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RAPPORTO

DI COSE DELLA MAGNA

PER

NICCOLÓ MACHIAVELLI.

Fatto questo dì 17. Giugno 1508.


L’Imperadore fece di Giugno passato la Dieta a Costanza di tutti i principi della Magna, per far provvisione alla sua passata in Italia alla corona. Fecela e per suo moto proprio, e per esserne ancora sollecitato dall’uomo del Pontefice, che gli prometteva grandi ajuti per parte del Pontefice. Chiese l’Imperadore alla Dieta per tale impresa tremila cavalli, e sedicimila fanti; e promise di aggiungerne di suo proprio infino in trentamila persone. La cagione, perchè e’ domandasse sì poca gente a tanta impresa fu, la prima perchè e’ credette bastassino, persuadendosi poterli valere de’ Veneziani e di altri d’Italia come appresso si dirà, nè credette mai che li Veneziani gli mancassino, avendoli serviti poco innanzi, quando e’ temevano di Francia, dopo lo acquisto di Genova; perchè aveva a loro richiesta mandato circa a duemila persone a Trento. Aveva messo voce di voler ragunare i principi, e itosene in Svevia a minacciare i Svizzeri, se non partivano da Francia. Il che fece che il Re Luigi subito presa Genova, se ne ritornò a Lione; dimodochè parendo all’Imperadore aver loro levato la guerra d’addosso, credeva al tutto che lo dovessino riconoscere, e usò dire più volte, che in Italia non habebat amicos propter Venetos. L’altre cagioni ancora, perchè chiese sì poca gente furono, perchè l’Imperio glie ne promettesse più prontamente, e gliel’ossrervasse, o perchè condescendesse più volentieri a metterle tutte sotto la obbedienza sua, e non cercarle di darli capitani in nome dell’Imperio, che gli fossino compagni. Perchè non mancò chi nella Dieta ricordasse, infra li quali fu l’Arcivescovo di Magunzia, che farebbe bene fare l’impresa gagliarda, e provvedere almeno a quarantamila persone, e dar loro in nome dell’Imperio quattro capitani ec. Di che l’Imperadore s’adirò seco, e disse: Ego possum ferre labores, volo etiam honores; tanto che si conchiuse queste diciannovemila persone; e di più che se gli desse centoventimila Fiorini, per supplire alla necessità del campo, quanto per soldare cinquemila Svizzeri per sei mesi, come meglio gli paresse. Propose l’Imperadore, che le genti fossero insieme il dì di S. Gallo, parendoli tempo assai ad averle provvedute, e comodo al modo loro del far guerra, e appresso indicò infra detto tempo aver condotto tre cose; l’una l’averli guadagnato i Veneziani, de’ quali mai diffidò infino all’ultimo, non ostante che fusse seguita la cacciata dell’Oratore loro, come si sa; l’altra aver fermi i Svizzeri; la terza aver tratto dal Pontefice, e da altri d’Italia buona quantità di denari. Andò pertanto praticando quelle cose; venne S. Gallo; le genti si cominciorno a ragunare; e lui delle tre non aveva condotte nessuna, e parendogli non poter muoversi , nè diffidandoli ancora di condurle, inviò le genti chi a Trento, chi altrove, e non istaccava le pratiche, dimodochè e’ si trovò di Gennaio, e consumata la metà del tempo della provvisione dell’Imperio, e non aver fatto cosa alcuna, dove veggendosi giunto, fece ultimum de potentia di avere i Veneziani, a’ quali mandò il Fra Bianco, mandò Pre Luca, mandò il Dispoto della Morea, e i suoi araldi più volte; e loro quanto più si gittava loro dietro, tantopiù lo scoprivano debole, e più ne fuggiva loro la voglia, nè ci conoscevano dentro alcuna di quelle cose, perchè le compagnie di slato si sanno, che sono, o per esser difeso, o per paura di non esser offeso, o per guadagno; ma vedeano d’entrare in una compagnia, dove la spesa e il pericolo era loro, ed il guadagno d’altri; pertanto l’Imperadore scarso di partiti, senza perder più tempo deliberò assaltargli, credendo per avventura farli ridere, e forse glie ne fu dato intenzione da’ suoi mandati, o almeno con la scusa di tale affatto fare che l’Imperio affermasse, ed accrescesse le sue provvisioni d’ajuto, veggendo che le prime non erano bastate. E perchè sapeva che innanzi a maggior provvisione d’ajuto e’ non poteva stare sulla guerra, per non lasciare il paese a discrezione, ragunò avanti lo assalto a’ dì 8. Gennaio a Baggiano, luogo sopra a Trento una giornata, la Dieta del contado del Tirolo. E’ questo contado tutta la parte, che era del suo Zio, e gli rende più che trecentomila fiorini, senza porre alcun dazio; fa meglio che sedicimila uomini da guerra; ha gli uomini suoi ricchissimi. Stette quella Dieta in pratica 19. dì, e in fine concluse di dare mille fanti per la sua venuta in Italia, e non bastando, infino in cinquemila per tre mesi, e infino in diecimila per la difesa del paese bisognando. E dopo tale conclusione se ne andò a Trento, e a’ dì 6. di Febbraio fece quelli due assalti verso Roveredo, e Vicenza con circa a cinquemila persone, o meno tra l’uno e l’altro luogo. Di poi si partì lui subito, e con circa a mille e cinquecento fanti ed i paesani, entrò in Val di Codaura verso il Trivigiano; predò una valle, e prese certe fortezze; e vedendo che i Veneziani non si moveano, lasciò quelli fanti al grido, e se ne tirò in sue via per intender la mente dell’Imperio. I fanti in Codauro furno morti, donde lui vi mandò il Duca di Brunsvvich, di cui mai s’intese cosa alcuna, Ragunò in Svevia la Dieta la terza Domenica di Quarefima, e perchè annusato che l’ebbe gli seppe di cattivo, se ne andò verso Ghelleri, e mandò Pre Luca a’ Veneziani a tentare quella tregua, la quale si concluse a’ dì 6. del presente mese di Giugno, perduto che lui ebbe ciò, che egli aveva nel Friuli, e stato per perder Trento, il quale fu difeso dal contado del Tirolo; perchè per l’Imperadore, e per le genti dell’Imperio non mancò che si perdesse, che tutte ne’ maggiori pericoli della guerra si partivano, venuta la fine de’ loro sei mesi.

