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Fra i monti che gli Insubri hanno alle spalle
Verso dove il soffiar di Borea scende
Sta il vago piano dell’amena valle
Che Sesia bagna, e da essa il nome prende.
VARALLO. Poema antico.
Erano i ricchi e potenti di Novara divisi in due fazioni, i Sanguigni ed i Rotondi. Capi dei Sanguigni erano i Brusati, capi dei Rotondi i Tornielli. L’odio che vicendevolmente nutrivano stette alcun tempo ne’ fieri petti sepolto, ma bastò una scintilla a farlo divampare inestinguibile. Uno dei Sanguigni da lieve ingiuria avvelenito contro Giovanni figlio di Ugone Torniello lo assalì con una mano de’ suoi nel bel mezzo della piazza maggiore e a colpi di pugnale lo stese al suolo. Al divulgarsi del nefando caso accorsero i Rotondi; si sguaniraono le spade e accanita, micidiale durò la zuffa. Rimasti al fine i Rotondi vincenti, i Brusati con tutti i loro gir dovettero in bando. Volgeva l’anno 1257. Rapida come peste la febbre della discordia si dilatò. Da tutte le terre e le castella sbucarono armati per l’una e per l’altra delle avverse fazioni parteggiando; onde le offese e le uccisioni addoppiandosi moltiplicarono l’alimento all’ira ed alle vendette.
Il tradimento ricondusse i Sanguigni in Novara dalle cui mura vennero espulsi i Tornielli, non senza che di molto sangue fosse nuovamente la città macchiata.
Ugone Torniello orbato del figlio, errante dalla patria, per trovare scampo alla rabbia nemica cercò rifugio in un castello posto tra gli ultimi scoscesi monti di Val di Sesia. Andava desso strettamente congiunto al conte Guido Boniprandi, cui era stata madre una propria sorella. Signore di vasto territorio era il conte Guido poichè possedeva l’intera borgata di Robiallo nel Varallese colle terre circonvicine[1], e s’aveva inoltre per feudo il dominio dell’alta Vallesesia che acquistò menando in moglie la bella e celebrata Adelberta ultima prole d’Arduini marchese d’Ivrea, quegli che coronato Re d’Italia subì la sorte dell’audace Berengario.
Conducevano Guido e la sua vaga consorte tranquilla vita e felice, lungi dall’armi e dall’astio de’ partiti, dimorando tra fedeli vassalli alpigiani nel castello che alzava le turrite mura all’estremità superiore della valle, ove ora stanno i pacifici presepi di Lagna, ed ove dalle nevi eterne e dai ghiacciai del monte Rosa colano perpetui rigagnoli che danno origine e corso alla Sesia.
L’esule Toriello oppresso dalle ambasce e dall’età, pervenne a gravissimo stento tra quelle rupi, ed entrato al cospetto del nipote gli si gettò tra le braccia chiedendogli asilo. Affettuoso il conte Guido l’accolse; e benchè tosto comprendesse che ricettare lo zio valeva lo stesso che gettare il guanto alla fazione nemica, pure non seppe da sè respingere il canuto parente precipitato in miseria.
Nè andò guari che le previsioni del Conte si verificarono. Ai Brusati si congiunse la possente famiglia dei Cavallazzi in cui vigeva antico rancore contro i capi nemici. Pel tal considerevole aumento di forze infellonendo i Sanguigni concepirono il pensiero d’interamente distruggere i Rotondi. Non era rimasto celato che Ugone Torniello amicamente ricevuto dal Boniprandi viveva seco lui pacifico e sicuro; tanto bastò perchè il Conte fosse immantinenti considerato nemico e si statuisse di sterminarlo.
Giù dalle rocche di Fara, di Briona, dalla torre di Grignasco calarono masnade di battaglieri che congiunte piombarono sulle terre del Conte a Robiallo. Mettevano a fiamme i casolari, devastavano i colti, trucidavano gli uomini, se non che a porre riparo a tanta ruina, s’affrettò colà con sue bande il conte Guido. Replicate feroci pugne si commisero su quel terreno, in una delle quali Boniprandi trafisse di propria mano Ardizzo Brusati il più terribile de’ capi Sanguigni. Ma sopravvenne da Novara con gran numero d’uomini Ubaldo Cavallazzi, che urtando nelle schiere del Conte le ruppe e tagliò a pezzi, e il Conte stesso fu visto, trapassato il petto da una freccia, cadere rovescio nella Sesia e seppellirsi ne’ flutti.
Era la stagione propizia. Imbaldanziti i Sanguigni dalla riportata vittoria accolsero plaudendo la proposta di Ubaldo di campeggiare in Val di Sesia al castello dell’estinto Boniprandi per abbattere dalle fondamenta anche le mura in cui si osò dare stanza all’odiato capo nemico.
