< Profugiorum ab ærumna
Questo testo è completo.
Libro II




LIBRO III


Ne’ duo libri di sopra investigammo vari e utili rimedi a non ricevere a sé perturbazione alcuna; e vedesti non pochissimi particulari e succinti rimedi atti a sedare e’ sinistri movimenti dell’animo, quando forse insurgessono in noi o da nostro errore, o da vizio altrui, o dalla condizione de’ tempi e volubilità della fortuna e durezza de’ casi nostri. Restavano ora certi ammonimenti generali accommodati ad espurgare qualunque fusse in noi insita e obdurata grave maninconia, — materia certo utile e degna, qual vederai disputata in questo terzo libro dal nostro Agnolo e dal nostro Niccola, uomini civilissimi e peritissimi, non forse con quanta dignità si converrebbe alla autorità e prestanza loro, però che in me, confesso, non è tanta eloquenza né tanto ingegno ch’io possa imitare la gravità e maturità d’Agnolo Pandolfini in miei scritti e sentenze, e affermo non potrei esprimere la suttilità d’ingegno e prestezza d’intelletto quale io conosco essere in Niccola. Né mi sento essercitato in modo ch’io possa coniungere e conchiudere con arte e ordine tanta esquisita dottrina e maravigliosa erudizione qual ciascuno de’ nostri cittadini sente e già più tempo conobbe essere in ciascuno di que’ due. Ma saranno e’ documenti raccolti e referiti da costoro per sé sì approbatissimi che non dubito ti diletterà riconoscerli presso di noi, qualunque sia in me eloquenza e adattezza a dire. E udirai da questi due uomini dottissimi cose degne, grate e utilissime. Leggimi, come sino a qui facesti, con avidità e attenzione, e proponti quasi essere quarto fra noi a questi ragionamenti del nostro Agnolo, omo integrissimo e prudentissimo, quale alle disputazioni prossime di sopra, usciti che noi fummo di chiesa e iti due e due altri passi, si fermò, e prese a mano di qua e di qua Niccola e me, e commovendo qualche poco el capo disse: — Io mi credea avervi assoluta e prefinita questa impresa, e stimava restasse nulla altro in questa causa che l’ultimo epilogo e breve enumerazione delle cose recitate da noi. Ma ora m’avveggo in più modi del mio errore, e vorrei non aver cominciato quello ch’io non seppi con ordine e via conducere sino a qui. Né qui so dirizzarmi a tradurlo dove io da lungi scorgo bisognerebbe tragettarlo. Dissi cose assai, e forse non inutili; ma e’ mi intervenne come a chi truovò nella vigna quasi el cucuzzolo d’un gran sasso, e parsegli da scoprirlo, ma poi si pentì del sudore e tempo perdutovi sino a qui, ove e’ lo scorge maggiore e men da poterlo muovere e transportarlo che e’ non si fidava.

Così disse Agnolo, e poi di nuovo tacendo oltre s’avviò passeggiando. Adunque Niccola, uomo acutissimo, verso me ritenne el passo e disse: — Concederemo noi, Battista, qui ad Agnolo quel che e’ dice che ’l suo disputare sino a qui sia stato senza ordine? E tanta copia di varie, degnissime e rarissime cose accolte da lui, diremole noi non esposte in luogo e porte e assettate dove bello si condicea e convenia? Molti appresso de’ nostri maggiori Latini e ancor molti presso de’ Greci, Agnolo, scrissero simile parte e luoghi di filosofia. Non però vidi in tanta frequenza alcuno di loro più che voi composto e assettato. E notai in ogni vostra argumentazione e progresso del disputare esservi una incredibile brevità, iunta con una maravigliosa copia e pienezza di gravissimi e accommodatissimi detti e sentenze. E quello che a me pare da pregiare in chi scrive o come voi qui disputa e ragiona di queste dottrine dovute a virtù e atte a viver bene e beato, Agnolo, si è quello che in prima in voi mi parse bellissimo. Non so se fu Cipreste, del quale Vitruvio scrive tanta lode, o se fu altro architetto inventore di questo pingere e figurare, come oggi fanno, el pavimento. Ma costui qualunque e’ fu trovatore di cosa sì vezzosa, forse fu a quel tempio ornatissimo di ⟨Efeso⟩, quale tutta l’Asia construsse in anni non meno che settecento; e vide costui a tanto edificio coacervati e accresciuti e’ suoi parieti con squarci grandissimi di monti marmorei, e videvi di qua e di là colonne altissime; e videvi sopra imposti e’ travamenti e la copertura fatta di bronzo e inaurata; e vide che dentro e fuori erano e’ gran tavolati di porfiro e diaspro a suoi luoghi distinti e applicati, e ogni cosa gli si porgea splendido; e miravavi ogni sua parte collustrata e piena di maraviglie: solo el spazzo stava sotto e’ piedi nudo e negletto. Adunque, e per coadornare e per variare el pavimento dagli altri affacciati del tempio, tolse que’ minuti rottami rimasi da’ marmi, porfidi e diaspri di tutta la struttura, e coattatogli insieme, secondo e’ loro colori e quadre compose quella e quell’altra pittura, vestendone e onestandone tutto el pavimento. Qual opera fu grata e iocunda nulla meno che quelle maggiori al resto dello edificio. Così avviene presso de’ litterati. Gl’ingegni d’Asia e massime e’ Greci, in più anni, tutti insieme furono inventori di tutte l’arte e discipline; e construssero uno quasi tempio e domicilio in suoi scritti a Pallade e a quella Pronea, dea de’ filosofi stoici, ed estesero e’ pareti colla investigazione del vero e del falso: statuironvi le colonne col discernere e annotare gli effetti e forze della natura, apposervi el tetto quale difendesse tanta opera dalle tempeste avverse; e questa fu la perizia di fuggire el male, e appetire e conseguire el bene, e odiare el vizio, chiedere e amare la virtù. Ma che interviene? Proprio el contrario da quel di sopra. Colui accolse e’ minuti rimasugli, e composene el pavimento. Noi vero, dove io come colui e come quell’altro volli ornare un mio picciolo e privato diversorio tolsi da quel pubblico e nobilissimo edificio quel che mi parse accommodato a’ miei disegni, e divisilo in più particelle distribuendole ove a me parse. E quinci nacque come e’ dicono: Nihil dictum quin prius dictum. E veggonsi queste cose litterarie usurpate da tanti, e in tanti loro scritti adoperate e disseminate, che oggi a chi voglia ragionarne resta altro nulla che solo el raccogliere e assortirle e poi accoppiarle insieme con qualche varietà dagli altri e adattezza dell’opera sua, quasi come suo instituto sia imitare in questo chi altrove fece el pavimento. Qual cose, dove io le veggo aggiunte insieme in modo che le convengano con suoi colori a certa prescritta e designata forma e pittura, e dove io veggo fra loro niuna grave fissura, niuna deforme vacuità, mi diletta, e iudico nulla più doversi desiderare. Ma chi sarà sì fastidioso che non approvi e lodi costui, quale in sì compositissima opera pose sua industria e diligenza? E noi, Agnolo, che vediamo raccolto da voi ciò che presso di tutti gli altri scrittori era disseminato e trito, e sentiamo tante cose tante varie poste in uno e coattate e insite e ammarginate insieme, tutte corrispondere a un tuono, tutte aguagliarsi a un piano, tutte estendersi a una linea, tutte conformarsi a un disegno, non solo più nulla qui desideriamo, né solo ve ne approviamo e lodiamo, ma e molto ve ne abbiamo grazia e merito. Aggiugni che non tanto el tessere e connodare in un sieme vari detti e grave sentenze appresso di voi fu cosa rara e maraviglia, ma fu e in prima quasi divino el concetto e descrizione di tutta la causa agitata da voi, qual compreendesti faccenda da niuno de’ buoni antiqui prima attinta, e mostrasti in che modo si propulsino e in che modo si escludano le maninconie. E confessovi in ogni vostro successo del ragionare troppo mi dilettasti e tenestimi di cosa in cosa continuo sospeso e attentissimo, e ogni vostro detto molto mi si persuase. E ricordommi di quello che e’ referiscono di Alessandro Macedone, quale essendogli presentato un forzerino bellissimo lavorato, non sapea che imporvi cosa preziosissima e condegna d’allogarla in sì maravigliosa cassetta. Pertanto comandò vi riponessero e serbassono entro e’ libri di Omero, quali certo, non nego, sono specchio verissimo della vita umana.