Io so che gli uomini udendo questo, e avendo visto si confondono, e vanno variando in di molte parti, nè fanno perchè non si sieno viste quelle diciannovemila persone, che l’Imperio promise, nè perchè la Magna non si sia risentita in sulla perdita dell’onore suo, nè perchè cagione l’Imperadore si sia tanto ingannato, e così ognuno varia in quello si debba o temere, o sperare per l’avvenire, e dove le cose si possino indirizzare. Io sendo stato in sul luogo, e avendone udito ragionare molte volte a molti, ne avendo avuto altra faccenda che questa, referirò tutte le cose, di che io ho fatto capitale, le quali se non distintamente, tutte insieme alla mescolata risponderanno ai quesiti di sopra; nè le dico come vere, e ragionevoli, ma come cose udite, parendomi che l’uffizio d’un servitore sia porre innanzi al Signor suo quanto egli intende, acciocchè di quello vi sia buono e’ possa far capitale.

Ciascuno di quelli, a che io ne ho sentito parlare si accorda, che se l’Imperadore avesse una delle due cose, senza dubbio gli riuscirebbe ogni disegno in Italia, considerato come ella è condizionata, le quali sono, o che mutasse natura, o che la Magna lo ajutasse daddovero. E cominciandosi alla prima, dicono che considerato i fondamenti suoi, quando e’ se ne sapesse valere, e’ non sarebbe inferiore ad alcun altro potentato Cristiano. Dicono che gli tlati fuoi gli danno d’entrata seicento mila fiorini, senza porre dazio alcuno, e cento mila fiorini gli vale l’Ufizio Imperiale. Questa entrata è tutta sua, e non l’ha di necessità obbligata ad alcuna spesa. Perchè in tre cose, dove gli altri principi sono necessitati spendere lui non vi spende un soldo, perchè e’ non tiene gente di arme, non paga guardie di fortezze, nè officiali delle terre, perchè i gentiluomini del paese stanno armaci a sua posta; le fortezze le guarda il paese, e le terre hanno i lor Borgimastri, che fanno loro ragione.

Potrebbe pertanto se fosse un Re di Spagna in poco tempo far tanto fondamento da se, che gli riuscirebbe ogni cosa; perchè con un capitale di ottocento o novecentomila fiorini, l’Imperio non faria sì poco, ed il paese suo non farebbe sì poco, che non facesse assai augumento, e avendo comodità di muover la guerra subita, per aver gente da guerra in ogni luogo, potrebbe trovandosi provvido di denari muover guerra subito; e trovare coll’armi ognuno sprovvisto. Aggiugnesi a questo la reputazione, che si tira dietro l’avere i nipoti Re di Castiglia, Duca di Borgogna, e Conte di Fiandra, la coniunzione ch’egli ha con Inghilterra, le quali cose gli sarebbon di favor grande, quando le fussino ben usate, in modo che senza dubbio tutti i disegni d’Italia gli riuscirebbono. Ma lui con tutte le soprascritte entrate non ha mai un soldo, e ch’è peggio, e’ non si vede dove e’ se ne vadino.

