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Egli tenne nascosto con gran cura il suo nuovo stato d’animo. Ma non poté fare che sua moglie, che osservava con inquietudine il suo mutamento con lei dopo l’ultimo diverbio con il suocero, non s’accorgesse di qualche cosa; poiché egli non faceva più neppure un’allusione all’argomento solito, aveva levato di sul tavolino il manoscritto del suo libro e tutti i libri socialisti, lasciava intatti qua e là i giornali del partito e non riceveva più visite d’operai. Di tutto questo ella non intuì la causa vera: pensò invece che non fosse altro che un modo di rinfacciarle col fatto la violenza ch’ella faceva alla sua libertà e la durezza del sacrifizio che costava a lui la pace domestica. Tutti gli altri, però, quando riseppero la cosa, le diedero l’interpretazione più ovvia: Alberto aveva riflettuto meglio e s’era ricreduto. Sua madre ne menò vanto come d’una vittoria propria, e anche il cavalier Bianchini, a dir la verità, ne sentì un grande sollievo: la fregola socialistica, che lo rendeva molesto da un po’ di tempo ai suoi vecchi amici del caffè Londra, gli cessò tutt’a un tratto. Ed era ben naturale. Che dopo aver sostenuto quella dottrina con tanto calore, e dopo averne fatto, com’egli credeva, uno studio così profondo, un uomo della levatura di Alberto l’avesse respinta, era una prova luminosa, irrefragabile che era una dottrina senza costrutto. E non osò di rallegrarsene con lui, vedendolo chiuso in una tristezza muta, ch’egli attribuiva alla vergogna d’esser caduto in errore; ma non si tenne in egual riserbo con gli amici di casa, ai quali diede allegramente la buona notizia. Il Luzzi non se ne stupì, e gli citò una frase di Dante: un uomo di buon senso non poteva per lungo tempo "trattar l’ombre come cosa salda": il socialismo non era che l’ombra che gettava la civiltà dietro se stessa. - E il Bianchini fece sua questa sentenza, che gli parve un lampo di genio. Il Cambiasi si rallegrò del fatto, dicendogli: - Tanto meglio... se è vero. Il socialismo è come una rosolia intellettuale che, più o meno forte, s’attacca a tutti gli uomini del nostro tempo, e dopo che è passata, si sta meglio. - E il Bianchini ripeté un po’ per tutto il paragone della rosolia. Il buon Moretti si vantò d’aver predisposto lui il bravo Alberto a quel savio ravvedimento, esponendogli l’idea di certe riforme, le sole atte a rifare la società, sulle quali, certissimamente, egli doveva aver meditato; e aveva da comunicargliene dell’altre, una serie di piccole riforme, da attuarsi una per giorno, di lievissima importanza apparente, ma tutte concatenate fra loro, e d’un effetto lento, ma certo; - Perché, - disse, - il corpo sociale non si può guarire che con la cura omeopatica. Si ricordò di dirglielo: - La cura omeopatica! - E il Bianchini s’appropriò questo concetto, che gli piacque infinitamente. No, il suo figliuolo, non aveva rinunziato all’idea d’un grande miglioramento sociale; soltanto, aveva pensato meglio, e s’era dichiarato per la cura omeopatica. Anche il dottor Geri si mostrò soddisfatto della notizia, e gli disse: - Finirà a venire con noi, a inchinarsi al solo uomo che abbia proposto il solo rimedio possibile! E capirà che non c’è nulla di più funesto che far sperare un prossimo benessere al popolo, perché ne abusa subito per moltiplicarsi bestialmente e accrescere la sua miseria. - E s’era già scostato, quando tornò indietro per soggiungere: - Gli citi questo fatto, che dice tutto: che non solo in Francia, ma nell’Inghilterra, e anche nel Belgio, nel 1848, ci fu uno straordinario aumento di concepimenti per solo effetto dell’aspettazione d’un miglioramento economico, destata nelle classi inferiori dalla rivoluzione di quell’anno. Veda che animali! Gli dica questo e nient’altro. - Tutto contento, infine, il buon Bianchini diede la grande nuova al suocero; ma, con suo stupore e rammarico, non gli vide spianar la fronte. Egli non ci credeva.