Quella fiera turba d’armati fatta più grossa da nuovi drappelli di venturieri si mette per la valle: la devastazione segna i suoi passi, nè trova ostacolo alcuno al progredire poichè tutti gli abitatori fuggono dinanzi ad essa.
Sostanno i guerrieri al cadere del secondo giorno presso le rupi da cui sboccando il turgido Sermenza versa le sue acque nei meandri della Sesia. Placide trascorsero l’ore notturne, ma quando i primi raggi dell’aurora dorarono le cime dei monti, quale non fu la loro immensa sorpresa nello scorgere all’opposta sponda tutte le alte falde gremite di montanari armati di fionde e d’archi? - Ogni masso sporgente, ogni roccia molti ne sostiene, che in estesa linea disposti o variamente aggruppati palesano colle ardite attitudini quanto abbiano l’animo parato a vendicarsi delle sofferte crudeli offese.
Più però che l’apparizione inaspettata di quella agguerrita moltitudine infonde meraviglia e terrore nella coorte di Ubaldo la vista e l’aspetto di colui che la guida. Stassi egli ritto sullo scoglio più erto, avvolto in buone lane monacali, serrate al corpo da rozza cintura. Ampio cappuccio gli ricade sulla fronte, interamente celandogli la faccia, se non che trasforato in due parti lascia libero vibrare lo sguardo. Impugna colla destra una spada che tien sollevata in atto imperante, minaccioso.
Ad un di lui cenno, mortale grandine di dardi e di sassi piomba sugli attoniti guerrieri. Scossi questi e furenti pei colpi che li flagellano, non badando a periglio, entrano nelle spumose acque del torrente e lo varcano, trovando però non pochi ne’ suoi gorghi la morte. Pervenuti al di là, svaginati gli acciari, s’arrampicano su pei greppi e le rupi onde raggiungere e punire gli audcai feritori. Ma ad un nuovo segno del loro misterioso condottiero, gli alpigiani, che di semplici panni coverti al sostenere potevano la pugna da vicino con nimici tutti irti e lucenti di ferro, guadagnano le alture e spariscono.
I Sanguigni dopo tal fatto tennero tra essi consiglio; alcuni opinarono diversi doversi far ritorno; ma i più, inanimiti dalle parole dell’intrepido Ubaldo, ripeterono il voto di dar compimento all’impresa e procedettero arditi, benchè più canti, nell’interno della valle.
Non sempre lucente splendette l’estivo raggio. Si viddero a mezzo il dì passare di prospetto frettolose le nubi, ed accavallarsi poscia sulle erette e nude cime delle torreggianti montagne. Vaste volute salirono a coprire la faccia del sole: cominciò a fremere il vento e sorse indi a poco il soffio delle propinque ghiaccaje, che rimescolando quelle masse di nebbia, abbassavale talora sino al fondo della valle.
Camminano i guerrieri taciturni in ordinanza lungo i margini scoscesi della Sesia che rumoreggia più cupa. Ma avanzatisi di poco, freccie e pietre scendono a furia dall’alto e molti gravemente ne percuotono per gli elmi e le corazze. Vano è per essi alzare gli scudi e dar piglio alle spade: invisibile è il nemico.
Squarciasi però ad un tratto il vaporoso velo e mirano sull’irradiato fianco del monte la schiera formidabile del camuffato Monaco che stende ver loro la punta del ferro e li fa segno agli incessanti colpi. Trascorsi brevi momenti si ricongiungono e frammischiano le rotte nubi e tutto s’invola di nuovo alla vista.
Uno sgomento s’impossessa dell’animo dei guerrieri che vorrebbero arretrare, ma imperterrito Ubaldo fa sacramento di muovere da solo al castello se i suoi sono sì vigliacchi da abbandonarlo. Nessuno più ardisce mostrarsi restìo e riprendono più spediti il viaggio. Continuamente or da destra or da manca essi vengono saettati, e sempre al sollevarsi delle nebbie scorgono il Monaco colle sue bande che sul pendìo dei monti laterali procede pari passo con essi.
Raggiunta finalmente è la meta, chè tocco hanno il confine della valle. Le montagne di fianco divergono allargandosi in anfiteatro chiuso in fondo dal Rosa che innalza al cielo i suoi candidi gioghi. Al principiare dell’erta sorge un quadrato castello che va agli angoli ed al centro munito di rotonde torri colle acute piramidali sommità vestite di piombo. Ne bagna un lato la nascente Sesia e dietro è cinto da una selva di larici i cui rami frangiati in verdebruno stanno vergenti al suolo. E’ il castello de’ Bonipreandi.