Quanto al maneggiar l’altre cose, Pre Luca ch’è uno de’ primi suoi, che egli adopera, mi ha detto queste parole: L’Imperatore non chiede consiglio a persona, ed è consigliato da ciascuno; vuol fare ogni cosa da se, e nulla fa a suo modo, perchè nonostante che non iscuopra mai i suoi secreti ad alcuno sponte, come la materia gli scuopre, lui è svolto da quegli, ch’egli ha intorno, e ritirato da quel suo primo ordine; e queste due parti la liberalità, e la facilità, che lo fanno laudare a molti, sono quelle che lo ruinano. N’è la sua venuta d’Italia per altro conto tanto ispaventevole, quanto per questo, perchè i bisogni colla vittoria gli crescevano, non sendo ragionevole, ch’egli avesse fermo il pie così presto; e non mutando modi, se le frondi degli alberi d’Italia gli fossino diventati ducati non gli badavano. Non è cosa che con denari in mano allora non si fotte ottenuta, e però molti giudicavano savj coloro, che penavano più a darli denari la prima volta, perchè eglino non aveano a penare anche più a dargliene la seconda. E quando e’ non averle avuto altre azioni contro ad un potentato, gliene avrebbe domandato in presto; e se non gli fossino stati prestati, gli spesi fino allora si sarebbono gettati via. Io vi voglio dare di questo uno verissimo riscontro. Quando Messer Pagolo a’ dì 29. di Marzo fece quella domanda; io, spacciato Francesco da lui, andai a trovarlo col capitolo fatto della petizione vostra, e quando e’ venne a quella parte che dice: non possit Imperator petere aliarti summam pecuniarum &c. voleva che innanzi a petere, si mettesse jure, e domandandolo io perchè, rispose che voleva l’Imperatore vi potesse richiedere denari in prestito, donde io gli risposi in modo ch’e’ si contentò. E notate questo, che dagli spessi suoi disordini nascono gli spessi suoi bisogni, e dagli spessi suoi bisogni le spesse domande, e da quelle le spesse Diete, e dalla sua poca estimazione le deboli resoluzioni, e debolissime esecuzioni.

Ma se fosse venuto in Italia, voi non l’avreste potuto pagare di Diete, come fa la Magna; e tanto gli fa peggio questa sua liberalità, quanto a lui per far guerra bisogna più denari, che ad alcun altro principe; perchè i popoli suoi per esser liberi e ricchi, non sono tirati nè da bisogno, nè d’alcuna affezione, ma lo servono per il comandamento della loro comunità, e per il loro prezzo; in modo che se in capo dì 30. dì i denari non vengono, subito si partono, nè gli può ritenere prieghi o speranza o minaccia, mancandoli i denari. E se io dico, che i popoli della Magna sono ricchi, egli è cosi la verità; e fagli ricchi in gran parte, perchè vivono come poveri, perchè non edificano, non vestono, e non hanno masserizie in casa, e basta loro abbondare di pane e di carne, e avere una stufa, dove rifuggire il freddo. Chi non ha dell’altre cose, fa senza esse, e non le cerca. Spendonsi indosso due fiorini in dieci anni, ed ognuno vive fecondo il grado suo a quella proporzione, e nessun fa conto di quello che gli manca, ma di quello che ha di necessità; e le loro necessità fono assai minori che le nostre, e per quello lor costume ne risulta, che non esce denaro del paese loro, sendo contenti a quello, che il lor paese produce, e godono in quella lor vita rozza, e libera, e non vogliono ire alla guerra, se tu non gli soprappaghi, e quello anco non gli basterebbe, se le comunità non gli comandassino, e però all’Imperatore bisogneria molti più denari, che al Re di Spagna, o ad altri che abbia i popoli suoi altrimenti fatti.