Ma che volle Omero fingendo sì inaudita e ostinata pazienza in quel suo Ulisses? Se la pazienza è quella quale rende noi simili a chi nulla curi le offese, non sarà e’ più lode al tutto nulla curarle e lasciarne altrui non solo el giudicio e determinazione, ma e ancora la fatica di punire e punendo render migliore chi teco mal visse? E se la pazienza sarà in noi quale fu in Ulisses in dissimulare di sentire quello che lo accuori, non io sono colui che tanto appruovi e preferisca questo instituto di vendicarsi in vita ch’io, per valermi di una onta, sostenga più e più strazi di me e di mia dignità. Né seppi mai meco sì adattarmi a non curare e sopportare la temerità e protervia altrui, che a me non paresse in quel tanto essere omo servile e da biasimarmi. Questi la lodano e prepongonla alle prime virtù, e dicono che la pazienza col starsi cortese vince le squadre delle Furie armate. Se egli è vittoria el ricevere assidui fastidi e trovarsi oppresso da gravissime e intollerabili molestie, essi dicono el vero. Io veggo e provo questo in me tutto el dì, che ’l mio essere sofferente a me frutta non altro che solo iniurie. El soffrire apre via e alletta la insolenza altrui esserti noioso: el soffrire d’ora in ora t’adduce e oppone nuove traverse e dure offese: el soffrire mai non fu utile se non quanto el mostrarsi e libero e uomo era periculoso. E quanto e’ sia insuave, molesto, difficile e tedioso el sopportare la stultizia altrui, altrove sarà da disputarne. Ma giovi, quando che sia, fra ’l vivere e conversare della moltitudine questo dissimulare di nostre voluntà e questo negligere noi stessi e trascurare ogni nostra dignità, qual cosa voi chiamate pazienza. Dite, qual virtù sarà quella che noi sollievi oppressi da e’ nostri casi avversi e dalle ruine de’ nostri tempi? Diranno que’ savi: non curare e’ tuoi dolori. Facile precetto a dirlo, facile a dirlo. Ma colui el quale perdette e’ noti a sé, domestici, coniunti, amici, e perdette l’altre sue commodità e onestamenti, e perdette sue fortune domestiche, amplitudine, autorità publica e luogo di dignità, e ora si truova in solitudine, assediato da ogni necessità, abietto, destituto, e forse malfermo e poco intero in suoi nervi e membra, come aiterà e soverrà a sé stessi? Voi forse a costui adducerete que’ detti vulgatissimi e notissimi: non ti dispiaccia la cecità tua, non ti aggravi la surdità. Quando molte cose testé non vedi e non odi quali soleano adolorarti, assai vedi quando tu discerni le buone cose dalle non buone, le degne dalle non degne, e assai odi quando tu odi te stessi in quelle cose che faccino a virtù e laude. E bene hassi la notte in sé ancora e’ suoi diletti. Le fortune, el nome, lo stato, la felicità del vivere, direte che siano cose caduce e fragili. Ed elle pur sono quelle per quali tutti e’ mortali contendono col ferro e col fuoco, e per quali espongono suo sudore e sangue e vita; e voi vorrete ch’io non le curi né desideri? E pure mi duole, Agnolo, e duolmi non le avere. E bench’io mi disponga coll’animo e al tutto m’affermi a non curare e non desiderare quello che a me sia vetato e perduto, pur quando spesso ora vedo e’ luoghi e cose, quando odo e sento questo e quest’altro, quando nel mio pensare trascorro di cosa in cosa, allora, come non solo dicea Dido presso a Virgilio: agnosco veteris vestigia flammae, ma e in prima mi si rinnuovano mie triste memorie e raccendonmisi insieme e’ miei dispiaceri oltramodo; e dico anche io:

dulces exuviae, dum fata deusque sinebant;

e viemmi lacrimato prima ch’io m’avegga del mio o volete errore o volete dolore. Diresti: e perché piagni? Rispondere’ti come rispose Solone filosofo: piango perché sento che ’l pianger nulla giova al mio dolore. Ma in questo chi mi ripreendesse? Noi vediamo natural desiderio fino alle fere silvestre intorno a’ nidi e presso a’ covili suoi dar segni manifesti de’ loro incommodi. E prudentissimo fu quel detto del figliuolo di Nestorre presso del nostro Omero: io non lodo el piangere. E piangere nulla e’ morti suoi mi par biasimo, quando questo solo onore si debba a’ miseri mortali usciti di vita. Vedi che Priamo, re prudentissimo, alle essequie del suo Ettor, fortissimo figliuolo, comandò si celebrassero e’ pianti interi nove dì, poi el decimo dì si sepellisse e facessonsi le essequie, e l’undecimo dì ordinò se gli construisse el sepolcro onoratissimo. Ed ebbe in queste funerali cerimonie chi con modi e canti e versi piangiosi eccitava mestizia e sospiri a chi udiva e vedea. Simile lodano Marco Fabio che, perduto el fratello, recusò la grillanda, insigne publico onoratissimo. Ma che raccontiamo noi essempli de’ principi mortali, o donde meglio compreenderemo quel che in questo s’appruovi presso de’ dotti e famosissimi scrittori, quando la Dea degl’iddii, presso a Omero, prese el velo nero nel suo merore e cordoglio?

