< Primo maggio < Parte terza
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Era in uno di quei momenti quando gli fu annunziata la visita di Mario Barra. Sospettò subito che fosse mandato dal Rateri a tastarlo e ne fu vivamente turbato. Mentre quegli entrava, sua sorella scappò, ma non così presto da poter nascondere il viso, che le si era fatto di porpora; ciò che spiacque ad Alberto e accrebbe il suo malumore. Questo gli s’accrebbe ancora, parendogli che l’operaio, nel salutarlo, gli fissasse negli occhi uno sguardo più acuto del solito.

Ma l’accento cordiale delle sue prime parole, accompagnate dal buon sorriso delle altre volte, dissipò quasi il suo sospetto. Era contento, aveva trovato del lavoro, delle traduzioni dall’inglese da fare per un signore, di cose d’amministrazione, facili per lui. Ma non era venuto per dargli questa notizia; bensì per comunicargli una sua idea. Aveva esperimentato il danno della scarsità di buoni propagandisti fra gli operai. Anche i migliori ottenevano pochissimo effetto per mancanza d’abilità e di esperienza. Prima di tutto, non avevano un metodo costante e chiaro di esporre le loro idee: le buttavan fuori alla rinfusa, improvvisando, che era un errore, e tirando avanti, senz’accertarsi che fossero capite le premesse, mirando più a far colpo, che a persuadere, che era un altro errore anche più grosso. Poi, in generale, mancavan di tatto: urtavano quasi tutti i loro compagni volendo ottener troppo e subito, investendoli quasi, irritandosi delle contraddizioni, senza distinguere quelli che volevano esser presi dal lato del sentimento, da quelli che si dovevan prendere dal lato della ragione, senza veder prima chi fosse più o meno ben disposto, e via discorrendo: tutti imprudenti, insomma, tutti impreparati, tutti arruffoni. Gli era dunque venuta l’idea di fondare una scuola pratica di propaganda, in cui cinque o sei persone colte di Torino, anche di idee temperate, ma favorevoli, in massima, al partito, facessero a una cinquantina d’operai, scelti fra i più intelligenti, un corso elementare di economia politica, di storia e di socialismo. Ne aveva già parlato al Rateri, che gli aveva promesso di pensarci. Voleva anche sentire il giudizio suo. E lo fissò coi suoi occhi socchiusi di miope, e con un sorriso fine, che gli ridestò il sospetto.

Egli si trovò in una incertezza penosa. Doveva ingannare quel giovane, fingendo di non esser mutato? L’inganno gli ripugnava. Ma come dirgli la verità, come evitare, dicendogliela, una discussione che sarebbe riuscita oltremodo difficile a lui, e ingratissima a tutti e due? Imbarazzato, vergognato anche di quella mezza finzione, si restrinse a rispondere che non aveva nulla da opporre, che approvava l’idea.

- E lei accetterebbe di fare uno di questi corsi? - domandò il Barra.

La domanda gli riuscì più che molesta e lo confermò nel sospetto. Per pigliar tempo a rispondere, chiese dell’altre spiegazioni. E quegli le diede minutamente, con una chiarezza di idee e una correttezza di parole, in cui Alberto riconobbe un progresso che lo stupì, dall’ultima volta che l’aveva udito parlare. L’insegnamento doveva essere molto semplice; si sarebbero trovati degli allievi già preparati da qualche buona lettura, non si trattava che di mettere un po’ d’ordine nella loro testa, di esercitarli ad esprimersi con esattezza e a ribattere le obbiezioni con argomenti e dati precisi, che era il modo più sicuro di far breccia. Che gran bene potevano fare una cinquantina d’operai ammaestrati in quella maniera, ciascun dei quali sarebbe stato alla sua volta il maestro e l’anima d’un gruppo di giovani, e avrebbe fatto affluire alla scuola nuovi allievi, forse delle centinaia, in meno d’un anno! E mentre egli seguitava a parlare, Alberto sentiva invidia di quel bell’ardore di speranza e di proposito, che non era più in lui, e con l’invidia una più viva ripugnanza a prolungare l’inganno; e tutto assorto in questo sentimento, rimase muto, quando quegli finì, guardando per la finestra gli alberi della piazza, senza pensare che doveva dare una risposta.

Seguirono alcuni momenti di silenzio.

A un tratto, con un accento mutato, che gli fece voltare il viso vivamente, l’operaio gli domandò: - E quando pubblica il suo libro sul lavoro dei ragazzi?

Non c’era più dubbio: era stato mandato a scrutarlo. Quella visita d’inquisitore l’offese. Era troppo giovane, e non ancora abbastanza suo stretto amico da assumersi un tale ufficio con lui, che né col Barra stesso, insomma, né con altri, né in parole né in fatti, non s’era per anche impegnato a nulla in forma assoluta. E rispose asciutto: - L’ho lasciato, per ora.

