Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Traduzione dal tedesco di Carlo De Flaviis (1911)
XIX secolo
Questo testo fa parte della raccolta Pescatori d'Islanda - Re da burla

Ernesto Eckstein


RE DA BURLA


RE DA BURLA


I.


Era il mese d’agosto dell’anno 1810.

Attraverso le finestre spalancate del reale castello soffiava una ristoratrice brezza vespertina. In una delle camere superiori che fanno angolo sedeva Girolamo, il felice sovrano del regno di Vestfalia; e girava l'occhio sulla sua buona capitale di Kassel, le cui torri s’indoravano ai raggi del tramonto.

Non che fosse un rèveur, il piccolo fratello del grande Conquistatore. Ma quel giorno si sarebbe detto che l'incantevole panorama, il quale si spiegava davanti a lui con tanta pompa di splendori, producesse sulla sua anima di re una straordinaria impressione. Nella sua distrazione, rovesciava il capo sulla spalliera del voluttuoso fauteuil. Le mani giunte sul ventre, i piedi stesi sopra un elastico sgabello — tale sedeva egli colà, come una personificazione del dolce far niente, come una incorporata regola di Epicuro, come un re secondo il cuore di Dio. E nondimeno una leggiera ombra di mestizia aleggiava su quell’aspetto di beatitudine: era una sfumatura d’interno malumore, un alito di turbamento, che stranamente contrastava con quella magnifica scena del vicino e del lontano paesaggio.

Improvvisamente dal petto del re si sprigionò un profondo sospiro.

— Comanda qualche cosa Vostra Maestà? — interrogò una voce in fondo alla camera.

Girolamo voltò impercettibilmente il capo.

— Nulla, mio caro Pigault...., — mormorò egli. — Io pensavo soltanto....

Pigault-Lebrun; il bibliotecario e leggitore del re, che s’era tenuto fino a quel punto modestamente in disparte per non disturbare le meditazioni, o il chilo che fosse del suo alto sovrano, fece due passi avanti.

Egli poteva far tanto, perchè nessuno a corte possedeva al pari di lui la confidenza di Girolamo. Una biblioteca propriamente non v’era: del sentir leggere il re non si dilettava troppo; perciò Pigault-Lebrun aveva una carica molto facile, ed egli impiegava le sue ventiquattro ore di libertà, di cui disponeva giornalmente, esclusivamente in affari dell’ordine più elevato di passatempi. Veglie all’italiana, fuochi artificiali, balli, conviti, trattenimenti musicali, avventure d’amore, tutte quante insomma le cure governative della corte di Vestfalia, stavano sotto la sua suprema direzione; e poichè egli spiegava in questo un genio incomparabile, Girolamo gli donava tutto il tesoro del suo principesco amore.

Pigault-Lebrun si trasse dunque innanzi, e disse con un tono melodioso di voce:

— Ah, sire, voi siete preoccupato! Avrebbe mai alcuno avuto la disgrazia di spiacervi in qualche cosa?

La maestà del re scosse il capo.

— No, Pigault; — rispose lentamente — io non ho che a lodarmi e di te e di tutti i miei fidi; ma tu vedi....

E non andò più avanti.

Pigault-Lebrun si accostò di altri due passi, e potè vedere il re pienamente in viso. Quel velo di malinconia che copriva le fattezze già così serene del re, gli produsse una penosa impressione.

— Vostra Maestà è di cattivo umore — disse finalmente con un certo ritegno... — Forse non ha trovato il pranzo d’oggi intieramente di suo gusto?... Ordinerò l’immediato licenziamento del capocuoco.

— Tutt’altro! — mormorò Girolamo. — I miei cuochi sono maestri nell’arte loro; e se non fossero le convenienze, io li innalzerei tutti al grado ereditario di conti.

— Allora la regina avrà fatto qualche scenata? Ah, sire, non v’ha dubbio... la regina....! Io conosco la gelosia di Sua Maestà....

— Sbagli, amico mio.... Dacché l’Imperatore, nostro invitto fratello, ha condotto via a forza la piccola Elena, la regina s’è riconciliata con me. Grazie alle nostre precauzioni, ella non nutrisce più il menomo sospetto.... Ah, fu un tiro infame quello che m’ha giuocato il mio signor fratello!

— Non oso contraddire, Maestà. Tuttavia, sapete bene le convenienze.... Voi siete re, dovete almeno aver riguardo alle apparenze. Quella donnina era passata avanti a Sua Maestà la regina.... Tutta la corte era ai suoi piedi, e la vostra legittima consorte non si faceva più vedere.... Non già che l’Imperatore sia in sé stesso un portento di virtù; ma ci tiene a volere che il mondo non rimanga scandalezzato.... Perdonate l’espressione.

Il re diventato sempre più pensieroso, appoggiò il capo ad una mano, e guardò alcuni minuti fiso davanti a sé.

— Pigault, — disse finalmente — carte in tavola! Che pensi tu delle mie relazioni col mio imperiale fratello?

— A questa domanda è difficile rispondere, sire, — disse il bibliotecario.