Finiva il giorno; eransi dissipate le nebbie, taceva il vento. Quasi si fosse sciolto nell’aure o l’avessero inghiottito le rupi, il Monaco fatale era scomparso con tutti i suoi e completa ivi regnava la solitudine. Gli ultimi fuochi del sole, abbandonato il rimanente della terra, splendevano ancora sulle nevi dell’alpe e lo pingevano di quel colore soave che gli fe’ prendere il nome dal più vago de’ fiori.
Condusse Ubaldo i guerrieri e li collocò a conveniente distanza intorno al castello la cui ferrata porta era serrata saldamente; benchè non si scorgesse per le mura o sulle torri traccia di sentinella o d’abitante.
Furono alzate le tende; s’accesero ampie cataste, e molti militi raccolti nel bosco de’ larici trascelsero gli alberi che venir dovevano il mattino atterrati onde formare le macchine murali. Inoltratasi la notte, poste che furono le scolte di spazio in ispazio, posarono i guerrieri presso i fuochi che s’andavano spegnendo, e giacquero nel sonno.
Quando venne l’ora che salita la luna sopra le più alte vette mandò obbliquo dai nereggianti monti l’argenteo raggio al fondo della valle, e biancheggiarono le merlate muraglie, splendettero i plombei culmini delle torri, l’audace Ubaldo, cui agitava il desìo di penetrare l’arcano di che pareva cinto quel castello, volle mirarlo vicino mentre tutto era in silenzio. Colà quindi s’avvia a lenti passi, quand’ecco al suo appressarsi sorgere sulle mura il Monaco tremendo.
Arretra Ubaldo d’un passo, ma poi quasi da malìa incatenato si ferma, fiso tenendo lo sguardo a contemplarlo. Terribile allora non era quanto misterioso il di lui aspetto; le fosche lane che ricoprivanlo, fatte men rudi dalla pallida notturna luce, segnavano perfetti contorni e parevano l’involucro d’un genio in umane forme. Immobile rimaneva in mesto e fiero atteggiamento.
Ubaldo sbandita prestamente ogni apprensione, alzata la destra con voce ferma, esclamò: "Invano, chiunque tu sii, ti ostini a difendere queste mura: esse hanno ricettato l’iniquo nostro nemico e debbono cadere. Cedi ai valorosi Sanguigni; cedi e risparmia la vita dei tuoi". - Giammai - fu l’unica parola che dalle labbra del Monaco pronunciare s’intese.
Due giorni dopo ogni cosa trovossi in pronto per l’assalto. Le mura del castello difese da risoluti alpigiani non offrirono agevole conquisto ai guerrieri d’Ubaldo. Il combattimento fu lungo, sanguinosissimo. Il Monaco presente per tutto infiammava il coraggio dei vassalli di Guido che tenevano con eroiche prove lontani gli assalitori. Ma dai cozzi tremendi d’un ferreo ariete sconquassata va a terra la porta e i guerrieri si scagliano precipitosi per entro, nel tempo stesso che superato il muro in più parti altri padroneggiano il vallo. Si pugna pei portici e nel cortile. Ubaldo che all’entrare erasi scontrato nel Monaco, nella folla lo perdette di vista.
Ansioso di rinvenirlo ascese le scale seguìto dai più fidi, e lo scorse all’ingresso della sala d’armi circondato dai pochi tra suoi sopravvissuti. Questi vengono tosto atterrati dai guerrieri e le spade del Monaco e d’Ubaldo s’incrocicchiano e si ribattono. Ma sia lassezza o riportate ferite debole è il braccio del Monaco che l’avversario incalza vigorosamente. Si va desso ritraendo, difendendosi, sin che urta in una porta che si spalanca, e nel punto stesso Ubaldo d’un colpo furioso lo trapassa col ferro. Dà un grido, vacilla e abbandonata la spada cade ai piedi d’un letto su cui giace un cadavere.
Commosso e inorridito Ubaldo impone agli accorsi guerrieri di porgere ogni aita al languente. Vien egli tosto rialzato, gli si sciolgono le lane, si rigetta dalla fronte il cappuccio, e ... oh vista! ... un volume di treccie scende lungo il candido collo sulla maglia d’acciajo ... E la contessa Adalberta! ... Riapre gli occhi, si sforza asollevarsi, e si trascina verso le coltri, ove ricadendo spira sopra la salma dello sposo, che sottratto vivente alle acque del fiume, venne dai fidi vassalli portato al suo castello in cui dalla ferità morì.
Ai Sanguigni fece poscia pagar cara quella vittoria il Torniello, che scampato di là seppe ottenere da Napo Torriano protezione ed armati.
FINE
Note
- ↑ Robiallo fu nel secolo XIV interamente distrutto. Veggonsi ancora su un’eminenza petrosa i ruderi del vasto castello