Dicendo questo, guardò il giovane; il quale fissò lui con quegli occhi improvvisamente offuscati che cambiavano affatto la sua espressione abituale; e poi disse senza risentimento, ma con risolutezza: - Lei non è più con noi.

Alberto si scosse, e gli passò sul viso una fiamma. Era la prima volta che egli si sentiva in una condizione d’inferiorità davanti a una persona più giovane di lui e di classe sociale e di educazione inferiore alla sua: era un caso nuovo, che non aveva mai neppure immaginato, e che gli diede un sentimento d’umiliazione e di angustia inesprimibile. Fu tentato da capo di dire apertamente il vero, ma non poté. E dovendo pur rispondere qualchecosa - S’inganna! - disse; ma per quanto si sforzasse, non riuscì ad aggiungere una parola.

Il giovane lo guardò di nuovo, e poi scrollò il capo e lo abbassò, con un leggiero sorriso. L’istintiva e quasi invincibile diffidenza dell’operaio verso il signore gli era rinata nell’animo. Alberto non poteva rimanere più oltre in quello stato intollerabile di soggezione. Il suo orgoglio prese il disopra. Che cosa pretendeva da lui? Che cosa aspettava? E gli disse con accento d’impazienza: - Non è il caso di stupirsi se mi vede un po’ perplesso. Ogni fede ha le sue lotte. Non sono che le menti incolte e le coscienze rozze che non hanno mai né intoppi né dubbi. Il cervello di chi studia e ragiona è il laboratorio, non la prigione delle idee.

Il Barra sentì il colpo e Alberto si pentì d’averlo dato. E volle rimediarvi. Ma un senso l’avvertì che qualunque parola avesse detto non avrebbe che fatto peggio, che nulla di caldo, di sincero, di persuasivo non gli sarebbe venuto alle labbra. Una forza inesplicabile gli chiudeva il cuore e gli impacciava la lingua. Ma già sul viso chinato dell’operaio, all’espressione d’un risentimento istantaneo, era succeduto un sorriso quasi rivolto a lui stesso, il sorriso freddo e triste d’una delusione che nessuna parola gli avrebbe più potuto ritogliere.

- Basta -, disse alzandosi -, io le sono d’incomodo... La lascierò in libertà.

Alberto non poté lasciarlo andare in quel modo:

- D’incomodo, mai -, gli rispose - Sa che m’ha sempre fatto piacere a venire. Non deve pensare... Si hanno alle volte dei pensieri, dei turbamenti della coscienza, che non si possono né vincere né nascondere. Lei mi ha trovato in uno di questi momenti.

Ma il suo accento era forzato, l’occhio torbido, la bocca non sincera.

Il Barra lo vide e disse con un moto brusco di sincerità, rispondendo più al suo viso che alle sue parole: - È inutile. È vero quello che ha detto Bakounine, che chi non ha portato i cenci della miseria non sarà mai veramente con noi. Lei non è il primo che ci lascia dopo averci dato una speranza. Ci siamo abituati. È un dispiacere di più. Così impareremo a contar su noi soli.

Quelle parole andarono diritte al cuore d’Alberto, e vi destarono un improvviso e profondo rammarico della fede smarrita, e una pietà amara di se stesso, e una pietà affettuosa per quel giovane, di cui ricordò la lotta eroica con la miseria e gli studi sudati e i generosi entusiasmi, e fu per afferrargli le mani con lo slancio di un vecchio amico e aprirgli tutto il cuor suo con un torrente di parole. Ma una forza misteriosa e maledetta gli fermò le braccia e gli turò la bocca un’altra volta.

- Lei non mi comprende -, disse soltanto.

Il Barra rifece il suo sorriso triste, e un po’ ironico: - Sarà per mancanza d’istruzione -, rispose. E s’avviò verso l’uscio, accompagnato da uno sguardo che l’avrebbe arrestato, se si fosse incontrato col suo.

Ma quando fu sulla soglia, dopo un momento d’esitazione, si voltò, e con una espressione singolare di tristezza, come se facesse quell’atto non all’Alberto presente, ma a quell’altro in cui aveva confidato, gli porse la mano.

Alberto gliela strinse, e nel punto in cui i loro sguardi, cercando di sfuggirsi, s’incrociarono, capì per la prima volta che quel giovane l’aveva amato come un fratello. Un nuovo impulso lo mosse verso di lui, e un altro ancora, quando udì il suo passo giù per le scale; ma una mano diabolica lo arrestò un’altra volta.

E rimase così triste, avvilito e stanco di sé e della vita, che desiderò di morire.

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