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ELOGIO
del signor
GIUSEPPE TORELLI
scritto
DA SUA ECCELLENZA
IPPOLITO PINDEMONTE
Giuseppe Torelli nacque in Verona l’anno 1721 li 3 Novembre di Luca Negoziante, e di Angela Albertini Veneziana. Cominciò i suoi studj nel Collegio de’ Padri Somaschi, li continuò in casa de’ celebri Fratelli Ballerini, e li terminò in Padova, ove si strinse d’amicizia co’ primi uomini di quella dotta città. I Morgagni, i Pontedera, i Poleni, i Dandini, i Volpi ed i Facciolati non solamente vedeano in lui un giovinetto d’alte speranze, ma lo interrogavano ancora qual giudice sottile ed accorto; ed egli non cessò mai, ripatriato che fu, di ricordar con riconoscenza, con ammirazion, con diletto quegli Amici, que’ tempi, e que’ suoi giovanili sudori.
Dettò in Italiano, e in Latino con somma purità e squisitezza; e fu perito del Greco, e dell’Ebraico, non che del Francese, dell’Inglese, e dello Spagnuolo. Versi però non iscrivea che Italiani. Intese la musica, ed ogni bell’arte così, che potea sentenziar d’un quadro, o d’un cammèo, come d’una orazione, o d’un’ode; e delle cose antiche parlava, come se negli antichi tempi vivuto fosse. Quanto alle scienze, le visitò tutte, ma con la matematica dimorò. Finalmente può dirsi, che fu in lui un certo senso dell’ottimo in ogni cosa, un’anima geometrica, e nel tempo stesso di finissima temperatura, onde l’amor del vero insieme e del bello, onde quel felice bisogno e invidiabile di unire alle più gravi le facoltà più gentili, di viver tra Newton, e Omero.
Se fu letterato raro per un sapere universale (nè già su i dizionarj, i compendj, i volgarizzamenti fondato) tal fu ancora pel genere della vita. Nemico d’ogni schiavitù, e de’ beni di fortuna agiato abbastanza, egli ricusò ogni carico, benchè lucroso, ogni dignità, benchè risplendente: non che la fatica temesse; ma volea egli scegliere la sua fatica, nè seguire in ciò altri comandi, che quelli del genio suo e delle Muse. Indarno fu dunque invitato a Padova per leggere in quella Università, indarno a Mantova per esser Segretario di quell’Accademia, indarno a Milano, ove il Conte Cristiani, che n’era Governatore, al suo fianco desiderava d’averlo: nè un largo stipendio, e il titolo di Colonnello poteron farlo Presidente degli studj in questo Militare Collegio. Nello scrivere studiava la chiarezza in particolar modo, ed i lunghi giri evitava, cercando egli più che la copia, e ricchezza, la sobrietà, ed una certa quasi castità di comporre; e non già che ci riesca digiuno e scarno, ma forse si può aggiunger qualche cosa al suo dire, nulla levargli si può. Nè gli mancavano i sali al bisogno, e le grazie, come si vede segnatamente ne’ suoi Dialoghetti e nel Sogno, parendoci di legger Pascale in quelli, e Luciano in questo, che scrivan Latino. Ne’ versi si vede quello, che pur ne’ suoi discorsi appariva, cioè quanto innamorato fosse di Dante e del Casa; il che mostrò ancora riguardo al primo, con una Lettera, in cui vien difendendolo dalle ingiurie di Voltaire; e con una, in cui, spiegando due passi del Purgatorio, da quelle lo difende de’ Commentatori. Scherzano alcuni su la piccolezza di queste sue Operette; ai quali allora crederò io dover rispondere, che si valuteranno i libri come i diamanti.
Tradusse dal Greco, dal Latino, e dall’Inglese, conservando sempre una fedeltà grande, senza danno dell’eleganza. La Nazione, e Letteratura Inglese amava egli sopra tutte le moderne, e straniere: verso gli scrittori Francesi, forse anche per lo molto suo usare col Marchese Maffei, fu così difficile, che potè ad alcuni sembrare ingiusto. Negli ultimi anni però parve, che l’Autor del secolo di Luigi il Grande, gli mettesse alquanto in grazia la Nazion tutta, come quello del Don Chisciotte l’avea reso amico degli Spagnuoli. Ma fece le più care delizie sue degli Antichi, di cui sempre inculcava l’imitazione, come di quelli che più alla perfezione s’avvicinarono, cogliendo in quel Bello, ch’è uno e invariabile, perchè invariabile ed una è quella base, su cui si fondano le regole vere, cioè la natura dell’uomo.
Né men, che la Letteratura, avea in pregio la Geometria degli Antichi, nelle dimostrazioni de’ quali la precisione e il rigore vanno a maraviglia del pari con la semplicità ed eleganza. Un ingegno, come quel del Torelli, dovea restar preso a quel metodo, che ci guida con tanta diligenza di passo in passo, e sparge di tanto lume tutto il cammino. Su le prime seguì anch’egli l’usanza; ma poi avvisato da dotto Matematico Vicentino, e forse ricordatosi di Newton, che ritornò su i Geometri antichi, da lui troppo tosto per l’amor del calcolo abbandonati, prese a studiare di nuovo Euclide, ma in Euclide medesimo; ridendosi di coloro, che pretesero riordinarlo, rompendo quella catena mirabile di proposizioni, che sola può vincere uno spirito risoluto di non darsi che all’evidenza. Frutto di questi suoi studj furon varie Operette; tra le quali distinguesi quella, che uscì col titolo Del Nulla Geometrico, in cui egli tentò di trasportare il rigore e la certezza dell’antica scienza, nella più sublime e più utile parte della moderna, cioè nel calcolo infinitesimale. Ma sopra tutte maraviglioso è il suo trattato di Prospettiva, che pubblicato fu dopo la sua morte e per la somma cura, onde svolge il solito filo sintetico, e per non essersi servito, che dei pochi semi da Euclide gettati sovra un tal campo.
