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[035]L'illuminismo è l'uscita dell'essere umano [1] dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l'incapacità di servirsi della propria intelligenza[2] senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude![3] Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell'illuminismo.
Pigrizia e viltà sono le cause per le quali tanta parte degli esseri umani, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall'altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per questo riesce tanto facile ad altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che ha intelletto per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, purché sia in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. A far sì che la stragrande maggioranza degli esseri umani (e fra questi tutto il gentil sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, si preoccupano già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l'alta sorveglianza su di loro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno ingabbiate, in un secondo tempo descrivono a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, con qualche caduta, [036] essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo rende tuttavia timorosi e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo.
Per ciascun essere umano singolarmente preso è dunque difficile liberarsi da una minorità divenutagli quasi natura. È giunto perfino ad amarla, e di fatto è effettivamente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova. Precetti e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso, delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una permanente minorità. E anche chi si scrollasse di dosso il giogo, farebbe nondimeno solo un salto malsicuro anche sopra il fossato più stretto, non essendo abituato a muoversi così liberamente. Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito, a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro.
Che invece un pubblico [Publikum] si rischiari da sé, è cosa più possibile; e anzi è quasi inevitabile, purché gli si lasci la libertà. Poiché, perfino fra i tutori ufficiali della grande massa, ci sarà sempre qualche pensatore libero che, scrollatosi di dosso il giogo della minorità, diffonderà lo spirito di una stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni essere umano a pensare da sé. E il particolare sta in ciò: che il pubblico, il quale in un primo tempo è stato posto da costoro sotto quel giogo, li obbliga poi esso stesso a rimanervi quando sia a ciò istigato da quei suoi tutori incapaci a loro volta di un compiuto rischiaramento; perciò seminare pregiudizi è tanto nocivo: perché essi alla fine costano cari a coloro che ne sono stati autori o ai loro predecessori. Per questa ragione, un pubblico può giungere al rischiaramento solo lentamente. Forse attraverso una rivoluzione potrà determinarsi un affrancamento da un dispotismo personale e da un'oppressione assetata di guadagno o di potere, ma non avverrà mai una vera riforma del modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno, al pari dei vecchi, da dande[4] per la grande folla che non pensa.
A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da ogni parte: non ragionate! [037] L'ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L'intendente di finanza: non ragionate, pagate! L'ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!) Qui c'è restrizione alla libertà dappertutto. Ma quale restrizione è d'ostacolo all'illuminismo, e quale non lo è, ma piuttosto lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve sempre essere libero, ed esso solo può realizzare il rischiaramento tra gli uomini; al contrario, l'uso privato della ragione può essere spesso limitato in modo stretto, senza che il progresso del rischiaramento venga da questo particolarmente ostacolato. Intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa, in quanto studioso [als Gelehrter], davanti all'intero pubblico dei lettori [dem ganzen Publikum der Leserwelt]. Chiamo invece uso privato della ragione quello che a un uomo è lecito esercitare in un certo ufficio o funzione civile a lui affidata. Ora, in alcune attività che riguardano l'interesse della cosa comune [gemeinen Wesen] è necessario un certo meccanismo per il quale alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo, così che il governo, tramite un'armonia artefatta, diriga costoro verso pubblici scopi, o almeno li induca a non contrastare tali scopi. Qui però non è certamente permesso ragionare; al contrario, si deve obbedire. Ma nella misura in cui queste parti della macchina si considerano, allo stesso tempo, membri dell'intera cosa comune, e anzi persino della società cosmopolitica, e assolvono quindi la funzione dello studioso nel senso proprio della parola il quale, attraverso i suoi scritti, si rivolge a un pubblico, essi possono certamente ragionare, senza perciò danneggiare le attività che svolgono in quanto membri passivi. Così sarebbe assai dannoso che un ufficiale in servizio, il quale avesse ricevuto un ordine