Agnolo. Or così fa, Niccola; tu omo qual sopra gli altri sempre fusti in ogni tuo vita sempre pazientissimo, segui meco argumentando e dissuadendo la pazienza. S’io volessi mostrarti quanto el sapere, come e’ dicono, vorare la inezia del volgo e piegarsi alle temerità de’ venti e aure populare sempre fu cosa commodissima, e s’io volessi esplicarti quanto l’essere non subito, non precipitoso, non aventato in suoi movimenti d’animo e volontà, sia cosa necessaria in vita, atta a virtù, conveniente a bene e beato traducere ogni suo età piena d’officio, piena di frutto, piena di merito, nulla difficile, nulla iniocunda, nulla disconveniente a chi sia ben confirmato con ragione e bene instituito ad onestà, e dato ad acquistar lode e buona grazia fra i mortali e posterità, non mi basterebbe el dì; tanta copia d’ottimi argumenti mi si inondarebbe e suppeditarebbe. Forse altrove a tuo posta ne disputaremo. Per ora, quanto accade al nostro proposito, a me nulla dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de’ tempi tuoi. Che dici tu? E’ mi dolgono le offese. Io desidero le cose pregiate. Che adunque? E che faremo? Al primo impeto ne scopriremo e ostaremo armati. Guarda, Niccola, quanto sia utile questo consiglio. Dirai: e a te, Agnolo, che ti pare? Vedi quanto io mi ti dia facile e largo. Non vorrei essere udito da questi miei filosofi. Dico, Niccola, e tu, Battista, della sofferenza si vuole avere o nulla o troppo. Nell’altre cose giovi usare mediocrità. In questa, dove tu non puoi presentarti e averti libero, ubbidisci a chi più può. Ad Euripide poeta parea la inobbidienza della moltitudine più che ’l fuoco valida, e più atta a destruere e consumare le cose. E dicono che la moltitudine sempre fu insuperabile. Omero dicea che ’l male sempre vince; ma quanto e dove e a chi bisogni cedere t’insegnerà la necessità. E iudica necessario el cedere sempre dove tu cedendo non peggiori tuo stato; e quello che per ora si può mutare se non in peggio, iudicalo ottimo. Nel resto ti concedo che dove a te sia lecito, mostrati uomo non al tutto sanza stomaco. Spegni, attuta l’arroganza di qualunque te incende ad ira. E così adunque a me non dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de’ tempi tuoi in ogni tua impresa e faccenda. Né ti distolgo da’ tuoi sensi e proclività umane; né ti interdico che a te non dolga perdere e non avere tuo care cose e amate. Ben ti rammento non perseveri col dolerti, né pur seguiti essere e a te grave e a’ tuoi bisogni inutile e sinistro, e che desideri e che chiedi quel che e’ mortali pregiano e prepongono, e per quale s’espone el sudore, el sangue, la vita. Questo, s’egli è possibile acquistarlo e recuperarlo col dolerti e col piangere, come molti fanno, segui; vivi in assiduo e profondissimo dolore tanto che tu a te satisfaccia e asseguisca e’ tuoi desideri ed espettazione. Fa come fece quel M. Livio, uomo onoratissimo in Roma, quale sperava e a sé stessi promettea el consolato, ma poi repudiato dal populo e caduto dalle sue espettazioni in quella petizione del consolato se lo reputò ad ignominia, e per questo si commise in solitudine, e fuggì piazza, teatri e templi, e fuggì ciascuno luogo pubblico e celebre, e fuggì la patria, e visse anni otto in villa vita cordogliosa e squallida. E se tu pur vedi che ’l tuo lagnarti, e questo tuo condolerti entro a te e questo tuo vivere in tristezza e merore nulla t’apporti d’alcuna di tante cose qual tu vorresti, che stultizia sarà la tua non abdicare da te quel che ti strazia e atterra? Nulla si truova grave e molesto a’ nostri animi quanto l’attristarsi dell’altre perturbazioni. La libidine ha in sé un certo ardore, la immodesta letizia ha in sé una inetta levità, la paura ha in sé non so che diffidarsi e troppo umiliarsi. Ma questa egritudine d’animo qual chiamano tristezza, questo dolersi e vivere tedioso a se stessi, ha in sé maggior mali insiti e infissi. Dicea Omero che la miseria presto c’invecchia. E tu così vedi e’ cordogliosi deformati, languidi e fedissimi contorcersi ne’ loro intimi crucciati, e simile a un trave annoso e corroso da tarli putrirsi e insordidirsi. Adunque e che insania fie la tua pur nutrire in te quel che ti seduce e distiene da ogni tua speme ed espettazione? Che pur segui tu ove nulla giova e molto nuoce el condolerti e attristirti? Non senti tu che questo tuo involgerti e sospignerti col pensiere in questa ortica di tuo triste e ingrate memorie ti rende inabile a discernere e distinguere quel che al bene a te s’acconfaccia in vita, e rendeti inutile ad escogitare e preordinare le cose buone e opportune e abili per evitare e propulsare e’ pericoli e difficoltà quale tuttora incorsano e da molte parti noi urtano in vita. Se a te dolgono e’ tuoi incommodi, tu a te stesso in questo ne dai cagione quale dolendoti male curi e’ fatti tuoi. Se a te dolgono le tue voluttà perdute, riconosciti omai in colpa, ove tu non fughi da te ogni tristezza, e te dai ad altri nuovi diletti e amenità e piaceri. S’e’ tuoi onestamenti e gradi perduti ti perturbano, tu in questo rimanti di sinestrar te stessi ove dimostri non esserti per tua prudenza persuaso già più tempo che tu eri non dissimile dagli altri mortali, e sentivi e riconoscevi te subietto ed esposto a’ casi vari e volubilità della fortuna. E che giustizia fie la tua se tu pure obdurerai recusando in te alcuna delle condizioni dovute a chi vive? E che officio di prudenza sarà la tua non riconoscerti uomo? E che modestia sarà la tua non por, quando che sia, fine e termine alle tue querele? E che lode d’animo grande e fermo sarà la tua, se tu nato a imperare e regger gli altri, non saprai moderare te stessi? E se in cose alcune bisogna moderazione e ragione e virtù, certo bisogna contro al dolore. Oreste per dolore divenne furioso. Cleobolo filofoso, estinto da sue grave maninconie, uscì di vita. Eccuba fingono che per acerbissimi morsi de’ suoi dolori diventò cane e arrabbiò. Niobe fingono che addolatara si convertì in sasso. Adunque se pel dolore si diventa e furioso uomo e arrabbiata bestia e insensato sasso, qual sarà che non curi con ogni sua opera e forza lunge propulsare da sé questo dolersi? Ma tu, Niccola, in ogni mia argumentazione vedi tu come io a te nulla vieto che tu non sia in tue opinioni e volontà uomo sì, ma proibisco non diventi efferato e immanissimo. E tu pur quivi t’affolti, e come la coturnice rinchiusa nella gabbia pur vorrebbe uscire per quel poco che a lei pare non bene intero, tu così quinci forse vorresti uscire in maggior disputazione ed estenderti in più lati campi d’argumentare contro a’ detti miei. Oh! egli è cosa molesta e veemente el dolore, e vince: egli è cosa difficile e dura el non sentire e non cedere a’ mali suoi. Eschilo poeta tragico, quando egli adduce uno e uno altro degli dii venuti a consolare Prometeo relegato e alligato a quel sasso al Caucaso, non diceano: O Prometeo, non curare e’ tuoi mali e non gli sentire; ma diceano: Quello che a te è imposto dal summo Iove, quello che tu non puoi recusare, quello che a te è necessità soffrire, soffrilo con quanto men puoi agitare e infuriare te stessi. E Prometeo pur si lagnava con parole immoderate, e dicea: Io pur feci ch’e’ mortali mai più morranno. Io imposi loro molta speranza e molto cieca; e insieme aggiunsi quel vivo e celeste ardore. E qui l’Occeano, massimo degli dii, li rispondea: «Tu, o Prometeo, lascia questo tuo fasto ed elazione antiqua. Usurpa testé nuovi costumi quando el cielo serve a nuovi tiranni, e al tutto modera a questa tua lingua e procacità. L’ira di chi può tanto in te quanto tu pruovi, si sederà colla tua summissione molto più che coll’alterezza. L’ira che ti incuoce si spegne e medica colle umili parole; e gioveratti non raro parere men savi e men dotti che noi non siamo. Della Necessità sono ministri e’ Fati triformi e le mai dimentiche Erine».