— Bando alle reticenze, amico mio.... E lascia una buona volta queste noiose tiritere di sire e maestà, e rispondimi a proposito.... Vedi, io sto mirando questo bel paese che io potrei chiamar mio, se non.... se.... se insomma, fosse mio....

— Io non vi capisco: o che non siete voi il re?

Un amaro sorriso contrasse le labbra di Girolamo.

— Re! — rispose egli con ironia. — Si, re, come il re negli scacchi: un fantoccio al quale può dar scacco matto la prima potenza a cui ne salti il capriccio.

— Come sarebbe a dire, Maestà? — balbettò Pigault-Lebrun.

Girolamo fece spallucce.

— Pigault, — disse — te ne prego, non ti dar l’aria di più stupido che non sei. Tu temi di offendere la mia vanità! Questo te lo potrei menar buono, se noi ci trovassimo nel cerchio dei nostri cortigiani. Qui però la maschera sarebbe un di più. Io ti domando la tua opinione, la tua opinione, senza alcun ritegno, capisci?

— Sì, Maestà, comandate.

— Tu sai — seguitò il re — che io, malgrado tutta la sovranità, non sono che il miserabile schiavo di mio fratello....

— Oh, sire!...

— Ma, te lo confesso apertamente, io incomincio quasi quasi ad averne piene le tasche di questa buffonata. È troppo oggimai che.... questo tiranno si permetta d’ingerirsi nelle mie relazioni private.... Io sono fermamente deciso di dare alla prima occasione un esempio che faccia rumore.... Vuoi tu prestarmi il tuo appoggio?

— lo sono sempre agli ordini di Vostra Maestà — fu la risposta diplomatica del Pigault.

— Che diresti, pensa, se io, senza mettervi nè sale nè pepe, mandassi al diavolo il principe di Paderborn? Quel gaglioffo mi annoia infinitamente colle sue eterne chiacchiere di costituzioni ecclesiastiche e di clero; ed io ti so dire, che questa cosa avrebbe un forte sapore d’indipendenza.

— Ma, e le conseguenze?

Il re curvò la testa con aria di dispetto.

— Bah! — rispose. — L’Imperatore vi si acconcerà vedendo che io sono fermo. Che potrà egli fare?

— Sire, — disse il Pigault con una tal quale circospezione — io credo che vi facciate delle illusioni.... Voi sapete troppo bene che Napoleone non è uomo da lasciarsi menare pel naso; e quanto alla vostra fermezza, perdonat se io non ne ho una grande opinione.

— Tu sei sincero, per mia fede!

— Prego la Maestà Vostra di non fraintendermi. Ma la vostra naturale bontà di cuore, il vostro amore per la pace....

— Sta bene, — mormorò Girolamo — risparmia la tua eloquenza! Credo anch’io che questo colpo sarebbe un tantino arrischiato per un primo passo verso l’emancipazione. Ma non sai tu consigliarmi nulla dimeglio?

In questo momento entrò un cacciatore della guardia, ed annunziò con profonda sommessione:

— Il corriere di Parigi!

Quasi per istinto il re si alzò da sedere. Poco mancò che non corresse egli stesso nell’anticamera per ritirare le lettere; ma si ricompose a tempo, e tornò a sedere.

Intanto Pigault-Lebrun usciva in fretta, e ritornava dopo alcuni secondi con un grosso fascio di carte.

— Giacché non abbiamo nulla di più importante da fare, — disse a Pigault con male affettata indifferenza — tu puoi dare un’occhiata a questa robbaccia, e mi leggerai quello che vi è di più divertente.

Pigault si mise a sedere, e incominciò la rassegna delle carte. — Dispaccio del Ministro dei culti....

— Al diavolo!

— Il Ministro degli affari esteri alla Reale....

— Via, via! 1 — A Sua Maestà la Regina. — Di chi? — Non si può indovinare. Forse qualche amica intima...

— Avanti!

— Una lettera dell’Imperatore a Vostra Maestà. — Di nuovo?.... Che può egli volere? Porgi.... oppure no.... leggi tu forte. Tu sai che io non mi ci ritrovo con quelle zampe di mosca...

Pigault-Lebrun spiegò lo scritto, ed incominciò a leggere:


«A mio fratello Girolamo Napoleone
«Re di Vestfalia.»

— Come? — domandò Girolamo. — Egli scrive «mio fratello?» Vedrai che anche cotesta è una lettera d’accusa! Avanti.

Il bibliotecario seguitò:

«Tutto quello che io sento dire di voi mi fornisce una prova di più che i miei consigli, i miei ordini, i miei comandi non fanno su di voi alcun effetto. Gli affari vi sono di peso. L’obbligo della rappresentanza vi è di noia. Fratello mio, pensate che il mestiere di re vuol essere imparato! Un sovrano senza la debita rappresentanza è un mostro. Voi amate i diletti della tavola. Voi amate le femmine. Or bene, queste due cose saranno la «vostre rovina. Fate come fo io: non più di mezz’ora a tavola, e lasciate le donne da parte.»

