< Rime disperse
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XVIII
XVII XIX


 
Che pensi e indietro guardi, anima trista?
Tempo è da chiuder gli occhi,
almen per non veder cosa men bella.
Partito è ’l sol che ne solea dar vista,
5e par che non li tocchi
alcun pensier di te, sua fida ancella;
ché l’ una e l’ altra stella,
le gemme e l’ oro, la neve e le rose
ne sono in tutto ascose
10per lo suo dipartir; e ’l dolce viso
ha tolto agli occhi nostri il paradiso.

Vago giardin, tu sai ben quanto è grave
il mio danno, anzi il nostro;
c’ avemo ambi perduto un sì bel fiore.
15L’äer vicin, che pien d’ odor su5ave
rasserenava il chiostro,
turbido è fatto; e ben mostrò dolore,
perché sentiva amore,
ogni fior sottoposto a sì bel piede,
20e dove ella si siede
e ’l delicato lembo a l’ erba sparse.
Chi non l’ ebbe si dolce, e chi l’ ebbe arse.

Partita è la tua gloria, e tu tel senti,
che, mentre ella gioiva
25ne l’ albergo gentil, tuo pregio fue:
or tu ten piangi al suon de’ miei lamenti,
ché ’l sol di sé ti priva
e già vanno in oblio le laude tue.
Io, vinto da le sue
30luci, rimango cieco e senza appoggio:
così di poggio in poggio
vo contando a le selve i miei martiri,
rompendo il ciel con più caldi sospiri.

Aimè, che ’l saggio e grazïoso volto
35altronde ognun contenta
col chiaro lampeggiar di suoi bei rai:
e ’l mio cor porta a le sue trecce involto
e dì e notte il tormenta,
e tal che insino a qui sento i suoi guai;
40per che io non spero omai
di vederlo mai più, come già il vidi.
Ahi, alma, in che ti fidi,
s’ ogni nostro piacer passa e non dura
e in queste opra mortal tutto è ventura?

45Caldo pensier mel forma inanzi, come
chi nel suo albergo torna,
e parmi ognor udir sua voce altera;
vedo il bel ciglio, ov’ è dipinto il nome
che nel mio cor soggiorna,
50credendo esser in ciel, come dianzi era.
Poi ch’ io comprendo vera-
mente esser dilongato il mio conforto,
freddo, attonito e smorto,
come uom fatto di marmo, alor divento,
55vedendo il mio pensier portarne il vento.

Erbe e fior che sentiste il divin lume,
e voi, donne, che i suoi
raggi vedeste, e udiste le parole
da trar un monte et acquetar un fiume,
60piangete meco, poi
che s’ è da noi partito il nostro sole.
Già di me sol non dole,
ma di noi, che del suo calor siam privi.
Amor, perché assentivi
65a tanto male? or non bastava il mio,
senza sollicitar l’ altrui desio?

Rendi a la vita nostra il vero speglio
d’ ogni forma e virtute,
e torna la speranza al primo obietto.
70Minor mal fòra, se non era meglio,
levarni ogni salute
che la presenzia del suo bel aspetto;
ché un sincer diletto,
non ha ben che ’l pareggi, e non è male
75a la perdita eguale.
Sì che provedi tu, ché in tua bilanza
è riposta la tema e la speranza.

Sospir dolenti e rozzi,
per voi farebbe andar a cui v’ intenda,
80acciò che ’l si comprenda
che ’l sfrenato desio, che fuor vi tragge,
è noto a monti, a fiumi, a selve, a piagge.

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