campi di Taranto12. —

  1. DIOGENE LAERZIO, in Archita. ELIANO lo dice capitano solamente sei volte: Variarum historiarum, VII. STRABONE, VI; SUIDA, ad v. Architas.
  2. . I tarantini hanno saputo mettere a profitto il loro sito, le relazioni che aveano coi loro vicini, il loro suolo. Il sito era STRABONE, VI, dice trentamila fanti e tremila cavalli, non comprese le truppe di riserva; e Strabone non parla dell’epoca piú florida di Taranto, qual era la nostra. PLUTARCO ci racconta che, quando i tarantini invitarono Pirro, dissero di non aver bisogno di altro che di un generale, poiché essi, uniti ai messapi, lucani e sanniti, avrebbero dati trecentocinquantamila fanti e trentamila cavalli. Da questi fatti CARDUCCI, nelle sue annotazioni al poema di AQUINO (Deliciae Tarentinae) crede poter asserire che Taranto avesse potuto contenere 250.000 abitanti. Se egli intende della sola cittá di Taranto, il numero ci sembra esagerato: se della intera repubblica, ci sembra minore del vero. La cittá avea una superficie quadrata di circa un miglio ed un terzo (vedi la pianta al fine del volume), ed in questa superficie mal potrebbero abitare 250.000 uomini moderni. Aggiungete che gli antichi non conoscevano le nostre case a molti piani, consumavano piú terreno di noi in edifici pubblica; e quella superficie, la quale potrebbe contener 100.000 moderni, appena conterrebbe la metá degli antichi. Se poi si parla dell’ intera repubblica, ammesso per vero che essa avesse una forza militare di non piú di 40.000, e calcolando un soldato per ogni otto uomini (calcolo che da molti si siegue come il piú probabile, per render ragione delli troppo numerosi eserciti degli antichi), si avrebbe una popolazione di 320.000 uomini. Ma è da riflettersi che questo calcolo vale per i sanniti, per i lucani, e non può valere per i tarantini; i quali, avendo molte arti, molto commercio ed una marina poderosa, non potevano aver i soldati nella proporzione di 1 a 8, ma appena avran potuto averne in proporzione di 1 a 12. La popolazione della repubblica tarantina non ha potuto, probabilmente, essere minore di 500.000 abitanti. E questo numero si trova anche proporzionalo all’estensione del suo territorio, il quale equivaleva alla ventesima parte di quello che oggi chiamasi «Regno di Napoli». Or la popolazione dell’intero Regno si valuta, nel quarto e quinto secolo di Roma, eguale a circa io in 12 milioni; ed in questo convengono tanto i seguaci di WALLACE quanto quelli di HUME.
  3. Si vede che, al tempo in cui fu scritta quest’opera, Brindisi non era ancor quella che poi divenne all’epoca dei romani.
  4. Vedi l'Appendice IV.
  5. Vedi la stessa.
  6. PAUSANIA, in Phocicis; SERVIO, Ad Aeneidem, III, 551. Tra l’epoca favolosa di Tara e l’epoca di Falanto, la regione tarantina è stata, dicesi, posseduta da una colonia cretese, che venne a stabilirsi in Italia circa due secoli prima della guerra di Troia. MAZZOCCHI (Ad tabula in Heracleensem, p. 93 sgg.), il quale crede di vedere in Tara un figlio di Noè, riconosce ne'cretesi quei cerctei, a’quali fa dir la Bibbia; «Nos sutnus qui fugimus a farie Iosuac latronis». Cosí era piú facile segnar l’epoca degli avvenimenti che dimostrarne l’esistenza. Questi cretesi andavano in cerca di Glauco, che si era gittato in mare, e poi divenne una divinitá. Essi lo cercarono sulle prime in Sicilia; ma furono scacciati da quei popoli, che non lo conoscevano. Minos, loro capitano, vi perdé la vita. Iapige, suo figlio, si rivolse con miglior fortuna in Italia; non pensò piú a Glauco, e si stabili in quella parte della medesima, cui impose il proprio nome. Questo ci narra STRABONE, VI.
  7. ATENEO, libro XII.
  8. PLINIO, VIII, 48; COLUMELLA.
  9. ORAZIO, Odi, II, 6.
  10. Vedi l’Appendice IV.
  11. VARRONE, De re rustica, I.
  12. STRABONE, VI.
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