dal suo superiore, volesse ragionare in pubblico sulla opportunità di tale ordine, o sulla sua utilità: egli deve obbedire. Ma non si può di diritto impedirgli, in qualità di studioso, di fare le sue osservazioni sugli errori del servizio militare e di sottoporle al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare le tasse che gli sono imposte; e, anzi, una critica inopportuna di tali imposizioni quando devono essere da lui assolte, può venir punita come uno scandalo [5] (poiché potrebbe indurre a ribellioni generali). Tuttavia, egli non agisce contro il suo dovere di cittadino se, come studioso, [038] manifesta pubblicamente il suo pensiero sull'inadeguatezza e persino sull'ingiustizia di simili imposizioni. Così, un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità in modo conforme al simbolo [Symbol] della chiesa che egli serve, essendo stato assunto per questo: ma come studioso egli ha piena libertà e anzi il compito di condividere con il pubblico tutti i pensieri che un esame attento e proposto con buone intenzioni gli ha suggerito sui difetti di quel simbolo, incluse le sue proposte di riforma in cose di religione e di chiesa. Qui non c'è nulla sulla cui base incolpare la coscienza. Infatti, ciò che costui insegna nel suo lavoro, in qualità di funzionario della chiesa, egli lo presenta come qualcosa intorno a cui non ha libertà di insegnare secondo le sue proprie idee, ma secondo le disposizioni e nel nome di un altro. Egli dirà: «la nostra chiesa insegna questo e quest'altro, e queste sono le prove di cui essa si serve». Dunque, egli ricava tutta l'utilità pratica che alla sua comunità religiosa può derivare da affermazioni che egli stesso non sottoscriverebbe con piena convinzione, ma al cui insegnamento può comunque impegnarsi perché non è affatto impossibile che in esse non si celi qualche velata verità, e in ogni caso, almeno, non si riscontra in esse nulla che contraddica alla religione interiore. Se invece credesse di trovarvi qualcosa che vi contraddica, egli non potrebbe esercitare la sua funzione con coscienza; dovrebbe dimettersi. L'uso che un insegnante fa della propria ragione nel proprio lavoro, davanti alla sua comunità di fedeli è dunque solo un uso privato; e ciò perché quella comunità, per quanto grande sia, è sempre soltanto una assemblea domestica; e a questo riguardo egli, in qualità di sacerdote, non è libero e non può neppure esserlo, poiché esegue un incarico altrui. Invece, in qualità di studioso che parla attraverso scritti al pubblico propriamente detto, vale a dire al mondo, dunque in qualità di ecclesiastico nell'uso pubblico della propria ragione, egli gode di una libertà illimitata di valersi della propria ragione e di parlare in prima persona. Che i tutori del popolo (nelle cose religiose) debbano a loro volta rimanere minori a vita, è un'assurdità che tende a perpetuare nuove assurdità.
Ma una società di religiosi, a esempio un'assemblea di chiesa o una “venerabile classe” (come viene definita dagli olandesi), avrebbe forse il diritto di obbligare se stessa tramite giuramento a un certo simbolo religioso immutabile, per esercitare in tal modo sopra ciascuno dei suoi membri, e attraverso questi sul popolo, una tutela senza fine, [039] e addirittura per rendere questa tutela eterna? Io dico: questo è assolutamente impossibile. Un tale contratto, che sarebbe stato concluso per tenere l'umanità per sempre lontana da ogni ulteriore rischiaramento, è assolutamente nullo; e dovrebbe esserlo anche se a sancirlo fossero stati il potere sovrano [oberste Gewalt], le Diete imperiali e i più solenni trattati di pace. Un'epoca non può impegnarsi e congiurare per porre la successiva in una condizione che la metta nell'impossibilità di estendere le sue conoscenze (soprattutto quelle tanto indispensabili), di emendarsi dagli errori e, in generale, di progredire nel rischiaramento. Questo sarebbe un crimine contro la natura umana, la cui originaria destinazione consiste proprio in questo progredire; e quindi le generazioni successive sono perfettamente legittimate a respingere tali deliberazioni come illecite e delittuose. La pietra di paragone di tutto ciò che può essere decretato su un popolo come legge, sta in questa domanda: se un popolo potrebbe imporre a se stesso una tale legge. Ora, ciò sarebbe certo possibile, per così dire in attesa di una legge migliore e per un breve tempo determinato, al fine di introdurre un certo ordine; purché nel frattempo si lasci libero ogni cittadino, soprattutto l'uomo di chiesa, di fare, nella sua qualità di studioso, osservazioni pubbliche, cioè tramite scritti, sui difetti dell'istituzione vigente, mentre permanga l'ordine costituito, finché non si sia pubblicamente affermata e dimostrata valida una prospettiva in merito a tali cose che, con l'unione dei voti dei cittadini (anche se non di tutti), sia in grado di presentare al trono una proposta conforme alle loro idee che abbia trovate d'accordo quelle comunità in favore di un mutamento in meglio della costituzione religiosa, e senza pregiudizio per quelle comunità che invece