Così dicea l’Occeano a Prometeo. E appresso di Euripide, pur greco poeta e tragico, dicea Ulisses ad Eccuba quando e’ gli nunziava che l’essercito de’ Greci constituiva per utile e salute del nome di Grecia sacrificare agl’iddii la sua figliuola: «Pensa tu, o Eccuba, ora non più lungi a’ tuoi mali, e dà senza contumacia quello che tu non puoi denegare a’ casi tuoi». Sempre fu opera di savio usare senno ancora in le cose non buone. E noi che faremo in le nostre avversità? Nulla udiremo questi ottimi ammonimenti degnissimi di mandarli e osservàlli a perpetua memoria? Anzi, come el puledro, pur ne combatteremo e straccheremo subagitando e resteggiando qua e qua, obdurati in nostra contumacia contro a chi ne osserva a regge? E non ci mitigheremo né sosterremo chi ci contiene legati e frena? Indi e come reputeremo noi, disposti a nulla desiderare quello che fia irrecuperabile, costui a cui da ogni minima favilla di sue già estinte memorie si raccendono maggiori cure al petto, né s’avvegga del suo errore altronde che dalle sue proprie lacrime? E che piangi, uomo effemminato? Perdetti; non ho; vorrei. E’ fanciugli vezzosi imparano piangere dalla troppa indulgenza della mamma, e quando e’ non impetrano da lei quello ch’essi chieggono, allora giova el piangere per satisfarsi. E noi in questo siamo e più leziosi e con men senno ch’e’ fanciugli, dove pur perseveriamo contorcendoci e singhiozzando in nostri convenevoli e piagnisteri, e vediamo e conosciamo che nulla giova. Quando a casa di Febe convenirono molti dii per confortarlo nel caso di Fetonte suo figliuolo, piacque a Febo convitarli, e apparecchiò loro secondo el costume antiquo quello epulo e lettisternio consueti. Erano infra que’ divi el Pianto e ancora el Riso, fratelli gemini e nati in un solo parto, figliuoli nati della dea Mollizie e di quello Fauno quale e’ chiamano Stolidasperum. Pirteo, ordinatore dello apparecchio, procedeva disponendo a’ convivati loro luoghi e seggi. Quando e’ divenne a questi duoi fratelli, e’ si fermò, ché non potea non maravigliarsi mirando quanto e’ fussero in ogni loro effigie e liniamenti troppo simili; né appena discerneva indizio alcuno per quale e’ riconoscessi l’un dall’altro, che stavano ambedue simili colla faccia straformata dagli altri dii. Vedevigli colla bocca di qua e di qua inversata, collo ciglio contratto e innodato, con gli occhi lucciolosi e rappresi, colle mani e petto e umeri implicati e discommessi. Solo una differenza vi s’aggiugneva: questo è che l’uno di loro ti si porgea tutto bavoso e tutto muccilutoso; l’altro era non in tutto quanto costui a vederlo sozzo e iniocundo. Miravagli Pirteo e dicea: «Non saprei chi mandarmi di voi inanzi a sedere; ma qualunque di voi si move prima, l’altro lo seguiti». E questi due stavano pur quasi stupidi, né cosa favellavano, ma rompevano in voce e gesti inettissimi e disonestissimi. Pirteo, vedendogli così osceni e transformati, si maravigliò che ’nfra ’l numero degli dii ottimi e massimi fussero due sì osceni e iniocundissimi monstri. E nel maravigliarsi, quando esso guardava fiso costui, gl’intervenia che fingeva per maraviglia in sé viso simile a chi e’ pendea col guardo e colla mente. E quanto summirava quest’altro, simile imitava quest’altro. Gli dii chi surrise della inezia loro, chi forse si condolse di tanta loro disadattaggine, ed esclusongli dicendo: «Né tu hai viso da onorare un simile convito, né tu hai faccia da consolare e’ calamitosi». E certo pur sì, chi vedesse se stessi quando e’ piange, o befferebbe tanta svenevolezza o dorrebbegli tanta sua bruttezza. Dirai: e chi può tenere le lacrime nei suoi mali? Natural desiderio. Vedi sino alle bestie pe’ boschi e pe’ diserti danno segni manifestissimi del loro furore. Forse come per altre molte cose, e per questo ancora in prima sono bestie, se desiderano quello ch’elle nulla possono trovare, o se credono col suo urlare e accanirsi trovar più tosto e con men fatica quello ch’elle siano forse per asseguire. E tu, uomo, che piangi? Se tu avessi altro che fare, certo non piangeresti. E’ Ierosolimitani in quel suo ultimo eccidio in quale perirono più di secentomilia conosciuti ebrei oppressi dalla fame, non solo non piangeano, ma si dimenticavano sepellire e’ suoi cari e amati. Ulisses presso a Omero, — non senza voluttà rammento spesso el nostro Omero, quando anche a te e’ pare specchio della vita umana, — in cena, a chi chiedea da lui che recitasse e’ casi suoi, pregò che lasciassino prima ch’e’ satisfacesse alla fame e sete sua quando la fame fa dimenticarmi ogni altro merore. E que’ compagni di Ulisses non prima che doppo cena appresso l’isola Hyperionis cominciorono a piangere e’ suoi perduti cari e amici. E chi troverai tu a chi non superabbundino tuttora cose maggiori e più necessarie e utili e più degne che ’l piangere? E se pur questa insania del piangere ti diletta, almeno fuss’ella con qualche scusa.

Lasciamo a dietro l’altre cose in pronto esposte e manifeste quale, quando che sia, onesterebbono le nostre lacrime. Chi è che mai pianga pur uno di tanti suoi dì perduti oziosi o adoperati in vizio e vituperio? E qual ti pare mal maggiore o perdere quello che mai si possa, non dico recuperare ma né ristorare, o perdere quelle cose quali siano e nate per perdere e atte a riaverle? Non voglio stendermi in amplificare e coadornare questo luogo. Tanto dico che se pur lice el piangere a noi uomini tinti di lettere, sarà quando o perderemo tempo o commetteremo qualche errore. Ma né qui ancora voglio teco essere rigido e austero. Come in la battaglia el fortissimo milite, ove e’ si sente stracco e oppresso, così tu cedi alquanto ad secundos, at non inter triarios ordines, e ivi astergi el sudor e priemi fuori el sangue circumpresso a quella scalfittura ricevuta in te dove tu non eri bene armato. E ancora non ti inculperò se tu darai qualche lacrimetta delle tue all’uso e l’oppinioni degli altri, quasi segno e testificazione della umanità tua. Ma in questo odi e tu el tuo Omero dove Ulisses dicea: conviensi por modo a’ nostri pianti acciò che di queste femminelle qualcuna vedendoci col viso madido e mezzo non ci reputi forse ebbri. E certo sarà alienissimo d’ogni constanza virile porgersi tale che sia o simile alle femminelle o simile a chi sia poco sobbrio e continente. E sarà nostro officio e proprio d’uomo far non più che solo come fece Enea presso a Virgilio, quale in tanti pericoli suoi e circumstanti mali solo ingemuit et palmas ad sidera tendit. Le molte lacrime, gli acerbi pianti, l’urla e stridi femminili, a nulla sono degni d’uomo.

Appresso de’ Litii, populi civilissimi, era una legge che chi pur volesse piangere si vestisse con veste di qualche femmina. Ma tu, se pure a que’ gemiti virili forse v’aggiugni una e un’altra lacrima, e sfoghi qualche intimo sospiro, ponvi modo. Numa re de’ Romani, omo religiosissimo e piissimo, vetò ch’e’ morti si piangessero più mesi a numero che fussero gli anni quali que’ morti erano stati in vita; né volse ch’e’ fanciugli da anni tre in giù punto si piangessero. Il Senato di Roma, ricevuta la clade apud Cannas gravissima e da viverne tutta quella età adolorati, comandò si sedasse ogni lutto in Roma, né più si protraessero e’ pianti loro che sino al trigesimo dì. Cesare dittatore el terzo dì impose fine a ogni lutto domestico e pubblico con qual si degnasse e onestasse le essequie della sua morta figliuola. Così e noi, quanto potremo subito, porremo fine a queste inutilissime inezie.