La sua facile e buona natura fa che ciascuno che egli ha d’intorno lo inganna: ed hammi detto uno de’ suoi, che ogni uomo, ed ogni cosa lo può ingannare una volta, avveduto che se n’è; ma son tanti gli uomini, e tante le cose, che gli può toccare d’esser ingannato ogni dì, quando e’ se ne avvedesse sempre. Ha infinite virtù, e se temperasse quelle due parti sopraddette, farebbe un uomo perfettissimo, perchè egli è perfetto capitano, tiene il suo paese con giustizia grande, facile nelle udienze, e grato, e molte altre parti da ottimo principe, concludendo che se temperasse quelle dua, giudica ognuno che gli riuscirebbe ogni cosa.

Della potenza della Magna veruno non può dubitare, perch’ella abbonda d’uomini, di ricchezze, e d’armi; e quanto alle ricchezze e’ non v’è comunità che non abbia avanzo di denari in pubblico, e dice ciascuno, che Argentina ha parecchi milioni di fiorini, e quello nasce, perchè non hanno spesa, che tragga loro più denari di mano, che quella fanno in tener vive le munizioni, nelle quali avendo speso un tratto, nel rinfrescarle spendono poco, e hanno in quello un ordine bellissimo, perchè hanno sempre in pubblico da mangiare, bere, ardere, per un anno, e così per un anno da lavorare le industrie loro, per potere in una ossidione pascere la plebe, e quelli che vivono delle braccia per un anno intiero, senza perdita. In soldati non ispendono, perchè tengono gli uomini loro armati ed esercitati. In salarj ed in altre cose spendono poco, talmentechè ogni comunità si trova in pubblico ricca. Resta ora, che le s’unischino co’ Principi a favorire le imprese dello Imperadore, o che per lor medesime senza i Principi lo voglino fare, che basterebbono. E costoro che ne parlano, dicono la cagione della disunione esser molti umori contrarj, che fono in quella provincia, e venendo ad una disunion generale, dicono che gli Svizzeri fono inimicati da tutta la Magna, le comunità da’ Principi, ed i Principi dall’Imperadore. E’ par forse cosa strana a dire che gli Svizzeri, e le comunità fieno inimiche, tendendo ciaschedun di loro ad un medesimo segno di salvare la libertà, e guardarli da’ Principi, ma quella lor disunione nasce, perchè gli Svizzeri, non solamente fono inimici ai Principi come le comunità, ma eziandio fono inimici ai gentiluomini, perchè nel paese loro non è dell’una nè dell’altra spezie, e godonsi senza distinzione veruna d’uomini, fuor di quelli che seggono nei Magistrati, una libera libertà. Questo esempio degli Svizzeri fa paura ai gentiluomini, che fon rimasti nelle comunità, e tutta la loro industria è di tenerle disunite, e poco amiche loro. Sono ancora nemici degli Svizzeri tutti quelli uomini della comunità, che attendono alla guerra, mossi da un invidia naturale, parendo loro d’esser meno stimati nell’arme di quelli, dimodochè non se ne può raccozzare in un campo sì poco, nè sì gran numero, che non si azzuffino.

Quanto alla nimicizia de’ Principi colle comunità e co’ Svizzeri non bisogna ragionarne altrimenti, fendo cosa nota, e così di quella fra l’Imperadore e detti Principi; ed avete ad intendere, che avendo l’Imperadore il principale suo odio contro a’ Principi, e non potendo per se medesimo abbassargli, ha usato i favori delle comunità, e per quella medesima cagione da un tempo in qua ha intrattenuto gli Svizzeri, con i quali gli pareva in quest’ultimo esser venuto in qualche confidenza, tantochè considerato tutte quelle divisioni in comuni, ed aggiuntovi poi quelle che sono tra l’uno Principe e l’altro, e l’una comunità e l’altra, fanno difficile quella unione, di che lo Imperadore avrebbe bisogno. E quello che ha tenuto in speranza ciascuno che faceva per lo addietro le cose dell’Imperadore gagliarde, e la impresa riuscibile, era che non si vedeva tal Principe nella Magna, che potesse opporli ai disegni suoi, come per lo addietro era stato. Il che era ed è la verità; ma in quello che altri s’ingannava è, che non solamente l’Imperadore può esser ritenuto, movendogli guerra e tumulto nella Magna, ma può esser ancora ritenuto, non lo ajutando; e quelli che non ardiscono fargli guerra, ardiscono levargli gli ajuti; e chi non ardisce negargliene, ha ardire promessi che glie n’ha, di non li osservare; e chi non ardisce ancora quello, ardisce ancor di differirgli in modo, che non fieno in tempo, che se ne vaglia. E tutte quelle cose l’offendono e perturbanlo. Conscersi questo da averli promesso, come è detto di sopra, la Dieta diciannovemila persone, e non se n’esser mai viste tante che aggiunghino a cinquemila. Questo conviene che nasca, parte dalle cagioni sopraddette, parte dall’aver lui preso denari in cambio di gente, e per avventura preso cinque per dieci. E per venire ad un’altra declarazione circa alla potenza della Magna, e all’unione fua, dico questa potenza esser più assai nelle comunità, che ne’ Principi; perchè i Principi fono di due ragioni o temporali, o spirituali; i temporali fono quali ridutti ad una grande debilità, parte per lor medesimi, sendo ogni principato diviso in più Principi per la divisione eguale dell’eredità che gli osservano, parte per averli abbassati l’Imperadore col favor delle comunità, come s’è detto, talmente che fono inutili amici e poco formidabili nemici. Sonvi ancora, come è detto, i Principi Ecclesiastici, i quali se le divisioni ereditarie non gli hanno annichilati, gli ha ridotti a bado l’ambizione delle comunità loro col favore dell’Imperadore; in modo che gli Arcivescovi Elettori, e altri simili non possono nulla nelle comunità grosse proprie; dal che ne è nato, che loro nè etiam le lor terre, fendo divise insieme, possono favorir l’imprese dell’Imperadore, quando ben volessero.

