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Quando la mattina il Peroni arrivò all’albergo con la valigia, Alberto era in uno stato d’agitazione intollerabile, per effetto d’una di quelle febbri improvvise che saltano addosso all’uomo nei periodi travagliosi della vita, e che son come il cozzo simultaneo e violento di tutti gli affetti e di tutti i pensieri contrari. Il senso della precarietà del suo stato, l’amore crescente per la Zara in contrasto con l’amore ancor vivo, più che ei non credesse, per la sua Giulia, che nella lontananza si abbelliva -, la mancanza d’un’occupazione che gli riempisse la vita - l’orrore crescente di quella misera vita d’albergo - il presentimento delle nuove ire che gli avrebbe suscitato contro l’ultimo articolo della Quistione uscito il sabato sera - il più audace e violento, che avesse mai scritto - delle obbiezioni generali folgoranti balenategli nella notte alla sua idea - tutto questo lo aveva messo in un orgasmo ardente. Egli aveva bisogno d’uno sfogo, di azione, d’una distrazione violenta, d’un pericolo, d’uscire in qualunque modo da quello stato. E stava leggendo con dispetto una lettera ricevuta la sera prima dal Calotti, che gli proponeva "una conferenza ai metallurgici disoccupati" con l’ottimista idea che, nello stato in cui si trovavano, sarebbe bastata una sua parola a trascinarli tutti al socialismo, quando il Peroni entrò, con la sua valigia.
Entrando, girò sulla camera uno sguardo lento, che espresse tutto il suo pensiero: un senso di commiserazione come da uomo a fanciullo, una pietà per la pazzia che l’aveva ridotto dalla vita di famiglia in una bella casa alla solitudine di quella stamberga.
Ma il suo viso esprimeva un sentimento più profondo, una grande tristezza. Alberto lo fece parlare. L’avevan licenziato dalla fabbrica, dove non reggeva a muovere i materiali pesanti. Non aveva trovato posto al gazometro. Suo figlio pure era disoccupato. Alla figliuola avevan ridotto il salario.
- A questi ferri mi trovo! - disse con un sorriso amaro. E senza dimenticare il sorriso, come facendo un soliloquio, guardando sul pavimento, filosofeggiò sulla società. Chi n’ha troppo, chi n’ha troppo poco. Giusto, venendo, egli aveva fatto delle meditazioni per la strada. Era passato davanti a botteghe piene di tutte le primizie, mucchi di bottiglie dorate, piatti belli e fatti che costavano venti lire l’uno, ghiottonerie venute da tutti i paesi più lontani -; aveva visto delle signore andare a messa, con duemila lire di roba addosso, con balie pompose, con bambini vestiti da principi, che tiravan dei giocattoli che valevano una settimana del suo lavoro; tranvai carichi di gente ben vestita e allegra che partiva per scampagnate; carrozze luccicanti; ufficiali coperti d’oro e d’argento; i muri tappezzati d’avvisi di teatri, di concerti, di trattorie, di nuovi liquori prelibati; tutte le seduzioni d’una grande città - da ogni parte le voci e le immagini dell’abbondanza, del lusso, dei piaceri... e per me, disse, con un riso sinistro, dopo 40 anni di lavoro, il mio solo piacere è questo - e mostrò una cicca di Cavour che teneva fra le labbra - e ancora, farne economia, perché duri. - Bah! che mondo! - E rimase assorto, scrollando il capo.
Ma si riscosse con vivacità per respingere l’offerta che Alberto gli fece, con parole di preghiera - No -, disse, scrollando il capo, come esprimendo una profonda convinzione. - Non sarebbe giusto. Una cosa è lagnarsi, una cosa è... accettare. Non se n’abbia a male. Riconosco il buon cuore lo stesso.
- Dunque - gli chiese quasi con dispetto Alberto - a tutto questo siete rassegnato? Secondo voi, non c’è nulla da fare? È il buon dio che ha fatto le cose così, e tutti quelli che vogliono mutarle son matti?
- Io non so -, rispose - io vedo che non riescono a cambiar niente, e che tutti quelli che hanno qualche idea, finiscono a star peggio di prima. Ecco quello che vedo.