— Che impudenza! balbettò a Girolamo fuori di sè.— Che importa a lui se io mi godo o no la vita? Questo non s’è veduto mai dacché il mondo è mondo! Vorrei sapere a che pro sono io re, se non a divertirmi! Poni mente, Pigault, qui si accenna di nuovo ad una delle mie.... amiche!

— Ah, non lo credo!... Noi procediamo con troppe cautele!.... Forse che la vaga Carolina non passa dappertutto per mia moglie? E la contessa tedesca che abbiam fatta venire da Monaco, non è creduta universalmente moglie del medico di corte?

— Ma la piccola Heberti, la ballerina?

— Bah! e non l’abbiamo allogata per cameriera presso la moglie del ministro di giustizia? Non temete, sire. Nessuno può nutrire fondati sospetti.

— Tu vedi tutto color di rose; ma ohimè! io so pur troppo che ogni mio passo è spiato. Chi può annoverare i soffioni che assolda il mio amabilissimo fratello? Noi non siamo più sicuri in nessun luogo, nè meno nelle nostre intime cene....

— Oh, sire, voi siete pessimista. Nel cerchio dei vostri amici non ci son traditori.

— Vorrei che tu avessi ragione! Ma finisci di leggere.

Pigault Lebrun seguitò la lettura:

«Il principe di Paderborn, che io v’ho dato per elemosiniere, scrive al mio ministro dei culti che voi non gli date mai retta, quando vorrebbe parlarvi di affari ecclesiastici. Questo non è ben fatto. Bisogna occuparsi di tutto, anche di religione.»

— Ma questo è troppo! Dovrò lasciarmi intronare le orecchie da quel noioso imbecille, non per altro se non perchè il mio signor fratello ha la follia di credere che ciò appartenga al mestiere? Aspetta, sì! Imparerai a conoscermi! Avanti.

«Voi avete trasferito il vostro ciambellano Merfeldt nell’Annover, perchè v’annoiava con le sue continue prediche sulle convenienze. Vorrei sapere come farete la vostra parte di re, mancando il suggeritore. Desidero che richiamiate subito il detto ciambellano; e che ciò apparisca come fatto di vostro, come fatto spontaneamente.»

— Ma bene, benissimo! — esclamò il re con amarezza. — Veggo bene che la risoluzione di farla finita con questa indegna condizione di cose non è prematura! Avanti.

«Voi trascurate la regina. Forse non è abbastanza ragguardevole per voi? — Perchè non fate conto de’ miei desiderii? Voglio ricevere quanto prima novelle della imminente nascita di un principe.... Gli altri miei ordini li trasmetto direttamente al ministro Simèon. Egli ve li renderà noti. Sono il vostro affezionato fratello

Napoleone

Alle ultime frasi il re, balzando quasi di scatto dal suo fauteuil, diventò di mille colori per la collera. Stringeva i pugni, respirava a fatica.

— Pigault, — esclamò — tu sai che io non m’intendo troppo di stile, nè d’altre siffatte mercanzie letterarie. Ma tu... tu sei un genio. Tu sai tutte le gherminelle dell’oratoria... Tu sei, come si suol dire, un uomo da bosco e da riviera...

— Vostra Maestà ha un concetto troppo lusinghiero di me, — rispose il bibliotecario con un cortese inchino, mentre ripiegava la lettera dell’Imperatore.

— Pigault, — seguitò il re — tu sei l’uomo veramente ad hoc! Tu devi scrivermi una risposta a questi vituperii, ma una risposta coi fiocchi!

— Ma, sire, riflettete..!.

— Nessuna scusa: ti dò la mia parola di re che la cosa resterà fra noi. Scrivimi una lettera, una lettera che l’Imperatore non abbia a riporre dietro lo specchio! Io la trascriverò di mio pugno e ti restituirò l’originale. Nessuno al mondo saprà mai che tu ne fosti l’autore!

— Se Vostra Maestà mi promette davvero....

— Impegno la mia parola, Pigault, la parola d’onore di un re! Te lo ripeto: nessuno sospetterà come siano andate le cose.

— Bene dunque, sire; ma io oserò ancora obbiettare.... Questo fatto potrebbe anche avere le sue tristi conseguenze!

— Sciocchezze! Io sono sovrano, e non devo sopportare le impertinenze di uno straniero potentato. Voglio essere indipendente io! Un’occasione migliore di mostrare col fatto la mia risoluzione non si presenterà mai più. Mano dunque all’opera!

— A domani, sire, se lo permettete. Per un affare di tanta importanza si richiede raccoglimento.

— Come vuoi. Ma tanto prima, tanto meglio. Una pronta risposta produce doppia impressione. — Domattina alle undici avrete la minuta.

— Egregiamente. E ora pensiamo a cacciare ogni mattana. Che hai tu ordinato per stasera?

— Uno stupendo festino nel parco... Lampioni, fuochi artificiali, balli....

— Ah, benissimo! L’aria è mite. Ci divertiremo un mondo.

— A che ora scenderà Vostra Maestà?

— Alle dieci. Prenderò prima un bagno.

Poulet? — No, Borgogna. A rivederci.

