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RISPOSTA
DELL’ABATE
CARLO FEA GIURECONSULTO
alle osservazioni
DEL SIG. CAV. ONOFRIO BONI
sul tomo iii.
DELLA STORIA
DELLE ARTI DEL DISEGNO
DI GIOV. WINKELMANN
pubblicate in roma nelle sue memorie per le belle arti,
ne' mesi di marzo, aprile, maggio, e giugno
del corrente anno mdcclxxxvi.
IN ROMA
NELLA STAMPERIA PAGLIARINI
CON LICENZA DE SUPERIORI.
Scribimus indoctis, doctisque.
RISPOSTA.
Magnam artis partem esse arbitror de his, quæ recte scripta
sunt, posse confiderationem facere, & judicare.
Hippocr. de Dich. indicat. n. 1.
SE v’ha regola, che debba stimarsi eccellente, e necessaria da mettersi in pratica avanti di far la critica di un libro, io crederei, gentilissimo sig. Cavaliere, che fosse quella proposta dal gran Pontefice Benedetto XIV. per norma dell’Indice dei libri proibiti: cioè, che prima di sottoporre all’esame un libro per condannarlo, si debbano sentire gli autori stessi, se sono viventi. Quante inutili dispute non si risparmierebbero nella repubblica letteraria, se vi si usasse lo stesso metodo; quanto meno s’imbragherebbe la testa di chi legge, e di chi vuol prendervi parte; e quanto meglio potrebbe impiegarsi il tempo a vantaggio di chi cerca di essere istruito? Voi, sig. Cavaliere gentilissimo, non avreste certamente empiti quattro fogli di stampa; ed io non mi troverei nella necessità di corrispondervi con altrettanti, ed anche più, se per vostra cortesia almeno, e per quell’amore, che portate alla verità, aveste voluto essere compiacente a segno d’invitarmi prima di metter penna in carta, a sciogliervi le difficoltà, che avevate in animo di obbiettarmi. Tanto più avreste dovuto essermi cortese in questa parte, dopo che avevate veduto, ed ammirato, se non supposto, che io di buon grado avevo dato l’esempio ben raro di un solenne sacrifizio delle proprie opinioni alla verità, e nella stessa opera. Ma poichè, qualunque ne sta stato il motivo, avete stimato meglio di passare all’improvviso a dare il vostro giudizio al pubblico qual Minosse inesorabile della letteratura; non dovrete aver dispiacere, che io, senza consultare i Dotti, e gli Architetti, valendomi dello steso mezzo, e con miglior diritto, vi metta in vista quelle risposte, che vi avrei dette a voce, sebbene in altri termini; così richiedendo l’onor mio, e quello molto più dell’Autore celeberrimo, che ho preso ad illustrare; e il bene di chi vuole approfittarsi de’ nostri scritti. Il pubblico stesso, a cui parlaste il primo, sarà il giudice nostro; ed io spero, che voi farete per mantenere la parola, che avete data alla pagina CXLI., di confessare di buona voglia, che vi siete ingannato più d’una volta.