E lo sguardo che girò di nuovo sulla camera espresse meglio il suo pensiero. Poi, con l’atto di chi tronca un discorso inutile, domandò: - Se ha delle commissioni per la famiglia...
- Nessuna -, rispose Alberto.
Quegli lo salutò, e si mosse verso l’uscio, lento ma col passo di chi ha qualche cosa da dire. Quando fu sull’uscio si voltò, e con una voce bassa, con un accento tra di preghiera e di compassione e di benevolenza da vecchio a giovane: - ... andiamo, signor Bianchini... - mormorò - Mi permette?... Sono un vecchio conoscente della casa... Ho da dire a madama che oggi lei torna a casa?...
- No - rispose. Peroni se n’andò.
Ma quella domanda crebbe la sua agitazione, il cozzo degli affetti, il bisogno d’uscire, d’agire, di soffocare gli affetti in una più viva commozione, e quando il Calotti venne e, dopo parlatogli della conferenza, gli disse che andava a recar qualche soldo a certi disoccupati metallurgici, - quantunque egli avesse fissato per la sera di quello stesso giorno d’andar col Baldieri; disse risolutamente: - Vengo anch’io - porse una metà della somma stabilita, si mise il cappello, e uscì rapidamente con lui.
Ah! non avrebbe potuto sceglier meglio per liberarsi dei suoi pensieri! Quello che vide superò la sua aspettazione. Egli capì per la prima volta che cosa fosse l’orrore della situazione d’un uomo onesto e sano messo al trivio dell’accattonaggio, del furto e del suicidio, che si riduca poi a due sole vie, la prigione e la morte, le quali lasciano ugualmente la famiglia nella fame! Egli salì interminabili scale. Trovò, anche in case belle in ogni altra parte, delle soffitte orribili, dei simulacri di tombe, in cui fosse stata sepolta della gente non ancora ben morta. In alcune, poiché non potevan pagare il fitto, il padrone non avendo più fatto far riparazioni, ci pioveva dentro, e il vento entrava pei vetri rotti; il mobilio ridotto a due o tre seggiole; orribili letti, in cui non c’eran più lenzuola; spesso anche in mucchi di paglia; e su quelle paglie, malati senza coperte, coi panni addosso; bimbi accucciati contro le pareti, con gli occhi fissi, come cani infermi; donne macilente con l’aria istupidita. In alcune assenti il padre e la madre, e tutti i ragazzi, pallidi, erranti per i corridoi e per le scale, aspettando un pezzo di pane che quelli erano andati a cercare, forse inutilmente. Molto si vedeva, ma parlando con le donne, egli ebbe ancora cognizione di dolori che non immaginava. Dei mariti, dopo aver cercato per un mese lavoro indarno, disperando di trovarne, incapaci di sopportare lo spettacolo della casa nuda, della moglie sparuta, dei bimbi piangenti, uscivano all’alba, ed erravano senza direzione pei colli e per la campagna, come pazzi, per non tornar che la sera, a sentirsi dare dai bimbi queste pugnalate nel cuore: - Ma perché non compri da mangiare? perché non lavori? perché non porti del pane a casa? Egli non le aveva immaginate le scene, gli scoppi disperati di pianto delle donne quando l’uomo torna a casa e dice: - Non ho trovato! - gli spasimi per le lunghe assenze, affannate dal terrore che l’uomo si sia ubbriacato d’acquavite per stordirsi e sfracellato il capo cadendo, abbia rubato e sia stato incarcerato, o si sia ucciso; - il terrore del padrone che minaccia di far portare gli ultimi mobili nel cortile - c’eran famiglie che da un mese vivevano con quanto basta appena giornalmente per mantenere un cavallo; donne coi segni della morte certa sul viso; bambini lattanti che parevan morticini. Nella maggior parte delle soffitte non trovò gli uomini, e queste erano le meno tristi. Di quelli che vide, alcuni li trovò in uno stato di silenzio tetro e quasi ostile a lui, frementi all’atto dell’elemosina; altri, che già avevan perduto ogni fierezza, con un sorriso umile, e senza gratitudine esagerata, che facevan