II.


Il giorno appresso, di buon mattino, mentre il dominatore di Vestfalia giaceva ancora fra le piume, il valente bibliotecario si pose a sedere davanti alla scrivania, spiegò alla sua sinistra, sul tavolo l’imperiale lettera monitoria e minatoria, e incominciò a studiarla frase per frase, parola per parola, sillaba per sillaba.

Egli voleva imitarne lo stile in tutta la sua concisa originalità e crudezza, in tutta quella sua sublime ingenuità e freschezza, e pagare della stessa moneta ogni verso dello scritto imperiale. Dopo un quarto d’ora di laboriosa meditazione, diè di piglio alla penna, e la fece scorrere in furia sulla carta. In meno di dieci minuti la lettera era terminata. Il Pigault non potè fare a meno di sorrider di compiacenza al suo parto maraviglioso. Pensare che egli, il modesto leggitore della Maestà di Vestfalia, ne diceva di così crude a quel temuto sovrano di Napoleone Bonaparte, gli pareva, questa, la cosa più divertente del mondo! A così fatto sentimento però si mescolava una buona doso d’inquietudine. Egli stesso aveva fatto osservare al Re che Napoleone non era uomo da lasciarsi menare pel naso. Guai all’infelice bibliotecario, se si losse scoperto che egli era stato il vero autore di quell’epistola! Il Cesare, la cui collera sterminatrice aveva precipitato nell’abisso il libraio di Norimberga, poteva bene stritolare anche il confidente di Girolamo! Nella migliore delle ipotesi, tale scoperta recava con sè una più o meno sensibile privazione della libertà; e veramente, dopo aver passato in dulci jubilo tanto tempo nel pomposo castello di Wilhelmaböhe, e come ora si dice di Napoleonshöhe, riusciva un po’ duro l’avere a cambiare quel paradiso con una prigione!

Pigault-Lebrun si rattristò non poco quando questo pensiero gli attraversò la mente. Chiuse adagino la cartella, intascò accuratamente il manoscritto, e poi scese nel parco a respirare l’aria fresca del mattino.

Aveva forse passeggiato un’ora su e giù fra gli olezzanti cespugli, quando si sovvenne che aveva dimenticato di prendere con sè la lettera dell’Imperatore. Subito si diresse verso la sua camera. Nell’andito si scontrò con l’elemosiniere, il principe di Paderborn.

— Ah, così mattiniero, Eccellenza? — disse con un tono di voce che tradiva la sua sorpresa.

— Sicuro, signor bibliotecario, — rispose il principe sorridendo.

— Mi è parso un peccato il perdere un così bel mattino. Del resto, sentite? Battono le nove! Non è poi tanto per tempo! Avete fatto senza dubbio una passeggiata?

Pigault-Lebrun rispose alcune parole insignificanti, ed entrò nella sua camera. Ivi giunto, cacciò nel suo portafoglio la lettera di Parigi, accese un sigaro, e si sdraiò lentamente sul sofà, coll’intenzione di passare il tempo, fino al destarsi del suo signore, nella prediletta occupazione della corte di Vestfalia: Il dolce far nulla.

Ma l’elemosiniere non gli voleva uscir dalla mente. Che diavolo andava cercando costui per l’andito? Il suo appartamento era situato dalla parte opposta del castello, e....

— Io non posso sopportare questa gente intrigante — mormorava tra è. — A conti fatti, qui tutto si riduce a spionaggio. Il re ha ragione da vendere. Qui non v’è più da fidarsi di anima viva. Vorrei sapere se sia fondato il nostro sospetto riguardo al cerimoniere e al ministro di giustizia....

Vigault si abbandonò per una mezz’ora ai voli della sua stravagante fantasia. Egli passò mentalmente in rassegna tutta la società di corte, e dimenava di quando in quando il capo come un uomo non sicuro del fatto suo. Tutt’a un tratto bussarono all’uscio.

Un lacchè del re entrò nella camera annunziando che Sua Maestà desiderava parlare al signor bibliotecario.

— Il nostro serenissimo Re trovasi ancora a letto — soggiunse il messo.

Pigault-Lebrun si affrettò ad ubbidire. Il re era di buonissimo umore.

— Siedi costì — disse Girolamo familiarmente, rizzandosi a sedere sul letto. — Hai adempiuto alla tua promessa?

— Come no? — rispose l’altro a mezza voce. — Ma se Vostra Maestà mi vuol bene, parliamo sommessamente....

Voi, nella vostra qualità di testa coronata, avete poco da perdere, mentre io...

— Benissimo! — interruppe il re a voce bassa. — Se questo può tranquillarti, moderiamo pure il nostro diapason; ma ti assicuro che le tue preoccupazioni sono infondate.

Si dice che i muri abbiano orecchie; ma alla mia camera da letto questo proverbio non è applicabile. I due cacciatori nell’anticamera sono fedeli quanto si può essere: le sale a destra e a sinistra sono vuote....

— Non si può mai sapere, sire, — rispose il Pigault —

attraverso a quali fessure il diavolo afferri uno pel ciuffetto.

