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RILEGGENDO “MALÌA


Per i giovani musicisti della nuova generazione, l’ultimo decennio del secolo diciannovesimo — definito per antonomasia la primavera della nuova arte musicale — passa quasi inosservato.

Potremmo dire più sinceramente che è già quasi obliato, se non ci trattenesse un senso di timorosa prudenza germogliato dalla constatazione — non so se più consolante o più amaramente ironica — di certi risvegli tardivi e pressochè inusitati nel gusto del pubblico, il quale ha via via lampi di desideri nostalgici e ritorni indimenticati verso quella pura tradizione nostra, che è riflessione di stati d’animo superlativamente inspirato ed estrinsecazione di sincerità vera.

Quella certa stabilità che allora pareva dovesse conservare l’arte musicale italiana fino alla meravigliosa evoluzione verdiana, sboccò tutto a un tratto in un verismo provinciale che, secondo valutazioni errate, avrebbe dovuto essere il punto di riferimento di una nuova concezione dell’arte e quindi di una nuova estetica musicale. L’influenza mascagniana aveva fatto passare quasi inosservato l’apice della ascensione artistica di Giuseppe Verdi, perchè il «fattaccio» di cronaca quotidiana aveva cominciato a stendere un velo di incomprensione sul significato altissimo dell’ultima parola verdiana.

E se «Falstaff» a sei lustri di distanza dalla sua apparizione riesce ancora incompreso a molti italiani, lo si deve anche al fatto che quel periodo non è stato confortato da una calma ed onorata vecchiaia e quindi non ha avuto una conclusione naturale.

Perchè la divergenza verista affiorata improvvisamente sul decadentismo ottocentesco, trovò contro la sua spinta iniziale una corrente opposta nell’impressionismo che già aveva cominciato a far capolino, riuscendo poi a travolgere anche quel po’ di Wagnerismo rimasto latente malgrado l’infiltrazione incontenibile e la base solida che si era ormai costruita in Italia.

Cosicchè all’inizio del ventesimo secolo noi vediamo scomparire non solo la parentesi verista, ma anche il pericolo teutonico a base di leitmotiv e di pesantezza sonora. La conseguenza fu naturalmente questa, che l’ultimo slancio di ispirazione del genio di Busseto non trovando motivo di paragone con la nuova concezione musicale dell’ultimo decennio non completamente sviluppata ma allacciandosi ai giocondo spirito rossiniano, rimase senza eco, mentre la nuova corrente che faceva capo a Mascagni di «Cavalleria» scompariva completamente nel giro di pochi anni e con essa, venivano anche a mancare i tentativi dignitosi di Giordano, di Cilea. ecc.

Ma il periodo, per quanto di breve durata, ebbe allora frutti insperati e conserva tuttora, dopo il trapasso dei tesori nascosti.

Il verismo sulla scena aveva fatto accapponare la pelle a quella parte di pubblico italiano meno adusato alla violenza del carattere e più incline alla irrealtà sdolcinata, cosa del resto che è nella stessa essenza dell’arte musicale.

Ma nelle regioni meridionali dove l’elemento ideale è tutto intessuto di tragicità e di violenza, il verismo trasportato sul palcoscenico, centuplicava la sensazione della realtà, riuscendo a trascinare e a conquidere la massa. E se si riflette che l’anima popolare del mezzogiorno canta per istinto, per natura, per necessità dello spirito, ben si deduce che un’arte basata su elementi melodici, folkloristici e passionali è forse l’unica che risponda alla comprensione di quel popolo.

Arte regionale, ne conveniamo pienamente, ma arte nel senso assoluto della parola, arte che sa sceverare i sentimenti più reconditi, che sa dire una parola propria, che sa trascinare.

Pensavo a tutto questo rileggendo quel mirabile finale secondo di «Malia» la bella opera di F. Paolo Frontini, la scena cioè in cui tutti gli elementi tragici, passionali, idealmente amorosi e superstiziosamente violenti, culminano nella maledizione estrema al simulacro della Madonna, trascinato sotto le finestre di Jana dal popolo devoto e orante.

Grido infernale di dannazione, schianto angoscioso di folle insania contro la fede immensa che sovrasta, meravigliosa di luce infinita e terribile di castigo immediato, sul cuore dei popolani accodantesi dietro la croce di Cristo, muti dinanzi al mistero della Divinità.

Scena di verismo crudo, brutale, che è però fatale conseguenza di passione soffocata, annientata dalla inesorabilità del destino, che si accanisce contro un’anima fragile, sensibilissima.

La musica coglie appunto il senso più dolce della tragedia umana e descrive il tumulto delle passioni in un canto che si snoda a sussulti e a singhiozzi e a frasi larghe di disperazione e di violenza in cui però predomina sempre il cuore.