pena, appunto perché si capiva che non era nella loro natura, una servilità, un principio d’infezione della miseria; in quasi tutti, anche in quelli che una volta dovevano essere curanti della persona e d’una certa ambizione, la trascuranza del vestito e della pulizia, il brandello, la scucitura, la macchia, quell’invasione della cenciosità che somiglia a quella della putrefazione. Ne trovò di stanchi, disfatti dalle continue affannose corse in cerca di lavoro, altri che da due giorni non si movevan più da un angolo, preferendo quella immobilità disperata al dolore acuto delle ripulse, altri piangenti come bambini al ricevere il soccorso non sperato. Ah! come sentiva ora l’amara ironia di quella risposta data tante volte all’uomo robusto che tende la mano: - Va a lavorare! - e l’infamia della sentenza: - Non c’è miseria senza colpa! Come gli pareva ingiusta la severità contro gli operai briaconi, molti dei quali hanno in quelle tremende crisi contratto l’abitudine dei liquori forti! E come li scusava gente ridotta a quando a quando a quegli stati di non aprir la mente e l’animo alla speranza d’un mutamento sociale! Alcuni ne trovò, già socialisti accalorati, divenuti completamente indifferenti all’Idea, e scrollanti le spalle. Egli lo capiva bene. Alle loro immaginazioni tristi il socialismo indietreggiava in una lontananza favolosa, assumendo come la vanità d’un sogno, che irrideva ai loro patimenti. Mai egli avrebbe osato di dir loro una parola in proposito. E gli faceva dispetto e ira il Calotti, che approfittava della circostanza per far propaganda. Veramente la sua fede ottimista era qualche cosa di miracoloso. Tutti quei poveri diavoli sarebbero diventati socialisti, come diceva, "compatti", perché, diceva con frase letta "dal dolore nasce l’Idea". Ancora due o tre crisi come quella, e l’educazione sociale di quella classe sarebbe stata compiuta. E consigliava l’uno di andarsi a far "iscrivere nel partito dei lavoratori", spiegava all’altro come nello stato socialista quelle crisi non sarebbero più avvenute, essendo proporzionata, mediante le statistiche, la produzione al consumo, e triplicata l’uno e l’altra per effetto reciproco; - e trovava ancora il modo, benché sinceramente commosso a pietà e colle lacrime agli occhi, di osservare con amarezza che in tutte quelle soffitte non si vedesse un giornale della propaganda, non un libro socialista! - Egli l’avrebbe mortificato in presenza loro, tanto gli faceva dispetto; ma il suo cuore era troppo amareggiato di pietà per consentirglielo. Diede i danari, confortò, promise, segnò nomi nel taccuino; ma non eran due ore che girava, che era giunto agli ultimi soldi. Il Calotti gli propose di portarli a una famiglia in una casa di via Bertola, di cui il padrone aveva già fatto scaraventare i mobili nel cortile, a cui era morto un bambino di inanizione, e avevano il vecchio padre malato di tifo, steso su un po’ di paglia. Egli acconsentì, s’avviarono. Nel momento che metteva piede sotto il portone, egli vide una figura nera che gli diede una scossa. Era la Zara, che usciva.
Il suo primo impulso fu di fermarla, ma non osò. Si tolse il cappello - essa inchinò il capo - e passò.
Il Calotti, che l’aveva salutata con grande espansione, si arrestò nel cortile di botto, e indicandola con un gesto drammatico, disse con voce sinceramente commossa: - Quella è un angelo; vede, quella è una santa creatura! Mille donne così muterebbero il mondo. Quella scende già dalla famiglia di sopra, a cui ha dato i suoi ultimi soldi. Quella lì, vede, quest’oggi non mangia, com’è vero che c’è il sole!
Aberto non vide e non sentì più altro. - Io ho a parlarle -, disse al Calotti - Porti i denari lei - gli diede i denari, gli disse "a rivederci", e spinto da un impulso irresistibile di mille pensieri e affetti diversi, si mise dietro alla Zara.