Postuma è ancora la sua versione ed emendazion d’Archimede, preceduta da un’eccellente prefazione, ove con la vita d’Archimede si dà contezza delle sue macchine; si prova esser suoi i due
[mancano pag. 16 e 17]
Chi volesse l’ingegno del Torelli quasi dipingere, potrebbe dire, che non fu per avventura suo carattere principale la prontezza, e la velocità, ma sì l’acutezza, e la penetrazione; e che se le cose non afferrava prima d’ogni altro, d’ogni altro però le vedea, afferrate ch’egli le avesse, più chiaramente. A questo aggiungasi un vigor sommo, con cui potea sostenere le più composte e laboriose dimostrazioni delle verità più difficili ed avviluppate, ed un’amenità, che dall’uso della Geometria non era stata punto insalvatichita. Ma in lui risplendea particolarmente quella parte dell’ingegno umano, ch’è la più necessaria di tutte, e senza cui nulla giovan le altre, quella, ch’è sì ben detta dagli Spagnuoli l’attributo Re e da Orazio principio e fonte del retto scrivere; il buon giudizio. Onde meno è da maravigliarsi, se ricco fu sempre di quella civile prudenza, che in lui si vide ancor giovinetto; quando riconciliò in Padova due gravi uomini, il Volpi ed il Facciolati, di rivali, come spesso accade, fatti nemici; e che poi venne ammirata più volte nella sua patria, ed allora massimamente, che di tanto contribuì a sopire quelle discordie così fatali ne’ lor progressi, come ridicole nell’origin loro.
Egli mi sembra pertanto sin dall’età più fresca un vero Sapiente; perciocchè nè il fervore degli anni primi, nè l’esempio, nè altro potè mai turbare quella sua vita studiosa sempre, regolare, tranquilla. E come fu anche scherzevole e arguto, così può dirsi; che nè i primi suoi anni andaron privi d’una certa gravità senile, nè gli ultimi d’una giovanile giocondità. Non dubiterò dunque di chiamarlo ancora felice (se per gli uomini in terra è un tal nome); perciocchè non mancò a lui, oltre la virtù, nè l’importante salute, nè un ragionevole patrimonio, nè care e illustri amicizie, nè molta fama; ed ebbe anche quella stima, ch’è la più difficile ad ottenersi, cioè quella de’ suoi proprj concittadini; a lui ricorrendo gli artisti d’ogni maniera, da lui volendosi o un’iscrizione da farsi, o il suo parer d’una fatta, ed essendo in tutti gran curiosità delle sue decisioni; talchè diremo per lui, che anche la casa d’un uom di gusto, esser può, come scrive Tuliio di quella d’un Giureconsulto, l’oracolo della città. Che se non ebbe una lunghissima vita, essendo morto li 17 Agosto dell’anno 1781, cioè nell’età d’anni 59; rimane ancora a sapere, se una tal vita, la quale non s’ottiene, che al prezzo di veder morire tutti i nostri più cari, sia parte essenziale della felicità umana. L’amico, parente, ed erede suo, Alberto Albertini, che le ricchezze dello spirito unisce a quelle del traffico, bel monumento gli ha fatto alzare nella chiesa di Sant’Anastasia, ove fu sepolto; quest’Accademia Filarmonica, di cui fu sì grande ornamento, recitar gli fece pubblico elogio; questo Capitolo, alla cui Biblioteca lasciò in testamento la propria, di bella memoria pur l’onorò; e lo stesso di far pensava questa città; che poi, non so se per isventura del Torelli, o sua, pensò di non farlo.
Fu della Religione osservator grande, senza punto far dell’ipocrita; ed ancor più con la condotta, che col discorso, condannava coloro, che non credono alla virtù; per consolarsi, credo io, di non possederla. Diligentissimo nelle azioni sue, come nello scrivere, e così retto in quelle, come nel pensare. Odiava ogni assurdità, e sgarbatezza, non men nelle cose della vita, che in quelle della letteratura. Di costumi più austero che altro, e dolce nondimeno di affetti. Nemico de’ minuti convenevoli, senza trasandarli; e solo, benchè usasse con tutti, tanto amante del conversare, quanto con persone usava di studio. Parco lodatore de’ moderni scrittori, e degli antichi, se lodar questi si possono soverchiamente, soverchio. Disapprovava per lo più col silenzio; e però, di contentatura difficile, ch’è quanto dire di gusto squisito, taceva spesso: ma volentieri con quelli, che più a sangue gli andavano, ragionava; chiaro sommamente come matematico, e non rade volte, come poeta, leggiadro; benché si potesse dir di lui, che parve ad un’ora e profondo poeta, ed elegante matematico. Piacevolissimo, in casa guardandolo, co’ domestici; e verso la madre, perduto il padre in fanciullesca età, tenerissimo. Moglie, o per l’amor d’una vita in tutto libera, non volle pigliare, o per la condizione de’ tempi suoi non osò. Quanto alle amicizie poi, così sollecito nel coltivarle, come nel formarle guardingo: nondimeno (tanto reputato era e cercato) mai non iscarseggiò egli di amici; tra’ quali assai amollo chi scrive, e sparge questi pochi fiori sul cener suo: e non è già questa la prima, o seconda volta; ma il fece ogni volta più assai pel conforto, che così cerca a se stesso, che per l’onor, ch’egli creda poterne in lui derivare.