Né pero tanto mi fastidia questa levità femminile del piangere e scalfirsi le guance e pelarsi el capo, quanto mi pare da odiare e fuggire quella insania di molti quali per loro concette maninconie sviano el sonno, interlassano el cibo, perdono se stessi, fuggono e vedere ed essere veduti dagli altri uomini, e in sua solitudine e umbra stanno stupidi e quasi stolidi, dolgonsi e predicano essere sé sopra tutti e’ mortali miseri e infelicissimi; né però restano aggiugnere a sé stessi continua infelicità e miseria mentre che così si crucciano e tormentano con sue triste memorie e conceputi dispetti e dispiaceri.

Ma noi siamo e imprudentissimi ove male conosciamo lo stato nostro. Se, come dicea Socrates, tutti accumulassimo in un sieme e’ nostri mali, a ciascuno parrebbe men peso riportarsi que’ suoi antichi incarchi quali e’ portò quivi, che di nuovo entrare sotto a questo inusitato peso e molestia quale a lui converrebbe se tutta la summa de’ mali universi de’ mortali si distribuisse per sorte equale a tutti. E quanto sarebbe somma più abile quella di Priamo, di cui si cantano que’ versi troppo teneri e molto veementi ad eccitarci a compassione de’ mali altrui, e a contenerci e ritrarci da ogni nostro inconsulto discurso in nostri effetti e immoderata voluntà:

Haec finis Priami fatorum; hic exitus illum
sorte tulit, Troiam incensam et prolapsa videntem
Pergama, tot quondam populis terrisque superbum
regnatorem Asiae...

Non mi estendo in raccontarti le calamità sue. Felice lui, se di tutta quella summa qual dicea Socrate, non più a lui fusse stata imposta dalla fortuna sua che solo la parte sua.

Appresso..... era una consuetudine che gl’infermi giaceano fuori a’ vestibuli e intrate del tempio. Chi entrava a salutare Iddio, vedea e udia ogni progresso di quella infermità, e dicea: questo medesimo intervenne al tale, e intervenne a me: fecivi quello e quell’altro rimedio, e sanificammo. Contrario uso mi pare el nostro ch’e’ medici, onde impariamo sanificarci, stanno a’ vestiboli de’ tempî nostri. Quanto mi sollievano, Niccola, questi afflitti e lassi dalla sua fortuna e morbo, quali tu vedi nudi, sauciati, in età stracca, imbecillissimi, sedere e giacere su dove tu poni e’ piedi, e pregarti limosina e pietà. Indi, Battista, indi prenderemo ottimi e salutiferi rimedi. Colui povero e priegami; io ricco, e dono: colui ogni suo membro nudo; io persino alle mani e molta parte del viso (membra da volerle espeditissime) tengo vestite e obinvolute: colui scabbioso, leproso, immundissimo, tutto carco di malattie e lutoso di fetido e virulento umore; io nitido splendido e tutto vezzi. Di tanta oscenità e fedità toccherebbe parte a me, se ogni cosa si distribuisse per sorte; e non si distribuendo, io pur sono lungi molto più felice che costui. O costui è poltrone, gaglioffo, e piacegli essere non altri che e’ si sia omo; e pure è di quel medesimo luto che tu. E tanto più debba moverti a pietà, e insieme tanto più debba muoverti a riconoscere la tua sorte e la sua calamità, quanto in lui sono e membra e mente men sane che in te. E appresso dimmi: quello antiquo Mecenas nobilissimo, editus atavis regibus, quello amico e nutritore di tutti e’ buoni studiosi, quanto ti parse egli per tanta sua nobiltà degno della sua assidua molestia? Costui molta sua età sostenne in sé perpetua febbre, sanza dormire solo uno minimo momento d’ora. Troppo sarebbe cosa troppa divina non esser gaglioffo, se solo quella generazione di uomini soffrissero gli ultimi mali.

Ma non mi stendo, già che in recitare le miserie dei mortali mancherebbe el dì. Tanto dico che non solo riconoscerci uomini e pensare alle sorte e condizioni umane, come ieri dicemmo, fanno escludere le maninconie, ma e ancora giovano a espurgare le già concepute e al tutto infisse miserie entro all’animo. E non solo questo riconoscere te stessi, ma insieme qualunque cosa propulsa e distiene da noi le perturbazioni; questa medesima le evacua, e risanifica l’animo nostro già contaminato e corrutto. E massime quei luoghi d’argumentare, quali tu usurparesti in consolare altrui, que’ tutti adduceranno a te stessi molta utilità. Quali forse saranno questi: se uno de’ mortali fu quello da cui tu ricevesti ingiuria, — mala cosa la ingiuria, perché mai fu ingiuria sanza vizio, né vizio sanza colpa, — ma el vizio e la ingiuria rimane a lui, ed è non tua, ma sua di chi la fece. Se il male è d’altrui, non bisogna ch’e’ dogga a te; e se forse furono e’ cieli e que’ ministri della volontà di Dio, quali e’ teologi antiqui appellavano dii, quelli che così t’addussero in calamità, accettalo in miglior parte, quando tanti beni ricevesti da loro, quali per loro natura sempre furono benefici e liberali e cupidi di vederti migliore. Aggiugni che sempre fu officio de’ prudenti provedere a sé che nulla gli oppressi. E simile sempre fu officio d’animo forte soffrire qualunque cosa avvenga avversa. Voglio ne’ tuoi mali invochi aito da Dio. Ma non voglio in questo t’abbandoni e diati a intendere non potere in te di te quello che tu puoi. Resta, quando che sia, sollicitare gli dii con tanti tuoi voti e chieste. Eccita in te la tua virtù: Sat sit mens sana in corpore sano. La mente nostra sarà sana quanto la vorremo esser sana. La fortuna buona ben possiamo appetere dagli dii. Ma da noi conviensi chiedere la virtù, da noi, dal nostro studio, da nostra diligenza impetreremo sapienza, ornamenti d’animo e lode di ben composta mente. Chiederai ne’ tuoi casi avversi forse dagli dii sapienza e virtù, subito ti si presentarà la prudenza, quale a te veterà perseverare in questo tuo condolerti, onde a te niuno resulti profitto; ed eccoti colla prudenza insieme la temperanza, a quale null’agrada ogni tuo fatto e detto immoderato e non maturissimo. E in prima la giustizia, lume e splendore di tutte le virtù, e accusa e appellasi deserta da te, dove tu così quasi in pruova degeneri dalla virilità e dal giusto e retto stato di ben vivere, abbandonando te stessi e tuo officio. E alla fortitudine, a cui fastidia ogni tua imbecillità, e vilipende qualunque sia cosa non eccelsa ed erta, come sarai tu bene accetto, mentre che tu giacerai in solitudine e in umbra, marcendo te stessi? Sollievati adunque omai, e aita te stessi, e adattati a vincere, e vincerai per tua virtù quando vorrai, e aiteratti a vincere chi tu meno credi. Questa tua fortuna avversa t’insegnerà essere paziente; la pazienza confermerà la virilità, e colla virilità si vince, e vincendo in ogni milizia si diventa fortissimo e insuperabile.