— Oggi tu sei un vero filosofo, contro il tuo solito.

Veniamo al fatto. Hai lo scritto?

— Sicuro, Maestà.

— E scritto chiaramente? Tu sai che io non me la dico coi caratteri illegibili. — Credo che Vostra Maestà sarà contenta.

— Vediamo.

Il bibliotecario trasse fuori la carta, e la porse al re., — Uhm, uhm! — fece Girolamo. — Potrebbe essere più chiaro.... Ecco qua dei gran brutti ghirigori e certe zampe di gallina... I — Certamente lo scritto è stato buttato giù molto in fretta — osservò Pigault sorridendo.

— Sai che c’è? Leggimi una volta questa roba, e allora ne verrò a capo in qualche modo.

— Come vuole la Maestà Vostra. Ma permetterete che mi accosti un altro poco, per non esser costretto a levar troppo la voce.

— Santo Iddio, come sei inquieto oggi! — disse il re ridendo. — Che t’è rimasto un poco della spranghetta di ieri? A proposito, il ballo fu magnifico, in parola d’onore! Per poco non dimenticavo di fartene i miei complimenti.

— Vostra Maestà è troppo buona!... Se permettete, incomincio.

— Leggi pure, amico mio.

Pigault-Lebrun si strinse tutto al capezzale del re, spiegò il foglio e lesse a voce sommessa:

«Fratel mio Napoleone, Imperatore dei francesi.»

«Fratel mio?» — osservò il re. — Non mio illustre fratello?» Ah, questo è un po’ forte!

— Sire, — rispose Pigault — i vostri sudditi tedeschi hanno un proverbio, che veramente non si può ammettere a corte, ma che tuttavia è molto espressivo. Essi dicono: «Sanguinaccio per sanguinaccio.» Capite quello che significa?

— Così a un dipresso! Ma mi pare...

— Sentite il resto, se ci sarà da modificare, modificheremo.

«Fratel mio Napoleone, Imperatore dei francesi.

«Ho ricevuto i vostri consigli e li stimo. Quanto ai «vostri comandi, io sono re: io dò degli ordini, non ne ricevo»

— Forte, troppo forte! — mormorava il re — ma bene benissimo!

Il bibliotecario proseguì:

«Voi mi rimproverate di star troppo a tavola; è vero, preferisco ciò ad una vana caccia dietro la gloria. Sono ghiotto, sarà! ma non credo con questo di derogare nè punto nè poco alla mia dignità di re. Rapporto a donne, non so veramente che cosa mi possiate rimproverare su questo punto. Vi lamentate del mio contegno verso la Regina... Vostra Maestà poteva costringermi a sposarla, ma non ad amarla. La regina è ragguardevolissima, ma non m’avete ripetuto a sazietà che nulla v’ha di troppo grande e di troppo ragguardevole per il fratello di Napoleone? Mi rimproverate che non osservo abbastanza il decoro di una rappresentanza conveniente alla mia posizione. Sappiate che la rappresentanza è anzitutto noiosa; e non s’addice troppo bene alla mia figura ed al mio garbo esteriore — due cose che nella nostra famiglia possediamo tanto io quanto....»

— Codesto è un colpo maligno che lo toccherà sul vivo — disse Girolamo con un sorriso malizioso. — Affè mia, tu sei un mordace satirico, Pigault! Bisognerà che mi guardi dal cadérti in disgrazia.

Il bibliotecario si mise a ridere; quindi continuò:

«Del rimanente io mantengo la mia corte sull’esempio della vostra: mi vesto persino come voi; che volete di più? — Il principe di Paderborn mi fa sbadigliare con le sue eterne prediche e le sue messe interminabili. Io lo manterrò, poiché Vostra Maestà me lo ha dato; ma nulla mi obbliga a parlare con lui di affari ecclesiastici e di altre cose, delle quali nulla intendo, e non voglio intendere nulla. Queste cure le lascio al signor ministro dei culti. — Quanto a Merfeldt, se non è un gradevole ciambellano è un ottimo amministratore, e per questo l'ho nominato prefetto dell’Annover. Del rimanente, piacemi scegliere, secondo le mie necessità del momento, le persone destinate al mio servizio personale. — Firmato: Girolamo Napoleone.»

— «Firmato?...» esclamò il re. — No, no, questa parola leviamola. E’ troppo burocratica.

— Allora scriveremo: «Gradite l’assicurazione della mia stima più distinta».

— Con cotesta formula si salutano i propri sudditi.

— «Vostro fedelissimo fratello....» Che vi pare di quest’altra?

— Egregiamente! Questa non viene a dir nulla. Scriviamo: «Vostro fedelissimo fratello.»

Il re, stando sempre a letto, si fece dare il foglio, e lo rilesse con molta attenzione. Poi lo mise sotto il guanciale, e licenziò il bibliotecario.

Girolamo si fece vestire; e dopo colazione, non avendo nulla di meglio da fare, si diè a ricopiare la lettera di Pigault. Lacerò due o tre fogli, e finalmente il quarto riuscì di sua soddisfazione. Mentre sigillava l'audace scritto, le sue labbra si atteggiarono ad un maligno sorriso.