Il popolo siciliano è unico nell’offrire questo strano contrasto di dolcezza tragica e violenta!

C’è forse bisogno di ricorrere al pletorico, all’assordante, a tutti i mezzi di cui dispone la scienza per descrivere il dramma che si compie in un minuto?

L’anima siciliana si ribella alla confusione: semplice, lineare, tanto nell’intrecciare un idillio quanto nel conchiudere una partita «d’onore», ha bisogno solo di chiarezza e di comprensione.

L’arte deve essere la sua. I canti devono essere i suoi, l’espressione deve dire tutta la forza di sentimento che si nasconde nel cuore per il quale sentimento non ci sono finzioni, nè restrizioni, ma deve sgorgare puro e semplice come lo zampillo che spunta fuori dal crepaccio di una montagna.

Verismo, sopratutto!

Ecco perchè il fortunato tentativo mascagniano di portare sul teatro di musica il rapido dramma di Giovanni Verga trovò salde e profonde radici nel mezzogiorno, dove parve sollevare d’un tratto un’ondata di passione ardente.

Ma la concezione frontiniana, se si riallaccia per un momento al tentativo verista, si distacca profondamente, come essenza e come idealità, da tutto ciò che di caduco e di convenzionale si trova inevitabilmente in questo genere.

Per capir questo, bisogna partire da un punto di vista completamente diverso di quello di coloro i quali trovarono una facile via di ispirazione in una espressione artistica, che sembra a prima vista accessibile anche ai più refrattari.

La descrizione della vita vissuta e l’estrinsecazione dei sentimenti che si agitano, può suggerire è vero, mezzi facili di espressività artistica ma trascina spesso al convenzionalismo volgare e insufficiente per assurgere a dignità di arte; convenzionalismo del resto, che rimane confinato in un vicolo cieco senza speranza di espansione e di conquista.

Ma nell’arte di F. Paolo Frontini, oltre alla sincerità evidente di una ispirazione non contagiata da influenze discutibili, noi abbiamo elementi tali di colorito regionale e slanci di passionalità tutta siciliana, da farci considerare la sua Malia non alla stregua di altre opere dello stesso genere ma, presa isolatamente, come il prodotto più spontaneo di un’arte tipicamente genuina.

La semplicità dei mezzi di espressione è la sola che potesse mettere in rilievo tutta la forza di ispirazione, che si rivela in una linea ininterrotta di melodicità veramente sentita; l’elemento folkloristico, di cui è tutta imbevuta quest’opera d’arte aggiunge al pregio della spontaneità un valore intrinseco come esempio tipico di arte regionale, e il dramma della superstizione e dell’amore accentua quel senso di umanità che sulla scena ogni tanto non fa male.

È inutile cercare nella musica di F. Paolo Frontini la dissertazione, la ricercatezza studiata, la pedanteria accademica, la confusione, la stiracchiatura fatta coi denti.

Tutta la sua produzione, dai piccoli componimenti per pianoforte all’«opera», reca un’unica impronta. La fonte di ispirazione è una sola, come unico diventa il mezzo di tradurre in espressione sonora il senso intimo della propria spiritualità.

Il tragico e l’idilliaco sboccano sempre in frasi melodiche, che traducono l’affanno e la calma. La concitazione è melodia, come è melodia l’amore.

I sussulti nervosi, isterici, non diventano pesantezze armoniche o pletoricità orchestrali: contrasterebbero non solo con la natura dell’artista ma sarebbero in contradizione col folklore siciliano.

Il popolo, laggiù, canta dinanzi alla morte nella stessa guisa con cui scioglie il suo inno quotididiano al sole perenne che sembra eternare la vita.

A trenta e più anni di distanza Malia, nella sua veste semplice e tipica trascina alla meditazione e, per chi sente scorrere nelle proprio vene tutto il calore del sangue generoso, par che il profumo di zàgara si espanda nell’aria come per mitigare la nausea della caducità delle cose di questo mondo.

Ma c’è l’ammonimento severo, ed è questo, che se l’arte di Scarlatti o di Vincenzo Bellini diventò arte nazionale, anche l’opera folkloristica può offrirci un motivo di evoluzione e un modello sincero di espressione spirituale popolare.

Se non fosse per tutto quanto è stato detto avanti, Malia ha questo grande pregio indiscutibile, di essere per noi una fonte preziosa alla quale si può attingere se si vuole conoscere veramente l’anima musicale siciliana, di cui F. Paolo Frontini è il più degno rappresentante.

Nella evoluzione che si compie ineluttabilmente, soltanto l’oblìo è imperdonabile nelle cose belle.

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