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Traduzione dall'inglese di Giacomo Zanella (1868)
1828
Questo testo fa parte della raccolta Versi di Giacomo Zanella


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della Stessa.




Properzia Rossi, famosa scultrice di Bologna, valente del pari nella poesia e nella musica, morì di un amore infelice. Un quadro di Ducis la rappresenta nell’atto di mostrare il suo ultimo lavoro, un bassorilievo di Arianna, a un cavaliere romano, oggetto del suo amore, che lo guarda con indifferenza.

I.


     Ultimo dono il cielo mi consenta
D’arte e d’amor: ch’io pochi segni imprima
3Su questo sasso, e morirò contenta.

     Dell’ardor che gl’inerti anni mi lima,
Rimanga un’orma sulla terra, un’orma;
6Ed io nata a toccar era la cima!

     Del bello ancor la luminosa forma
Doni vita perenne al mio lavoro;
9Poi l’egro spirto il vol raccolga e dorma.

     Per te, per te, che forsennata adoro,
Per te che di deridermi non cessi,
12Questo all’arte domando ultimo alloro.


     Oh, se nel marmo imprigionar potessi
Quest’anima che fugge; e tutti quanti
15Fosser nell’opra i miei tormenti espressi,

     Accorati silenzî, occulti pianti,
Torbide notti e più torbide aurore,
18Delusi sogni e solitari canti!

     A lei che presto vittima d’amore
Vedrà sopravvenirsi il dì mortale,
21Forse pentito volgeresti il core;

     E piangeresti rimembrando quale
Teco ella fu, sì timida e modesta,
24Sì pia, sì dolce, mentre tu, sleale....

     Dèstati, invitto spirito, ti desta;
Tronca la querimonia intempestiva,
27E la man non tremante all’ovra appresta.

     La fredda pietra del mio foco avviva;
Paga morrò. Quel perfido rimiri
30Qual d’ingegno tesor con me periva;

     Vegga la spenta fiaccola e sospiri.


II.


     Ei viene, ei vien! Con procellosa piena
L’estro antico risorge: all’ansia mente,
3Che l’affanno prostrò, torna la lena.

     Dall’agitato spirito repente
Con giocondo tumulto si disserra
6Di glorïose immagini un torrente,

     Che m’incalzan superbe e mi dan guerra
La mano affaticando e l’intelletto.
9No tutta, tutta io non andrò sotterra.

     Cresce il vago lavor. Del mio concetto
Lo scabro masso già s’informa e toglie
12Atto e sembianza di vivente aspetto,

     Simile a rosa che le fresche foglie
Dischiude ad una ad una, in fin che splende
15Nell’aperta beltà delle sue spoglie.

     Cresce il lavoro: docile si arrende
A’ miei colpi il macigno. O somigliante
18A me nelle tue dure aspre vicende,


     O tradita Arïanna, il mio sembiante,
Il disperato mio sguardo ti presto:
21In te mi riconosca il crudo amante.

     Il mio dolor gli parli manifesto
Nel tuo muto dolor: la mia procella
24Nel tuo volto contempli e nel tuo gesto.

     O consunta d’amor, greca donzella,
Deserta un dì sovra remota arena,
27Tu del mal non ignara a lui favella

     Dell’indomito ardor che in ogni vena
Con sue torbide vampe mi penètra
30E pria del tempo al mio fine mi mena.

     Almen potessi infondere alla pietra
La virtù d’una nota! ed il concento
33Dolce come sospir d’eolia cetra,

     O carezzevol alito di vento
Fra le foglie d’un mirto illanguidito,
36Quel fero impietosisse al mio tormento.

     Per tanti guai, da cui già porto attrito
L’egro mio frale: pel vorace affanno,
39Onde ho sull’alba il mio cammin fornito.


     Ristoro altro non chiedo a tanto danno
Che una lagrima sua. Fatte già polve
42Entro l’urna queste ossa esulteranno,

     Chè vero amor per morte non si solve.


III.


     Come sei bella, femminil sembianza
Dal marmo uscente! Ma l’altera idea,
3Che brilla in me, la tua bellezza avanza.

     Di che vaghi miracoli io potea
Il mio secolo ornar, se la fortuna
6A’ miei poveri giorni era men rea!