Alberto, frattanto, mentre manteneva, ma rallentata, la relazione con la signora Luzzi, cercò di distrarsi dai suoi pensieri ripigliando le antiche abitudini, e per prima cosa ritornò fra i suoi amici. Ma riconobbe a molti segni che, in qualche modo ch’ei non sapeva spiegarsi, essi avevano avuto notizia o sentore del suo mutamento; gli amici del Nuovo Circolo in specie; ai quali il Geri figlio aveva spiattellato le confidenze fattegli dal vecchio Bianchini, con accompagnatura di commenti feroci. Nessuno di loro fece allusione alla cosa, per la stessa ragione per cui non si parla ad un pazzo guarito della sua uscita dal manicomio; ma nella accoglienza che quasi tutti gli fecero, esageratamente festosa, egli sentì un intento di congratulazione così tra seria e faceta, che urtò la sua dignità e lo allontanò un’altra volta da loro. No, i legami delle antiche amicizie non si potevano più riannodare, egli doveva ridursi a vivere da sé, tutto raccolto nei suoi studi letterari, relegato in una specie di esilio volontario, non chiedendo più nulla alla società che l’aveva preso in diffidenza, fin che tutti non avessero dimenticato quel periodo della sua vita, indimenticabile per lui. E fermato questo proposito, si ricacciò a capo fitto nelle sue letture predilette d’un giorno... Ma, ahimè! Trovò anche qui un disinganno, poiché il suo nuovo ideale, cadendo, aveva rovesciato l’antico. Dopo quella grande aspirazione che gli era passata nell’anima, la semplice letteratura gli parve arida e fredda, l’arte per l’arte una cosa vuota e puerile, un gioco d’immaginazione e di parole, indegno d’un uomo. Anche nei libri che gli eran parsi altre volte più schiettamente popolari, egli sentì un certo disprezzo larvato, e quasi incosciente, del popolo; delle note false, che tradivano l’amor proprio dell’autore offeso dalla ignoranza e dall’indifferenza della grande moltitudine per gli scrittori, e la coscienza di non dire ad essa tutta la verità. Sì, aveva ragione Leone Clavel dicendo che anche quelli che mostravan più affetto per le classi inferiori, non avevan visto in queste che un terreno propizio per seminarvi i fiori del loro cervello, un campo di miserie e di dolori da sfruttare con la penna. Persino le pagine più eloquenti di Vittor Hugo, che aveva tanto amato, lo irritavano: egli vi sentiva l’uomo che parla al popolo come all’infanzia, facendosi piccolo e dolce, con la bonarietà voluta del ricco che s’intrattiene col povero. Tutti gli parevan fuori della grande e formidabile realtà, reticenti interessati o paurosi davanti alle conclusioni necessarie delle loro premesse, inceppati da idee e da sentimenti ereditati e non discussi, segnati tutti d’una comune impronta di famiglia, fabbricanti d’oggetti di lusso per una classe sola. Anche dopo svampata la fede, il sentimento della grandezza terribile della quistione sociale gli era rimasto, e questo gli rendeva intollerabile la manifestazione meditata e pomposa delle minuscole commozioni, dei ritagli di pensiero, di tutti i sogni e i capricci più futili della fantasia, di cui tanti libri ammirati eran pieni. Li sfogliava e li chiudeva con un senso d’ira e di nausea, ricordando l’invettiva del Proudhon ai poeti della luna e della rosa: - Vili parassiti! Io dovrei vivere in eterno perché potesse corrisponder la durata alla profondità del disprezzo che sento per voi! - Quant’era vero che quattro quinti della produzione letteraria si sarebbero potuti spazzar dal mercato senza che la società ne risentisse ombra di danno! E anche lui, lui più d’ogni altro, aveva scritto per la scopa. E con quest’ultimo pensiero, dopo alcuni giorni di letture svogliate e interrotte, lasciò la letteratura in un canto, risoluto a non pensare più a nulla.
