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I. Il dove
Idilli Idilli - II. Il simulacro

I

Il dove

1
     Dov’è del bosco piú l’orror frondoso,
sacro al dio dei pastor, s’incurva il monte,
e nel tacito sen d’antro muscoso
sgorga fra i lecci e i caprifichi un fonte,
che in interrotto gorgoglio lascivo
geme tra i sassi e si converte in rivo.
2
     Siepe ridente di selvagge rose,
tortuosa lambrusca intorno errante,
salici, canne, ontan, vetrici ombrose
difendono dal sol l’onda tremante,
che in cavo tufo, mormorando, piange
e in mille spruzzi, a piú color, si frange.
5
     Sul curvo sasso un invecchiato abete
erge, reciso, il putre tronco antico,
e va torcendo edra, tessuta in rete
con le pallide frondi, il fusto amico,
che, fuggendo la rupe in mezzo all’onde,
si pente del suo ardire e si confonde.

4
     Dietro di questo le ritorte braccia
silvestre inarca pampinosa vite;
un corbezzolo, sacro ai fauni, allaccia,
che par tremando a riposar l’invite:
geme quell’arco, su cui son ridutti
i verdi rami ed i sanguigni frutti.
5
     Quando dal ciel la sonnacchiosa aurora
il lembo scuote della rosea veste,
e i fiori avviva, e gli alti monti indora
Febo, fuggendo la magion celeste,
qui scendono le ninfe, e qui vivaci
vengon Silvano a carezzar coi baci.
6
     I petulanti satiretti intorno
lor fan corona, e con scherzose grida
plaudono ai baci, salutando il giorno;
altri, sperando che lasciva arrida
al suo desio, socchiude l’occhio e chiede
un bacio a quella che piú docil crede.
7
     V’è chi si cela dietro il sasso e, chino,
spesso nell’onde di balzar si arrischia,
se una naiade vede a sé vicino;
ignoto, un altro la richiama e fischia;
altri l’ha in braccio e il primo fior ne prende
su la sponda, che nvidiosa pende.
8
     Ancor due lustri non varcâro quelli
cornuti putti, che salendo vanno
sul corbezzol vermiglio agili e snelli,
e dei lenti a salir beffe si fanno;
altri mangian le frutta, altri diletto
han di tingersi il volto ed altri il petto.

9
     Driade scherzosa da una pianta fuore
esce al rumore con le chiome bionde;
ma, piena di vergogna e di timore,
nella scorza materna si nasconde:
un ardito fanciul l’adocchia; cheto
e a braccia aperte va del tronco dreto.
10
     Non si tosto la vaga verginella
apre la scorza e per guatar s’affaccia,
che l’insolente su la faccia bella
le lancia un bacio e forte il tronco abbraccia:
invan tenta celarsi e cerca invano
fuggir ritrosa dall’accorta mano.
11
     Soccorso grida, e la caprigna schiera
corre alla pianta e seco si trastulla;
un la tocca, un le accenna, un si dispera
che giungere non puote alla fanciulla
e di romper la calca invan si strugge;
uno vanne, un ritorna e un altro fugge.
12
     Impallidisce il giorno: ai cheti orrori
cedono i raggi dell’argentea luce:
cercati l’ovile il gregge ed i pastori,
e Silvan nella grotta allor conduce
i suoi seguaci, e in mezzo all’onde algose
tornan le ninfe o nelle piante annose.
13
     Solitario il boschetto in quegl’istanti
t’offre, Fille, un albergo, offre la pace
a due fedeli e fortunati amanti.
Un molle zeffiretto si compiace,
mentre dal seno un bianco vel ti scioglie,
lambir le rose e le languenti foglie.

14
     Se fuggir lasci l’occasion, sovvienti
che per non piú tornar spiega le piume,
e che corron volubili i momenti
come l’onde che al mar fuggon dal fiume:
l’onda, che giá passò, giá si rinnova;
s’è perduta fra l’altre e non si trova.
15
     Chi sa se il giorno, che succede, ancora
sará figlio di questo? Invan lo speri
forse, e pentita accuseresti allora
il lento vaneggiar de’ tuoi pensieri.
Ahi, quante volte nell’etá piú verde
per un momento sol tutto si perde!
16
     Non fidiamci all’etá: passa di Lete
l’avara barca chi s’incurva al peso
del nonagesim’anno, e di secrete
grotte colui che abitator si è reso,
e in braccio a Glori ed all’amica sorte
credea, trilustre, d’ingannar la morte.
17
     Vieni al mio sen, finché mi serba in vita
la ferrea Parca che i miei dì misura;
meco a goder, meco a scherzar t’invita
la pietosa d’amor provvida cura.
Né vergognarti, quando il cielo è fosco:
al piacer e al silenzio è sacro il bosco.

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