La fortuna per sé, non dubitare, sempre fu e sempre sarà imbecillissima e debolissima a chi se gli opponga. Ma tu, non aggiugnere a’ reflui e ritrosi della fortuna e’ sinistri impeti di te stessi. Pure intraversandoti contro a te e contro all’ozio tuo, e contro a ogni dovuta quiete dell’animo tuo, fuggi combattere contro a te, e resta ferire assiduo ivi dove tu ti senti più debile e men provisto e armato. Fuggi in ogni tuo ragionamento, quale tu hai fra te, ogni parola in condolerti e ogni gesto e ogni gratificazione a te stessi, quale tu, presente gli amici e inimici tuoi, altrove non useresti. E come in mare l’ancora, così in ogni estuazione tua d’animo e mente fondavi e affermati con integra ragione e virilità. E a questo molto insieme a te gioverà consolar te stessi con qualche lieta memoria delle cose passate o qualche grata espettazione delle cose che siano per avenire, contraponendo a’ mali tuoi ogni tuo bene e lode quale a te sia o dalle tue fortune addutto o alle membra tue aggiunto o imposto nel tuo ingegno. E gioveratti far come Eneas, quale ne’ duri suoi casi ed errori: fatis (inquit) fata rependo meis. A tanti espettati beni, non ingiuria, si debbono queste e maggior fatiche. Quanti meno sono che potessero soffrire coll’animo non rotto ed equabile queste durezze, tanta sarà lode maggiore la mia bene averle sofferte. E quanto bello assettò Virgilio, ottimo poeta, in più luoghi questa ragione di consolarsi afflitto e mestissimo. Sono versi qui di Battista in suoi poemi toscani in quali imitò Virgilio:

Grave più cose già soffrimmo altrove,
e darà el tempo a queste ancor suo fine.

Ed Eneas presso a Virgilio:

Forsitan (inquit) et haec olim meminisse juvabit.

In tanto suo furore e ultima immanità Dido adiudicatasi e precipitosa in morte non potette quinci non consolarsi:

Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi.

Appresso d’Omero, Ettor ferito a morte consolava sé stessi con sperare a sé gloria immortale ed eterna fama; e dicea: «satisfeci al mio fato, esco di vita forse in età non matura, ma esco non sanza qualche piena e bene appresa gloria quando feci più e più cose degne di memoria e posterità». E Ulisses, sofferti a sé molti oltraggi da Alcinoo re Feicorum, quando e’ vide seco reconciliati gli dii e secundargli commodi e’ venti al suo principiato corso in mare, dimenticava seco stessi ogni cosa avversa passata, e molto seco si consolava con tanta presenza d’ogni bene.

Così a noi converrebbe e castigarci con giuste amonizioni, e confirmarci con vere e integrissime ragioni, e consolarci con buona speranza, ioconde memorie e dolci contentamenti d’animo. Ma noi desidiosi e ignavi, quali tante ragioni e ammonimenti addutti da me sino a qui, e tanti modi di vendicarci in libertà e sottrarci dalle ingratissime nostre molestie, non attagliano forse, giacendo e gemitando desideriamo a’ nostri sconci aver chi con sua qualche arte e senza alcuna nostra opera e diligenza noi restituisca ad integrità e a fermo stato d’animo e di mente. Vorrebbesi aver quaggiù fra noi quel Peion medico degli dii, qual mai si parte dalla presenza di Giove, e assistegli continuo in cena; e costui non però so se e’ potesse in noi quello che non potemo noi in noi stessi, se già quella Elena, figliuola di Giove, presso ad Omero, non gli porgesse quella pozione con quale ella inducea oblivione d’ogni male a chiunque ne bevesse. Questa sarebbe cosa utile fra noi mortali; benché Diodoro, greco istorico, dice trovarsi una certa spezie di farmaco chiamato elena, composto dalla moglie di Tono medico, qual farmaco spegne le lacrime ed estingue il merore. Ma voglio ridere con voi, Niccola; né però dirò cosa non accommodata a questi ragionamenti, quando dagli dii ministri della natura e compensatori della condizione umana interviene, come dicea Ulisse ad Achille, che a’ nostri mali d’animo non è chi per ingegno o per impiastri o medicamenti alcuni possa rimediarvi. Dianci a qualunque aito e amminiculo ci sollievi fiacchi e afflitti da sinistri incarchi. Rido. E’ dicono che Bacchus fra ’l numero degli dii si chiamava Liber pater, po’ che e’ liberava l’animo dalle cure e sedavagli el dolore e rendevalo ringiovanito. E questo facea solo col vino, frutto della terra alacre e iocundissimo. Molti impongono a Flacco, poeta lirico, calunnia quale s’ascrive a tutti noi vecchi, e accusanlo che fu bevitore; e questo arguiscono perché in molte sue ode e’ loda el vino. Certo, come e’ dicono di noi stracchi omai del vivere, aquilae senectus. Pertanto non vorrei in mie parole parere men sobbrio ch’io mi sia sempre stato in ogni mia vita. Voglio in questa causa da me essere preiudicato e preconstituito questo, che io in ogni altro uso del vivere biasimo la immodestia del vino. E vidi e notai in molti altrove robusti e vivacissimi uomini che la intemperanza del vino gli atterrò e abbreviò loro vita e privogli di sanità. E non mi estenderò di raccontargli in quanti modi l’essere poco sobbrio oppressi e’ nostri corpi di gravissime infermità. Ma Omero chiama el sonno domatore d’ogni acerbità, e introduce che ad Ulisses, dopo quel suo miserabile naufragio, giunto che fu el terzo dì al lito, la dea Atena, qual una sempre lo sovenne in ogni sua avversità, sopragiunse e trovollo giacere in su un suo quasi covile quale e’ s’avea fatto di frasche e di frondi; e forse lo trovò repetendo e’ suoi mali condolersi della sua calamità. Per questo mossa a pietà la dea Atena, non come in quel suo naufragio, gli sustese el velo o la vesta ove e’ posasse el petto e le sua membra; ma solo gl’indusse, per suttrarlo alquanto da tante miserie, el sonno, e adormentollo. Stratonices presso a Iesippo istorico, presa da’ nemici vincitori, deliberò uscire di servitù e uccidersi; ma in quel curare e procacciare quanto forse ella cercava per satisfarsi con men dolore e con più degnità, fu interpellata e compresa dal sonno. Dormì, e in quel dormire si spense tanto suo furore e immanità.

Bene adunque dicono che ’l sonno è dolce dimenticatore d’ogni male. Allettatore ottimo del sonno pare pure a me, il dirò, Niccola, el vino. Consiglio di Diomede: bei e mangia; poi dormendo ti racconsolerai. Benché appresso del nostro comico, Cherea dica in le sue cure amatorie: «Io in villa mi straccherò facendo qualche opera, tanto che lasso poi dormirò». Omero trovò a questo nuovi rimedi, dove egli introduce quella Tetis che suade al figliuolo suo adolorato cosa quale io non voglio dire, ché sapete gli dice: «Figliuol mio, trastullati con qualche tenera fanciulla stanotte». E altrove afferma el tuo gravissimo Omero che ’l coito introduce sonno dolcissimo e innocuo. E’ Greci chiamano le cure dell’animo acidos. Indi nominorono Venere acidalia, ditta che lievi le cure dell’animo. Ma che diremo del vino? Rammentati in quanti luoghi egli adoperi el vino a sollevare le triste gravezze dell’animo. Iunone si lagnava non essere stata, quanto ella desiderava, accetta a Iove, e Vulcano, pincerna degli dii, gli diede el vino col quale ella dilavasse ogni tristezza. E Laodices, moglie di Elicanore, al figliuolo stracco in fatti d’arme diede el vino dolce, e disse: «el bere restaura le forze e rafferma l’animo». Scrive Iulio istorico che Massimino, uno de’ successori a Cesare moderatore dello imperio romano, quel che solea in un dì mangiare quaranta libre di carne lui solo e bere una anfora di vino, e solea ricevere in certe tazze el suo sudore quando e’ s’affaticava, e spesso monstrava tre sestari vasi pieni del suo sudore, — costui iudicato inimico della patria dal Senato, essarse in tanta ira che percosse per furore el capo al parete e corse per cavar l’occhio al figliuolo. Solo uno ottimo rimedio giovò a tanta sua estuazione: inebbriossi. E quanto io, non ardisco a biasimare questo rimedio, qual pur giova, benché a me e’ non sia bello. Molte cose fatte piacciono quali sono non belle mentre ch’elle si fanno.