scegliessero di restare fedeli alla tradizione. Ma riunirsi, fosse anche soltanto per la durata della vita di un essere umano, sotto una costituzione religiosa immutabile che nessuno possa pubblicamente porre in dubbio, e con ciò annullare per così dire una fase cronologica del cammino dell'umanità verso il suo miglioramento e rendere questa fase sterile e per ciò stesso forse addirittura dannosa alla posterità, questo è assolutamente proibito. Certamente un essere umano può rimandare il rischiaramento per la propria persona, e anche in tal caso solo per un certo tempo, riguardo a ciò che è tenuto a sapere; ma rinunciarvi per sé e più ancora per i posteri, significa violare e calpestare i sacri diritti dell'umanità. Ora, quello che neppure un popolo può decidere circa se stesso, [040] lo può ancora meno un monarca circa il popolo; infatti la sua autorità legislativa si fonda precisamente sul fatto che riunisce nella sua la volontà generale del popolo. Purché egli badi che ogni vero o presunto miglioramento non contrasti con l'ordine civile, egli non può per il resto che lasciare liberi i suoi sudditi di fare quel che trovano necessario per la salvezza della loro anima. Ciò non lo riguarda affatto, mentre quel che lo riguarda è di impedire che l'uno ostacoli con la violenza l'altro nell'attività che costui, con tutti i mezzi che sono in suo potere, esercita in vista dei propri fini e per soddisfare le proprie esigenze. Il monarca reca detrimento alla sua stessa maestà se si immischia in queste cose ritenendo che gli scritti nei quali i suoi sudditi mettono in chiaro le loro idee siano passibili di controllo da parte del governo: sia ch'egli faccia ciò invocando il proprio intervento autocratico ed esponendosi al rimprovero: Caesar non est supra grammaticos[6]; sia, e a maggior ragione, se egli abbassa il suo potere supremo tanto da sostenere il dispotismo spirituale di qualche tiranno del suo stato, contro tutti gli altri suoi sudditi.
Se dunque ora si domanda: «viviamo noi attualmente in un'età rischiarata?» Allora la risposta è: «no, bensì in un'età di rischiaramento». Che gli uomini presi assieme siano, per come stanno le cose, già in grado, o che possano anche solo essere posti in grado di valersi con sicurezza e bene della propria intelligenza in cose di religione, senza l'altrui guida, è una condizione da cui siamo ancora molto lontani. Ma che a essi, adesso, sia comunque aperto il campo per lavorare ed emanciparsi verso tale stato, e che gli ostacoli alla diffusione del generale rischiaramento o all'uscita dalla minorità a loro stessi imputabile diminuiscano gradualmente, di ciò noi abbiamo invece segni evidenti. Riguardo a ciò, questa è l'età dell'illuminismo o il secolo di Federico.
Un principe che non trova indegno di sé dire che egli ritiene suo dovere non prescrivere niente agli esseri umani in cose di religione, bensì lasciare loro in ciò piena libertà, e che inoltre allontana da sé anche l'appellativo altezzoso della tolleranza, è illuminato egli stesso e si guadagna la gratitudine del mondo e dei posteri in quanto è lodato come colui che per primo emancipò il genere umano dalla minorità, perlomeno per quanto riguarda il governo, e ha lasciato ciascuno libero di servirsi della propria ragione, in tutto ciò che è affare di coscienza. Sotto di lui venerabili ecclesiastici, senza recar pregiudizio al loro dovere d'ufficio, propongono liberamente e pubblicamente all'esame del mondo, in qualità di studiosi, i loro giudizi e le loro vedute che qua o là si discostano dal simbolo tradizionale; [041] e tanto più può farlo chiunque non è limitato da un dovere d'ufficio. Un tale spirito di libertà si espande anche verso l'esterno, perfino là dove esso deve scontrarsi contro barriere esteriori provocate da un governo che fraintende se stesso. Il governo infatti ha comunque davanti agli occhi un fulgido esempio che mostra che la pace pubblica e la concordia della cosa comune non hanno nulla da temere dalla libertà. Gli uomini lavorano da sé per uscire a poco a poco dalla rozzezza, se non ci si adopera intenzionalmente per trattenerveli.
Ho posto il punto principale del rischiaramento, cioè dell'uscita dell'essere umano dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso, specialmente nelle cose di religione: riguardo alle arti e alle scienze [Künste und Wissenschaftlische], infatti, i nostri signori non hanno alcun interesse a esercitare la tutela sopra i loro sudditi. Inoltre la minorità in cose di religione, fra tutte le forme di minorità, è la più dannosa ed anche la più umiliante. Ma il modo di pensare di un capo di stato che favorisca quel tipo di rischiaramento va ancora oltre, poiché egli comprende che perfino nei riguardi della legislazione da lui statuita non si corre pericolo a permettere ai sudditi da fare uso pubblico della loro ragione e di esporre pubblicamente al mondo le loro idee sopra un migliore assetto della legislazione stessa, addirittura criticando apertamente quella esistente. Su questo abbiamo un fulgido esempio, e anche in ciò nessun monarca ha superato colui cui rendiamo onore.