— Senza dubbio, — mormorava tra sè — questo farà un grand’efletto! Darei un'occhio del capo, se potessi godermi ii suo aspetto confuso e lo scoppio della sua collera! Prima o dopo bisognava pur venire ad una rottura!

Io voglio mostrare all’Europa stupefatta, che non sono quello che sembro.

Autonomia, indipendenza, dignità — sono queste le condizioni indispensabili alla reputazione di un trono! Io non sto qui per reggere lo strascico al mio signor fratello.

Aut, aut! Il dado è tratto!

E con questa disposizione d’animo, porse la lettera ad un cacciatore della guardia, con ordine di consegnarla immediatamente al corriere.

Poche ore appresso lo scritto fatale era in cammino.

III.


Quindici giorni erano passati.

Alle torri della città di Kassel suonava la mezzanotte.

I buoni sudditi del potentato di Vestfalia dormivano il sonno dei giusti. La guardia notturna camminava malinconica per le deserte vie, fumando la sua corta pipa dal cannello di visciolo.

Ma nel così detto Salone turchino di Napoleonshöhe non regnava tanto silenzio. Sedeva qui una piccola ma scelta brigata intorno ad una tavola bene imbandita. Erano ormai al dessert. Magnifici frutti, finissimi biscotti, sciampagna spumante, ed altri indispensabili ingredienti di un lussurioso banchetto spandevano intorno una fragranza inebbriante. Con ardita spontaneità i bicchieri si urtavano l’uno contro l’altro. Quel tumulto di voci era interrotto soltanto dagli scoppi di risa o dall’armonia di un’allegra canzone. In una parola, il Salone turchino era un’altra volta testimonio di una di quelle intime cene che incominciavano verso le undici, e per solito duravano fino alle tre ed alle quattro del mattino.

— Alla salute del re! — gridò una piccola dama dagli occhi glauchi ed abbigliata con sfarzo.

Prese il bicchiere, lo portò alle labbra, e lo vuotò in un fiato.

— Angiolo mio dolcissimo! — bisbigliò il re, mentre le circondava col braccio la vita. — Avrai un bacio in ricambio.

La dama si schermì.

— Santo Dio, come sei ritrosa! — esclamò Girolamo ridendo.

— Che ti frulla pel capo, mia Lilì? Noi siamo qui in famiglia! Non è vero, Fürstenberg, che la nostra piccola Heberti non deve, per riguardo vostro, imporsi alcun freno?

La compagnia rideva sotto i baffi. — La nostra amabile amica — rispose l'interpellato — avrebbe poco giudizio, se per qualsiasi riguardo volesse resistere alle lusinghiere dimostrazioni di favore della Maestà Vostra.

— Grazie al cielo, noi non siamo borghesucci tedeschi! — aggiunse il conte di Yinzingerode.

— Hai inteso, Lilì?... — Fürstenberg, mostrate a questa piccina come si fanno le cose. Baciate la vostra Melania!

Il cavaliere, che, malgrado il nome tedesco impostogli, era rimasto un vero e schietto parigino, gettò il braccio, senz’altro dire, intorno al candido collo della sua vicina, e le scoccò tale un bacio sulle vermiglie labbra che si sentì per tutta la sala.

— Ah, così non va bene, caro Fürstenberg! — scappò fuori Pigault-Lebrun con un comico aggrottare di ciglia.

— Voi fate crepare d’invidia ciascuno di noi che non ha tanta fortuna!

— Ognuno fa quello che può; non è vero Melania i — Et bien, Lilì? — domandò il re.

— Già vi ho avvertito che per due giorni vi terrò a stecchetto — rispose l’altra un poco ingrugnata.

— Come, come? — gridarono tutti in coro. — Una lite? una rottura? Per poco si direbbe un alterco matrimoniale!

— La nostra tortorella è un tantino cocciuta! — esclamò Girolamo tracannando un bicchiere di vino spumante.

— Cocciuta no, ma risoluta! — replicò la signorina Heberti.

D’altronde.... anch’io ho chiesto un favore a Sua Maestà, che mi è stato negato.

— Oh, ma questo è inaudito, sire, — disse Vinzingerode ridendo. — Come potete rifiutar qualcosa a un angelo di questa fatta?

— Un re, miei signori, non è sempre in tutte le cose un sovrano! Vi sono dei riguardi....

— Ma di che si tratta dunque? Noi non sappiamo nulla...

— Una bagattella, — disse Lilì imbronciata. — Io pregai il re di licenziare il conte di Paderborn. — Ah, l’elemosiniere! — esclamò Fürstenberg. — Sgradevole persona!

— Una spia! — soggiunse la signorina Heberti rincarando la dose.

— Che ti frulla pel capo, Lilì? — balbettò Girolamo.

— Una spia vi dico. L’interesse di noi tutti richiede che voi gli diate al più presto il benservito.

— Impossibile!

— Impossibile? O che non siete voi il re?

— Tu dici bene, ma...

— Ma che cosa? Qui non c’è ma che tenga!