Ma una cosa lo turbò. Un giornale della città, fra letterario e mondano, in un articoletto brillante intorno alle pubblicazioni imminenti, dopo aver ricordato quella del Bianchini col titolo L’infanzia sfruttata, accennò, con parole molto argute, allo sbollimento del suo entusiasmo, dandogli in fondo una lezione amorevole; avvertendolo, cioè, che "la verità, quando si rivela, sorge nello spirito lenta, come una dolce luce intima, che si rispande poi gradualmente e prudentemente di fuori: diffidino coloro che essa colpisce tutto a un tratto come un fulmine: in questo caso è il bagliore d’una meteora, non la luce del vero". E terminava facendo comprendere con uno scherzo: L’infanzia sfruttata e rientrata, che il libro non sarebbe stato più pubblicato. Di questa stoccata che doveva venire indirettamente da qualche amico del Circolo, se pure non dal Geri medesimo, egli s’inquietò, non tanto per risentimento d’orgoglio, quanto per il timore che potesse attirar l’attenzione del Rateri e di Maria Zara, che gli stavan nella mente come dei giudici terribili, a cui prima o poi non avrebbe potuto sfuggire. E non si rassicurò che quando non vide nessun cenno nella Quistione sociale della settimana appresso, che egli aperse con le mani agitate. Confidando che l’articolo fosse passato inavvertito, non ci pensò più, e si sforzò di rimettere il suo spirito in uno stato di vago assopimento.
Ma non poté. Una persona, ch’egli vedeva ogni giorno, ridestava continuamente la sua coscienza, e gli dava pena: sua sorella, che cercava il suo sguardo con una espressione interrogativa, amorevole e grave ad un punto. Egli s’era ben accorto da un po’ di tempo che dalla sua biblioteca socialistica spariva ora un libro ora un altro, e che ella li doveva leggere di nascosto per fare un po’ di luce nel movimento confuso di idee e d’affetti nuovi suscitato da lui nella sua anima solitaria e disconosciuta. E aveva saputo da suo padre d’un dolore sofferto da lei per sua cagione: una derisione crudele della mamma, la quale, trovatole in mano un discorso di Annie Besant intorno alla donna e al socialismo, le aveva dato una risata in viso, e detto bruscamente, in presenza della nuora, strappandole il libro: - Non ti manca più altro per renderti ridicola! -, parole che le erano entrate in cuore come una pugnalata. Egli era turbato da un rimorso, come se l’avesse scientemente ingannata. E, infatti, le aveva dato la sveglia al cuore e alla mente, e fatto sperare una dolce corrispondenza d’affetto e di pensiero con lui, che le avrebbe rialzato la dignità e abbellito la vita; e poi l’aveva lasciata sola, e più oppressa di prima. Certo, ella era ancora, e per la coscienza della sua inferiorità e per antica abitudine, così timida al suo cospetto, che non avrebbe mai osato, non che di fargli un rimprovero, neppure di interrogarlo riguardo al suo cambiamento: le avrebbe bruciato le guance il rossore. Ma come traspariva bene questo rimprovero nei suoi occhi umili e affettuosi, e nel silenzio triste, e nella carezza leggera, che con dolcezza quasi più d’amante che di sorella faceva ai suoi capelli biondi, passandogli accanto, quando era seduto davanti al suo tavolino sgombro di ogni libro e d’ogni carta! Oh, se avesse avuto ancora l’animo di prima, con che piacere egli l’avrebbe fatta discorrere, per scoprire in che forme e con che colori si svolgesse la nuova idea nello spirito d’una ragazza della sua età e del suo stato, e che nuove sorgenti vi schiudesse di sentimento e di pensiero! Ma egli non poteva più farlo se non ripetendo un inganno di cui s’era pentito, ed essa lo capiva, e pareva che cercasse di rimutarlo col linguaggio muto del viso. - Ma è possibile -, gli diceva senz’aprir bocca - che tu t’ingannassi quando dicevi quelle cose belle e generose che mi facevano battere il cuore? Hai proprio riconosciuto che era un sogno quella santa idea della redenzione del lavoro, della rigenerazione delle moltitudini, della inaugurazione della giustizia e della pace nel mondo? Debbo non pensarci più neppur io e tornarmi a rinchiudere nella mia vita umiliata ed inutile di ragazza senz’amore e senza avvenire? - E quando le leggeva sul volto queste parole, preso da una tenerezza improvvisa, egli era sul punto di afferrarle il capo con tutt’e due le mani e di coprirle la fronte di baci, come quel giorno. Ma non poteva farlo senza aprirle l’animo proprio, e questo gli era impossibile: lo tratteneva un senso invincibile di vergogna. Soltanto, quando riceveva una carezza, gliela rendeva, senza fissare gli occhi nei suoi, col fare impacciato d’un colpevole.