E ancor veggo che questo uso del vino non in tutto dispiacque a più e a più ottimi e degnissimi uomini. Solone e Archelao, nominatissimi e filosofi e principi, e Catone, vivo simulacro di severità e austerità in Roma, soleano lassare le cure dure e acerbe dell’animo e ammezzarle col vino. Piaccia questo rimedio del vino a chi e’ forse s’attagli. A me aggradono alcuni altri rimedi forse non dissimili da questi, ma più degni e più convenienti a uno uomo moderato e constantissimo. E in prima mi piace quello omerico Achille, quale per requiescere dalle molte sue faccende militari solea sedare l’animo cantando insieme col plettro e colla lira, instrumento musico. Quinci credo el nostro Virgilio introdusse quel suo Polifemo in antro, quem

Lanigerae comitantur oves; ea sola voluptas
solamenque mali de collo fistula pendet.

E certo in questo convengo io colla opinione de’ pittagorici quali affermavano che ’l nostro animo s’accoglieva e componeva a tranquillità e a quiete revocato e racconsolato dalle suavissime voci e modi di musica. E provai io non rarissimo questo in me, che in mie lassitudini d’animo questa dolcezza e varietà de’ suoni e del cantare molto mi sullevorono e restituirono. E proverrete questo voi, se mai v’accade: mai vi s’avvolgerà pell’animo e mente alcuna sì cocente cura che subito ella non si estingua ove voi perseverrete cantando. E non so come a me pare che ’l cantare mio qualunque e’ sia, più a me satisfaccia e più giovi che ’l sonare di qualunque altri forse fusse ottimo ed essercitatissimo musico. Né fu senza commodo instituto quel costume antiquissimo, qual poi interdisse el concilio arelatense, che le escubie funerali si vegghiassero cantando. Credo io così faceano que’ buoni antiqui per distorre l’animo da que’ tristi pensieri del morire. Ma a questi nostri religiosissimi forse parse più utile el ricordarsi d’essere uomo simile a quel morto; e parsegli officio più pio riconoscersi mortale e d’ora in ora caduco che darsi ad alcuna levità e lascivia. Ma el disputare di questo poco sarebbe a proposito. Tanto affermo, che qualunque cosa faremo per recrearci qual sia fatta senza iniuria di persona, sarà non indegna d’uomo studioso. Dice Plutarco: el trasferirsi qua e qua si è quasi come imitare chi fugge. E certo giova pigliare nuovi spassi in vari luoghi e sollazzi; correre, saltare, lanciare, sibillare alla caccia, e fra la gioventù in luogo e tempo atto non mi dispiace. Né mi dispiacerebbe el convivare, el motteggiare, el perdurre la notte co’ lumi e giucando con tuoi amici e con la gioventù, e ancora cantare danzando. Quel nostro poeta gridava:

Non placet iste ludus, clamo et diludia posco.

A me non in tutto dispiacerebbe se qualche giuoco alquanto lascivo piacesse a chi e’ bisognasse per dimenticarsi la sua mala sanità d’animo. L. Silla cantava non rarissimo, e Cimon, quel celebratissimo ateniense, doppo cena cantò appresso di Laumedonte. Scipione, qual fu lume non solo dell’arme e impeto romano, ma lume in prima illustrissimo d’ogni civiltà latina, solea con molta grazia spesso danzare. E Appio Claudio, uomo che trionfò, sendo grave e maturo, persino in ultima sua età danzò molto volentieri e con molta iocondità. Augusto, quel primo successore a Cesare, quale tre volte chiuse el tempio di Iano Quirino, non più che una o due volte prima veduto in Roma non aperto, scriveno che per suo trastullo solea pescare coll’amo, e non raro giucare alle nocciuole in mezzo di più fanciugli quali fossero d’aspetto dolce e di parole arditi. Ed Eraclito filosofo simile non fue più volte veduto appresso al tempio di Diana giucare alle murelle co’ fanciugli? E Socrate, principe d’ogni modestia e gravità, non soleva egli per ricrearsi giucare a que’ simili giuochi puerili insieme co’ fanciugli? Lelio e Scipione sul lito presso a Gaeta soleano simile trastullarsi co’ calculi e fargli balzellare sopra l’acque e a maraviglia insieme rinfanciullire. Referirovvi a questa similitudine ciò che a me verrà in memoria. Publio Muzio iurisconsulto giucava per darsi ozio a quel giuoco quale e’ chiamavano duodecim scripta; e Claudio Cesare giucava a quel giuoco chiamato alea, e scrissene un libro non solo per esplicare che artificio vi bisogni per vincere, ma forse in prima per pigliarsene diletto scrivendone. E simile C. Macio e M. Ambivio, patrizi romani, dice Columella, scrissero que’ duo libri Quocum et Pistorem, dove e’ comandano a questi che venendo a mescolarsi con qualche femmina tocchin nulla se prima e’ non si lavin le mani in fiume. E scrissero costoro non per insegnare cuocere el pane e fare la cucina, ma credo solo per imitare Solone, prestantissimo principe e filosofo in Grecia, quale recita Plutarco che per recrearsi dalle fatiche delle sue faccende solea darsi a scrivere versi lascivi. Penolopes, presso ad Omero, tenea in sue delizie venti oche, credo io, bionde bionde, e gratificavagli intanto dimenticarsi el suo Ulisses quanto ella curava quella sua domestica greggia e famigliuola. Alessandro, quello ottimo principe romano nimico de’ ladri, quale talvolta con tanto stomaco si versava contro a’ rapaci cittadini che la collera si li rompea e fuori in terra traboccava, costui, principe ottimo e constantissimo, dicono che per suo sollazzo e vezzi tenea colombi paia ventimila, e pasceagli del frutto de’ loro pippioni: godea vedergli volare, e, come dicono e’ poeti, godea sentirgli gemere ne’ suoi amori e applaudere e festeggiare coll’ale a chi ben gli nutriva. Racconta Suetonio istorico che Tiberio Cesare principe romano pigliava sollazzo in mezzo al bagno natare con più e più tenerucci fanciugli, e ridea dicendo: questi sono e’ mia pesciatellini. Ulisses solea presso a Circes lavarsi co’ bagnuoli odoriferi. Catone, quel buon romano si levava dalle fessitudini delle sue faccende e tessea paneruzzole. Vidi io alcuni di natura duri, bizzarri, inessorabili, a cui bisognava quasi come per escludere e pignere fuori quel piuolo rotto del pertuso infiggervi uno altro intero piuolo, e per trargli la bizzarria bisognava litigar seco di qualche cosa ed eccitar seco qualche rissa tanto che si sfogasse, e poi era mansuetissimo e facilissimo e flessibile in ogni parte. A Pirro Eliensis filosofo, figliuolo di Plistarco, scrive Laerzio istorico, fu trastullo tenere una sua scrofa ben munda dal loto e ben pulita, e forse se la tenea, qual fanno le mamme, in collo per sua bambina. Così molti simili essempli e modi da espurgare la erumna e gravezza de’ duri pensieri e atti a restaurarci, s’io vi pensassi, potrei esporveli, co’ quali e’ nostri maggiori soleano recrearsi. Ma questi per ora bastino a quanto intendiamo.