Ma solo chi, illuminato egli stesso, non teme le ombre e dispone, al contempo, di un esercito numeroso e ben disciplinato a garanzia della pubblica pace, può affermare quello che invece una repubblica non può arrischiarsi a dire: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite! Così si mostra uno strano e inatteso andamento delle cose umane; come del resto anche in altri casi, a considerare questo andamento in grande, quasi tutto in esso sembra paradossale. Un maggiore grado di libertà civile sembra vantaggioso per la libertà dello spirito del popolo, e tuttavia pone a essa barriere invalicabili; un grado minore di libertà civile, al contrario, offre allo spirito lo spazio per svilupparsi secondo tutte le sue capacità. Quando dunque la natura abbia sviluppato sotto questo duro involucro il seme di cui essa si prende la più tenera cura, e cioè la tendenza e vocazione al libero pensiero: allora questo agisce a sua volta gradualmente sul modo di sentire del popolo (attraverso la qual cosa questo diventerà più e più capace della libertà di agire), e alla fine addirittura sui princípi del governo,[042] il quale trova vantaggioso per sé trattare l'uomo, che ormai è più che una macchina,[7] in conformità alla sua dignità[8]
Note
- ↑ Il tedesco Mensch, come il greco anthropos designa l'uomo indipendentemente dal suo sesso. Nella lingua italiana non esiste un termine equivalente; l'uso "uomini e donne" avrebbe recato il marchio dell'affettazione di una political correctness del tutto fuori luogo in un testo settecentesco. Si è pertanto preferito ricorrere alla perifrasi "essere umano" in tutti i casi in cui è stato possibile farlo senza appesantimenti. [Nota di Maria Chiara Pievatolo]
- ↑ Il termine Verstand nella Critica della ragion pura ha il senso, tecnico, di intelletto; la traduzione di Verstand con intelligenza risulta tuttavia più efficace; perciò, la traduttrice ha optato nel testo per la seconda traduzione, visto anche che in questo contesto Kant non fa riferimento all'intelletto e alle categorie, in senso tecnico. [Nota di Francesca Di Donato] Un argomento a favore di questa versione viene offerto anche da G. Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, Roma-Bari, Laterza, p. 14. [Aggiunta di Maria Chiara Pievatolo]
- ↑ È una citazione della lettera a Lollio Massimo di Orazio (Epistulae, I, 2, 40): «nam cur / quae laedunt oculos festinas demere, si quid/ est animum, differs curandi tempus in annum?/ dimidium facti qui coepit habet: sapere aude:/ incipe.» (Perché, se qualcosa ti dà noia / all'occhio, sei sollecito a rimuoverla/ e d'anno in anno rimandi la cura/ del male interno che ti rode l'animo? Cominciare significa aver fatto/ metà dell'opera; osa conoscere; comincia”, trad. it. di E. Cetrangolo, Sansoni 1968, con alcune correzioni). [Nota di Francesca Di Donato]
- ↑ Le dande sono le due strisce usate per sorreggere i bambini che cominciano a camminare. [Nota di Francesca Di Donato]
- ↑ Sul significato del termine, si veda l'annotazione di M.C. Pievatolo al V articolo preliminare della Pace perpetua. [Nota di Francesca Di Donato]
- ↑ Questa frase è attribuita al vescovo Placentius, che, avendo corretto l'imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo del Lussemburgo per un errore di latino, si era sentito rispondere: «Ego sum rex Romanus et supra gramaticam»: Herders Conversations-Lexikon, Freiburg im Breisgau 1854, Band 1, p. 751.[Nota di Maria Chiara Pievatolo]
- ↑ Questa espressione può essere interpretata come una critica al meccanicismo materialista teorizzato da La Mettrie nel suo celebre L'Homme Machine (1747). [Nota di Maria Chiara Pievatolo]
- ↑ Nelle Notizie settimanali di Büsching dello scorso 13 settembre leggo oggi, il 30 dello stesso, la segnalazione della Berlinische Monatsschrift di questo mese, in cui viene presentata la risposta del signor Mendelssohn alla medesima domanda. Non l'ho ancora avuta tra le mani; altrimenti avrebbe trattenuto la presente, che ora sta lì solo come prova di quanto il caso possa portare ad avere l'identica idea. [Si tratta della rivista del teologo, storico, geografo e pubblicista Anton Friedrich Büsching Wöchentliche Nachrichten von neuen Landcharten, geographischen, statistischen und historischen Büchern und Schriften [Nota di Maria Chiara Pievatolo].