— Eh via! Pensa un po’... sai pure... Sua Maestà l’Imperatore...

— L’Imperatore? Che ha da fare l’Imperatore con voi?

— Egli ha... egli è... Rifletti...

— Ah, sire, — esclamò la fanciulla con una espressione di fierezza che le animò il viso — si vede bene che voi non sapete che noi donne richiediamo in primo luogo dagli amanti risolutezza, energia, indipendenza, coraggio, perchè il nostro affetto non debba vacillare...

I convitati si guardavano l’un l’altro in faccia, come per interrogarsi a vicenda se questo discorso della exballerina fosse fatto per giuoco o sul serio.

Vi fu un momento di penoso silenzio. Si vedeva che il re soffriva. Nessuno voleva rompere il ghiaccio. Temevano di peggiorare anche più con una conversazione fuor di luogo, la cattiva impressione prodotta dalle parole di Lilì.

— Signorina Heberti, — disse finalmente Girolamo non senza amarezza — spero di darvi tosto una prova, e forse fin da domani, che i vostri rimproveri hanno sbagliato indirizzo. Se io in qualche particolare ed importante occasione mi attengo ai consigli del mio imperiale fratello, questo avviene di mia libera volontà. Che io a tempo e luogo, sappia essere indipendente, energico, risoluto, non avreste dovuto metterlo in dubbio. Ma poiché sembrate dubitarne, posso dirvi che fra pochi giorni sarò in grado di farvi concepire di me una migliore opinione. Tenetevelo a mente, signorina Heberti!

Il re aveva dato la stura a questo lungo discorso con tanta dignità, forza e chiarezza che Lilì quasi atterrita abbassò gli occhi. Forse sentiva di essersi spinta tropp’oltre.

Girolamo diè al suo bibliotecario un’occhiata d’intelligenza.

Al povero Pigault venne in mente la lettera a cui il re faceva allusione. Da un giorno all’altro poteva arrivare la risposta, e il misero bibliotecario non si nascondeva che questa aspettativa esercitava sul suo spirito una angosciosa oppressione. In questo punto si senti nell’anticamera un vivo scambio di parole.

Tutti ascoltarono sorpresi.

— Io ho gli ordini più precisi — diceva uno dei cacciatori della guardia.

— Ed io ne ho dei più precisi ancora — rispondeva una voce risoluta. — Alle corte! In nome di Sua Maestà l’Imperatore dei francesi, lasciatemi passare!

Girolamo impallidì. Pigault-Lebrun diè di piglio al bicchiere per nascondere il suo turbamento.

— Lasciate almeno che io avverta prima Sua Maestà di Vestfalia — balbettava il cacciatore della guardia. — Chi devo annunziare?

— Il governatore di Danzica! — fu la risposta.

Dopo mezzo minuto si apriva la porta del Salone turchino ed il governatore, accompagnato da un ufficiale della guardia, entrava nel sancta sanctorum.

Non si sentiva uno zitto.

L’inviato dell’Imperatore strisciò una riverenza con garbo cavalleresco, e poi indirizzandosi al re:

— Sire, — disse — io devo adempiere a una commissione in sommo grado spiacevole. Girolamo diventò bianco come un cencio di bucato, Pigault Lebrum stava là seduto come una cosa balorda, allacciandosi i manichetti.

— Questa commissione — proseguì il governatore di Danzica, m’incarica di informarvi che io lasciai Sua Maestà in uno stato di eccitazione e di collera che non saprei descrivere...

— Ma, di grazia, signor mio — scappò a dire Fürstenberg, incrociando le braccia sul petto — questo non è nè il tempo nè il luogo per esporre simili ambasciate.

— Mi duole fino all’anima — rispose l’altro freddamente — di essere così sfortunato da dover interrompere il vostro geniale banchetto; ma io agisco in conformità agli ordini espressi del mio alto sovrano.

Il re aveva talmente perduto la bussola, che non pensò ad offrire una sedia al governatore, tanto meno un bicchier di vino. In quella vece, afferrò egli per conto suo la tazza, e, per disperato, ne tracannò un buon sorso.

Vinzingerode lanciava allo straniero invasore degli sguardi atroci.

La piccola Heberti mirava ora il governatore, ora il suo real protettore. Un sorriso di motteggio errava sulle sue rosee labbra.

— Sire, — proseguì l’ambasciatore — perchè voi non farete un carico al messaggier di quanto possa esservi di acerbo nel messaggio; e mi avrete per iscusato se io qui in virtù delle severe istruzioni ricevute, leggerò il seguente ordine di gabinetto dell’imperatore, scritto di suo proprio pugno....

— Oh, per nulla! — balbettò Girolamo nella massima angoscia. — Vale a dire.... Voi sapete.... Non si potrebbe passar di là in quel gabinetto?....

— Mi dispiace, sire... Gli ordini di Sua Maestà sono formali. Voi dovete permettere che questi signori siano involontari testimoni di una scena che non è meno ingrata per me, di quello che possa essere per voi. Il re abbassò il capo, come persona risoluta ad abbandonarsi del tutto al corso degli avvenimenti.

