< Rime disperse
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XIX
XVIII XX


 
Spirto cortese, che, sì bella spoglia
lassando in terra, sei salito al cielo
per le degne virtù che ’n te fur sempre,
perché accendesti d’ uno ardente zelo
5così fervidamente ogni mia voglia,
che mi fur grate l’ amorose tempre;
tanto, lasso, convien ch’ io mi distempre,
desïando venir là ove sei gito,
per lo tuo dipartir da noi sì presto,
10c’altro esser più molesto
del mio non è, né di peggior partito;
ché poi che mia speranza in tutt’ è morta
di riveder la luce alma e soave
che solea uscir da que’ begli occhi fòre
15che per sua stanza tenne un tempo Amore,
e d’ udir il parlar che par non have
d’ altro saper, il mio pensero apporta
a l’ alma mia, c’ ognor più si sconforta
di star al mondo, un sol fermo desio:
20morir, per rivederti, ogni ben mio.

Solamente per te m’ era sì grata
questa vita mortal, fragil, noiosa,
spirto, più che mai fosse altro, gentile,
per la dolce tra noi fiamma amorosa
25e di nostri desii la speme usata.
Poi che, lassando questo loco umile,
possiedi il ciel, conviemmi cangiar stile,
e là dove di star desiava al mondo
per contemplar il tuo leggiadro volto,
30in cui sempre raccolto
era ’l ben mio, ch’ io veggio or posto al fondo,
d’ uscirn’ io prego, e veder presto il fine
del mio esser qui rimaso in tant’ inganni.
Lasso, che fòr d’ ogni credenza, privo
35son di quel lume risplendente e vivo
che soleva addolcir tutti i miei affanni,
da quelle luci uscendo alme e divine,
che alla calda stagione et alle brine
con un solo voler fermo e sincero
40tenne fiso in madonna il mio pensero.

Oh disaventurata sòrte mia!
Un picciol marmo copre quelle membra
c’ oltra ’l corso mortal facevan bella
colei, che giorno e notte la rimembra
45il pensier stanco e sempre la desia.
E certo, ben che veder non posso ella
in questa vita, ahi!, empia Morte fella,
non ti mosse a pietà quella beltate
c’ allor allor fioria negli anni suoi?
50Securamente pòi
dir che né ’n questa et in null’ altra etate
la falce tua fior sì leggiadro colse.
Almen, poi che di tòrlo a te pur piacque,
non fosse io qui rimaso lacrimando
55e di quïete e di riposo in bando!
Quel dì che la mia donna morta giacque,
tanto questa alma mia di te si dolse,
invida, strana Morte, che si volse
sùbito disperata da ogni canto
60ad un, senza alcun fine, amaro pianto.

Fatti son gli occhi miei duo vivi fonti
pel tanto lacrimar la notte e ’l giorno,
e non fien mai, per quel ch’ io veggio, asciutti,
se pria, lassando lo mortal soggiorno,
65non mi dà il mio destin che là su monti,
ove son gli altri lieti spirti tutti
intorno a te, bella alma, ricondutti,
com’ al valor che dimostrasti in terra,
in che sempre tenn’ io fisa mia spene,
70iustamente convene.
D’ ogni martiro, in l’ amorosa guerra,
pòtemi un sol de’ sguardi tuoi far casso;
ma quel c’ ora m’ affanna così forte,
poi che ’l tuo lume riveder non posso,
75da l’afflitto mio petto esser pò scosso
per l’ aspra solo inesorabil Morte;
e, a quel ch’ io provo in questo viver basso,
non si trova del mio spirto più lasso,
ch’ io son di me sol per affanno trarne
80quanto al mondo vivrà questa mia carne.

Non piango il tuo salir al santo coro
ne l’ empirëo ciel, spirto beato,
anzi ne godo, perché uscito sei
di questo sì angoscioso mortal stato;
85ma grido solamente e discoloro,
ché la mia pace e ciascun ben perdei
quel dì che ti partisti da colei
che stampata ritengo in mezzo ’l petto
con li sembianti suoi piatosi e casti,
90e me quivi lassasti
per mai più non gustar alcun diletto.
Rivemmi alla memoria quel sospiro
che da me trasse nel principio il strale
c’uscìo da quei begli occhi lucenti,
95e quei pensier che seguìr poi sì ardenti,
che, come piacque al mio destin fatale,
di soverchio piacer tanto invaghiro,
che, non potendo scerner il martiro,
solamente pascevan di dolcezza,
100et or son fatti colmi di tristezza.

Come il giorno sarebbe senza luce
e senza lieti fior la primavera,
tal è senza vaghezza ora quel loco
ov’abitar solea la donna altera,
105che fu, vivendo, di mia vita duce;
partendo ella, partì seco ogni gioco,
e l’ aër cominciossi a poco a poco
ad oscurar, e non si vider piante
fiorir più d’ indi né verdeggiar l’erba,
110ch’esser solea superba
mentre era tocca da sue vaghe piante.
E se insensibil cose fan palese
per la morte di lei tanto suo affanno,
che debb’ io far, ch’ io son pur d’ uman senso
115et a tutt’ ore intensamente io penso
del mio sì grave inestimabil danno,
altro che pianger? Ché mie voglie accese
nel suo morir fur per tal modo offese,
ch’ io pèrsi di gioire ogni speranza
120in tutto ’l tempo che star qui m’ avanza.

Canzon, c’ hai tanti affanni, riman seco,
né ti curar di gir molto fra’ lieti
a cui sia l’ amoroso esser felice,
ché star ov’ è piacer se te disdice,
125e poi del pianto gli occhi miei n’ acqueti.
So che del mio dolor assai ven teco,
ma mille volte e più restane meco.
Chi sa, ti legga, qual martìr si prova
da chi fòr di speranza esser si trova.

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