     Ma non arrise il cielo alla mia cuna;
Quando più dolce il grido è di natura,
9Solinga io vissi e senza speme alcuna.

     Un core, un core, in cui versar secura
L’ansia segreta e la segreta stilla
12Dal duol spremuta a’ dì della sventura;


     E mia stella nel buio, una pupilla
In me fisa ridente; una parola
15Che tornasse l’afflitta alma tranquilla;

     Tutto, a me tutto il ciel negava. Or sola
Sulla terra m’aggiro: al core affranto
18Ogni più salda illusïon s’invola.

     Così di gioia e di trionfo un canto
Che agitò l’aure altissimo, talvolta
21Odi in lungo morir eco di pianto

     Nel buio sen di sotterranea volta.


IV.


     Pur del mio genio un lampo in questo sasso
Vedran le genti: innanzi ad Arïanna
3L’età venture arresteranno il passo.

     O fama! e la tua larva ancor m’inganna?
Di rugiade ha desio l’arida fronda,
6Cerca uno schermo la tremante canna;


     La vite, perchè prosperi feconda,
Ha bisogno dell’olmo, ed io bisogno
9Ho d’un core che m’ami e mi risponda.

     Fama, splendido cencio, inutil sogno!
Un core, un core, o fama, a conquistarmi
12Tu non valesti, e pure ancor ti agogno.

     O lauri! o cetra! o miei spiranti marmi!
L’antica fiamma ridestarsi io sento:
15Tornano le armonie, tornano i carmi.

     Dunque l’incendio non peranco è spento?
Dunque nuove vedrò nascer ghirlande
18Sovra il cammin che un’altra volta io tento?

     Mai più, mai più! Puro fiammeggia e spande
D’oro torrenti su’ tuoi lidi il sole,
21Italia, nella polve ancor sì grande;

     Dolce come di rose e di viole
Profumo in una queta alba di maggio
24Suona il concento delle tue parole;

     Ma dal vivo tuo ciel, dal tuo linguaggio
Dolcezza alcuna al cor più non mi torna;
27Tace ogni inno per me, tace ogni raggio.


     Meco immortale il mio dolor soggiorna;
I miei passi accompagna e tinge in nero
30Quanto natura più di riso adorna.

     Già tremenda mi suona entro il pensiero
Un’assidua parola: il tuo sospiro
33Donna, non val che ad irritar l’altero.

     O tu mio divo spasimo e deliro,
Tu che di ghiaccio e di disdegno armato
36Crudel gioco ti fai del mio martíro,

     Addio! Se almen mi concedesse il fato
Pria che l’aura del dì mi sia rapita,
39Posarti in seno il capo affaticato,

     E disciogliermi in pianto e non udita
Pur sul collo morirti, al tutto orrendo
42Il tenor non direi della mia vita.

     L’ala di morte or desïosa attendo;
E pur quanto sereni avrei veduti
45I miei giorni passar teco vivendo!

     Or ambo in festa: ora tranquilli e muti
Mirando il cielo, nè piacer gustando
48Maggior che d’esser ivi ambo seduti;


     Or di lontana musica ascoltando
Gioconde consonanze, che la brezza
51Interrompe del vespro a quando a quando;

     Or colla mente a dotte inchieste avvezza
In franto simulacro o tela antica
54L’orma spïando d’immortal bellezza;

     Dolce al paro il riposo e la fatica
Stata ne fora; nè sventure ed onte
57Già t’attendean, perch’io ti fossi amica;

     Ma del contento inebbrïata al fonte
Ampia mèsse di lauri avrei raccolta
60Sol per farne ghirlanda alla tua fronte.

     O sogni, sogni! Or dell’amor m’è tolta
Anco la speme: questo sol m’avanza
63Che la mia fama non sarà sepolta.

     Soave, come tenüe fragranza
Che intorno arida rosa ancor si aggira,
66Fia che resti di me la ricordanza,

     Soave come l’aura che sospira
Nel crin di melanconico cipresso,
69O fra le corde di spezzata lira.


     Resterà questo marmo, e viva in esso
L’immortale mia fiamma. I cittadini
72Commossi in cor gli passeranno appresso;

     E chi sa non tu stesso il guardo inchini
Vinto a un pensier che l’anima ti grava,
75E traendo un sospir dica a’ vicini:

     Quanto colei, che lo scolpì, mi amava!

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