— Ma questo è troppo! — esclamò Fünstenberg.

Il governatore si strinse nelle spalle.

— Ve lo ripeto, non è mia colpa — rispose: Il decreto dice cosi:

«Ordine di Gabinetto dell’Imperatore.

«Il nostro aiutante di campo, generale Rapp governatore di Danzica, partirà tosto alla volta di Kassel; e ivi giunto, chiamerà a sè il colonnello Muller, comandante della guardia reale. In compagnia del detto Muller egli si recherà dal re senza metter tempo immezzo, «ed a questo ufficiale consegnerà in guardia Sua Maestà.

Il re starà quarantotto ore in arresto. Pigault Lebrun, autore della goffa lettera che Nostro fratello ci ha scritto, sarà messo in prigione per due mesi; e verrà poi condotto in Francia sotto buona scorta. Al nostro aiutante di campo diamo piena facoltà di richiedere il concorso delle truppe di Vestfalia, caso mai, per effetto di un cieco delirio, si avesse intenzione di contrastare l’esecuzione dei nostri ordini. — Firmato:

Napoleone».

Girolamo si lasciò andare annientato sul suo fateuil. Pigault-Lebrun aggrottava le ciglia, e stringeva i pugni.

Fürstenberg e Vinzingerode avevano perduto la tramontana.

Melania piangeva. La piccola Heberti gettò uno sguardo d’infinito disprezzo sul suo amante, e si levò fieramente da sedere.

— Allora noi non abbiamo più nulla da far qui! — osservò freddamente. — Signor comandante fate l’obbligo vostro.

L’aiutante di campo dell’Imperatore tolse commiato, e Girolamo se n’andò barcollando in compagnia del colonnello Muller nelle sue stanze, per non lasciarle se non dopo scontata la pena. La facoltà, data dall’Imperatore al generale Rapp, di richiedere le truppe in caso di bisogno, era una misura affatto superflua. Il buon Girolamo ubbidì da fanciullo bene educato: la sua anima pacifica era ben lontana da quel «cieco delirio» che l’altissimo decreto credeva dover provedere. Ah, se i devoti sudditi del re avessero avuto anche un leggiero sospetto dell’inaudito spettacolo, di cui era teatro il palazzo reale, e di cui era vittima eroica il loro amatissimo Girolamo! E’ pur bene che il volgo non sia iniziato a tutti i segreti della diplomazia!

Pigault-Lebrun fu gettato in prigione. Un successivo ordine dell’Imperatore vietò a tutto quanto il personale di corte di far visita al carcerato. 11 re scrisse al suo severo fratello una lettera umilissima, con la quale domandava mille volte perdono, ed implorava la liberazione del suo confidente. Invano. L’Imperatore gli fece rispondere che Pigault sconterebbe i suoi due mesi, e poi subito lascierebbe il paese. Dopo lungo pregare, finalmente accordò al re di poter seco ritenere il bibliotecario, a condizioni che questi si acconciasse a prolungare di un altro mese la sua prigionia. A Pigault non parve vero.

La vita nella corte di Vestfalia gli pareva degna di ogni sacrificio.

11 22 novembre del 1810 terminò il suo martirio. Pallido e dimagrito, si presentò davanti al suo signore con un sorriso mestissimo.

— Non è vero, sire, che di qui innanzi ci penseremo due volte prima di consegnare una lettera alla posta?

Girolamo sospirò.

— Tu l’hai espiata duramente, amico mio; — balbettò costernato — ma io pure fui colpito al cuore da una grave sciagura....

— Cioè, sire, le quarantott’ore...?

Il re si accostò al leggìo, e ne tolse un bigliettino color di rosa.

— Leggi — disse — questo me lo ha scritto la più amabile, la più attraente, la più fedele delle mie amiche, il giorno stesso della mia cattura.

Pigault lesse. Il biglietto era così concepito:

«Sire, Io abbandono Voi e il vostro paese per sempre. Mi sono miseramente ingannata nel giudicarvi. Se mi posi sotto i piedi i doveri che c’impongono e la propria coscienza e il riguardo alla opinione pubblica, se mi condussi a far da schiava presso uno dei vostri cortigiani, non fu per altro se non perchè vi amavo — vi amavo con tanta verità e fervore quanto può amare soltanto una donna! Questa confessione se non mi giustificherà agli occhi vostri, varrà almeno a scusarmi. Ma io non vi conoscevo: vi credevo nobile, fiero, cavalleresco; ora mi sono persuasa del contrario. Vi disprezzo».

                                          «ELISA HEBERTI».

Pigault-Lebrun non aggiunse verbo, e a occhi bassi restituì la lettera al re.

Girolamo la richiuse di nuovo, e poi disse con un fil di voce al suo bibliotecario:

— Adesso veggo che non si può navigare contro corrente! Il tuo proverbio «sanguinaccio per sanguinaccio» può passare pei nostri contadini Assiani, ma non già per la famiglia Bonaparte.

Disse, e se n’andò; e rimase poi sempre un fratello ubbidiente.

FINE.

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