Ma veniamo alle comunità franche e Imperiali, che sono il nervo di quella provincia, dove è denari e ordine. Costoro per molte cagioni sono per esser fredde nel provvederlo, perchè la intenzione loro principale è di mantenere la loro libertà, non d’acquistare imperio, e quello che non desiderano per loro, non si curano che altri lo abbi. Dipoi per esser tante e ciascuna far capo da per se, le loro provvisioni, quando le vogliono ben fare, son tarde, e non di quella utilità che si richiederebbe. In esemplo ci è questo. I Svizzeri nove anni sono assaltorno lo stato di Massimiliano, e la Svevia; convenne il Re con queste comunità per reprimerli, e loro s’obbligarono tenere in campo quattordicimila persone, e mai vi se ne raccozzò la metà, perchè quando quelli d’una comunità veniano, e gli altri se ne andavano. Talchè l’Imperadore disperato di quella impresa fece accordo con i Svizzeri, e lasciò loro Basilea. Or se nell’imprese proprie egli hanno usati questi termini, pensate quello faranno nell’impresa d’altri; d’onde tutte queste cose raccozzate insieme fanno quella loro potenza tornare piccola, e poco utile all’Imperadore. E perchè i Veneziani per lo commercio, ch’egli hanno co’ mercanti delle comunità della Magna, l’hanno intesa meglio che verun altro d’Italia, si fono meglio opposti; perchè s’egli avessino temuta questa potenza, e non se gli sarebbono opposti, e quando pure e’ se gli fossino opposti, s’eglino avessino creduto che si potessino unire insieme, e’ non l’avrebbon mai ferito; ma perchè e’ pareva lor conoscere questa impossibilità, fono stati sì gagliardi come si è visto. Non ostante quali tutti quegl’Italiani, che sono nella corte dell’Imperadore, da’ quali io ho sentito discorrere le sopraddette cose, rimangono appiccati in fu quella speranza, che la Magna si abbia a riunire adesso, e l’Imperadore gettarsele in grembo, e tenere ora quell’ordine di capitani, e delle genti, che si ragionò anno nella Dieta di Coftanza, e che l’Imperadore ora cederà per necessità, e loro lo faranno volentieri, per riavere l’onore dell’Imperio, e la triegua non darà loro noja, come fatta dall’Imperadore, e non da loro. Al che risponde alcuno non ci prestar molta fede ch’egli abbi ad essere, perchè si vede tutto il giorno, che le cose che appartengono in una città a molti sono trascurate, tanto più debbe intervenire in una provincia; dipoi le comunità fanno, che l’acquisto d’Italia sarebbe pe’ Principi, e non per loro, potendo quelli venire a godere personalmente li passi d’Italia, e non loro; e dove il premio abbia ad essere ineguale, gli uomini mal volontieri egualmente spendono; e così rimane questa opinione indecisa senza potere risolversi a quello abbia ad essere. E questo è ciò che io ho inteso della Magna. Circa all’altre cose di quello, che potesse esser di pace, e di guerre tra quelli Principi, io ne ho sentito dire cose assai, che per esser tutte fondate in su congetture, di che se ne ha quì più vera notizia, e miglior giudizio, le lascerò indietro. Valete.

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