Adunque e noi, quando forse ci si presentassero triste alcune memorie e insurgessero in noi turbulenti pensieri e agitazione di nostra mente, e già cominciassero opprimerci grave alcune e dure sollicitudini, subito in que’ principi osteremo prima che l’animo sia convinto, però che l’animo non può mai poi imperare a se stesso. A que’ primi insulti adunque subito usurperemo simili remedi; e con ogni arte e diligenza cureremo vendicarci in tranquilla ed espedita libertà d’animo e di mente. E vuolsi, come si dice, se un solo non giova, molti forse gioveranno, vuolsi provarne più e più, tanto che tu senta da qualche uno l’animo tuo acquietato e pacificato con teco stessi.

Restano alcuni ultimi e ottimi ricordi a questa materia quali non voglio preterirli, e sono questi: non repetere all’animo tuo e’ passati sinistri; ragiona e con teco e con altri d’ogni altra cosa che de’ casi e infortuni tuoi. In Roma el simulacro della dea Angeronia aveva la bocca legata e suggellata, e a costei faceano e’ sacerdoti sacrificio nel sacello della dea Voluppia; qual misterio interpetra Macrobio significare che soffrendo con taciturnità le angustie dell’animo tornano poi in voluttà. Ma perché pare, quando siamo soli, meno possiamo non repetere e’ nostri mali, e quando siamo non soli più troviamo da consolarci co’ e’ ricordi e ammonimenti di chi ne ascolta, però mi piace quel precetto antiquo che in tue infelicità e miserie sempre fugga la solitudine. E a questo lodano trovarsi co’ cari noti e amici in teatro, ne’ tempi, e dove siano feste e giuochi privati e pubblici. E simile lodo io el tradursi colla gioventù in villa a quello aiere libero, suso que’ lieti colli, fra que’ culti e prati amenissimi. E per divertere l’animo da ogni trista memoria e duro pensiero, dicovi questo: nulla troverete utilissimo quanto occupare le membra e occupare l’animo vostro ad altre varie o grate o ingrate faccende ch’elle siano. Que’ di Pompeio, quando e’ lo viddero ucciso e tronco giacere in sul lito, tanto restorono di condolersi quanto essi attesero a fuggire. Converrassi adoperare coll’uccello, co’ cani alle caccie, tendere alle fere, a’ pesci. Sarà non disutile intrapreendere qualche patrocinio in la causa del tuo noto o vicino. Così con altri e con simili essercizi sarà utilissimo al tutto lungi fuggire ogni ozio e solitudine. E non vi tacerò quel ch’io provai in me. Parravvi forse cosa lieve, ma ella porta seco ottimo e presentaneo rimedio. Cosa niuna tanto mi disdice da mia vessazione d’animo, né tanto mi contiene in quiete e tranquillità di mente, quanto occupare e’ miei pensieri in qualche degna faccenda e adoperarmi in qualche ardua e rara pervestigazione. Soglio darmi a imparare a mente qualche poema o qualche ottima prosa; soglio darmi a commentare qualche essornazione, ad amplificare qualche argumentazione; e soglio, massime la notte, quando e’ miei stimoli d’animo mi tengono sollecito e desto, per distormi da mie acerbe cure e triste sollicitudini, soglio fra me investigare e construere in mente qualche inaudita macchina da muovere e portare, da fermare e statuire cose grandissime e inestimabili. E qualche volta m’avvenne che non solo me acquetai in mie agitazioni d’animo, ma e ancora giunsi cose rare e degnissime di memoria. E talora, mancandomi simili investigazioni, composi a mente e coedificai qualche compositissimo edificio, e disposivi più ordini e numeri di colonne con vari capitelli e base inusitate, e collega’vi conveniente e nuova grazia di cornici e tavolati. E con simili conscrizioni occupai me stessi sino che ’l sonno occupò me. E quando pur mi sentissi non atto con questi rimedi a rassettarmi, io piglio qualche ragione in conoscere e discutere cagioni ed essere di cose da natura riposte e ascose. E sopratutto quanto io provai, nulla più in questo mi satisfa, nulla tutto tanto mi compreende e adopera, quanto le investigazioni e dimostrazioni matematice, massime quando io studi ridurle a qualche utile pratica in vita; come fece qui Battista, qual cavò e’ suoi rudimenti di pittura e anche e’ suoi elementi pur da’ matematici, e cavonne quelle incredibili preposizioni de motibus ponderis. Non voglio estendermi in recitarvi di me quello che in me possano queste arti matematice; né voglio insistere a persuadervi quel che io stimo per miei detti di sopra esservi persuaso. Tanto solo v’affermo: cosa niuna più giova a espurgare ogni tristezza che immettersi in animo qualche altra occupazione e pensiere. Confesserovvi di me stesso, a me non rarissimo intervenne ch’io, posto in mezzo dove erano alcuni invidi, procaci e temulenti, de’ quali più d’uno con vari stimoli e aculei di parole per incitarmi ad ira di qua e di qua mi saettavano, stetti parte sì occupato ad altre mie investigazioni, parte ancora sì disposto a nulla curarli più che se fussero quel corvo che salutava Cesare, o quel psittaco che gridava chere, chere, che io nulla udiva, nulla vedea, nulla sentiva altri che me stessi; meco ragionava, meco repetea miei studi e vigilie, e a me stessi intanto promettea buona grazia e posterità. Quinci pensate voi quali siano gli animi più pieni che ’l mio di maravigliosa investigazione. M. Marcello presso a Siracuse comandò a’ suoi armati che in tanto eccidio di sì nobile terra servassero quello Archimede matematico, quale difendendo la patria sua con varie e in prima non vedute macchine e instrumenti bellici, aveva una e un’altra volta perturbato ogni ordine suo e rotto l’impeto di tanta sua ossidione ed espugnazione. Trovoronlo investigare cose geometrice quale e’ disegnava in sul pavimento in casa sua; e trovoronlo sì occupato coll’animo e tanto astratto da ogni altro senso che lo strepito delle armi, el gemito de’ cittadini quali cadeano sotto le ferite, le strida delle moltitudine quali periano oppressi dalle fiamme e dalle ruine de’ tetti e de’ tempi, nulla el commoveano. Cosa per certo mirabile che tanto fracasso, tanta caligine del fumo e del polverio non lo stogliesse da questa una sua investigazione e ragione matematica a quale egli era tanto occupato e adiudicato.

Così, non dubitate, se instituiremo in noi buona ragione di vivere, se ci daremo a lodati essercizi, se insisterremo in pervestigazioni di cose degne e prestantissime, se ci adempieremo di virtù e constanza, certo potremo, con nostra pace e lieta quiete e degna tranquillità d’animo, quanto vorremo contro a’ casi avversi, contro le ingrate lassitudini e fatiche, contro al dolore, e contro ogni avversità e ingiuria de’ tempi e della fortuna, e contro ogni malizia e malvagità di qualunque sia omo in vita perfido e iniquissimo.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.