Io lascierò a voi, sig. Cavaliere, i sali attici, e i fiorentini; lo scrivere or serio, or giocoso; e detesterò sempre il rispondere colle ingiurie, e coi termini fuori della questione; ma non potrò in modo alcuno dispensarmi dal dirvi, che avrei desiderato nelle vostre critiche maggiore imparzialità, un poco più di riflessione, meno contradizioni, logica più che geometria, e calcoli; precisione, e proprietà di espressioni; corredo più vasto di cognizioni letterarie, e architettoniche: in poche parole, che vi foste ben fitto in mente il detto di Winkelmann, che ci sapeste ripetere: altro è lo studio dell’arte, altro è lo studio della critica. Con una lettura superficiale, passaggiera, e da toletta, dirò così per non supporre in voi mancanza di cognizioni, avete voluto alzar tribunale sopra un’opera assai più rispettabile di quello, che voi vi eravate proposto di farla comparire. Per imitare forse quell’altro scrittore di buon gusto deriso da Ateneo, e da lui chiamato raccoglitore di spine, perchè nelle opere altrui nulla sapea trovare di rimarchevole se non le le cose più intralciate, cattive, e nojose; pare che non vi siate proposto, che di trovare difetti nell’opera di Winkelmann principalmente, e nella mia per qualche parte; passando sotto silenzio, o mettendo in un aspetto ridicolo, o di poca importanza tutto ciò, che meritava lode, e particolare attenzione. Avete confidato troppo nel vostro buon gusto, nella vastità delle vostre cognizioni, nel vostro primo colpo d’occhio; senza poi farvi carico d’intendere a pieno la mente degli autori, e le loro parole. Altronde persuaso, che io sia passato all’improviso dai serj, e meno piacevoli studj legali, ai più ameni, e brillanti di quella parte di antiquaria, che riguarda le belle arti, vi siete lusingato di potermi così a buon mercato far ammutolire, spiegando carattere di professore, e di giudice confermato nel possesso di dar la tara anche alle opere dei Reverendissimi. Non pretendo, che voi vi figuraste tutti gli studj da me fatti nella critica, nell’erudizione universale, e nell’antiquaria da’ miei più teneri anni, ed in ispecie in quel tempo, che mi credevate immerso nei serj, e meno piacevoli studj legali; non dico, che da questa vostra asserzione possa ricavarsi per legittima conseguenza, o che l’edizione, che ho fatta, non è mia opera; o che non potevo averla fatta all’improviso passando digiuno da uno studio all’altro; o che passandovi veramente, dovevo avere presso di voi il credito di aver saputo fare all’improviso un’opera, per cui dieci professori de’ pari vostri non farebbero stati sufficienti, non che due società di letterati, o accademici: dirò bensì con qualche confidenza, che potevate immaginarvi, che io dagli studj legali, per li quali voi confessate, che io era già noto al pubblico, avessi portato con me allo studio delle belle arti almeno qualche poco di pratica, e di capacità nel difendere le altrui ragioni, e molto più le proprie, se data se ne fosse l’occasione.
E per non tenervi più sospeso in tanti preamboli, comincierò dal bel principio a farvi riflettere con quanto poco fondamento abbiate posta in fronte a queste vostre osservazioni l’epigrafe tratta dal gran maestro Vitruvio1: qui ratiocinationibus, & literis solis confisi fuerunt, umbram, non rem persequuti videntur. Come mai, sig. Cavaliere eruditissimo, è potuto cadervi in mente di applicare a Winkelmann, e a me questa riflessione aforismatica, che al più potea convenire a voi, il quale vi dichiarate professore; non già a noi, che sentenziate per semplici letterati? Non l’avete forse capita, o credevate che non l’intendessi io perchè è linguaggio del maestro de’ professori? Perchè non rifletteste almeno, che potevo ricorrere al Galiani, il quale me la spiega così: coloro, i quali si sono appoggiati alla teorica sola, ed alla scienza (e voleva dire alla cognizione della grammatica principalmente, hanno seguitata l’ombra, non già la cosa? Come non prevedeste, che io potevo avvisarvi, che con essa vi eravate definito da voi medesimo; giacché voi finora altri saggi pubblici non avete dato nella vostra professione se non che i precetti, e le teorie, che vendete per salto nelle vostre Memorie, vestiti con arte non solo grammatica, ma rettorica, e filosofica; e per la pratica vi siete contentato di far registrare nei fasti dell’architettura quello sguajatissimo altare di Cortona: se pure non è per umiltà, e per rispetto al lodato gran maestro, che si contentò di lasciarci la notizia di avere inalzata una basilica? Cattivo principio, sig. Cavaliere, e pessimo augurio è cotesto per farci dubitare, che a un di presso siano per essere dello stesso calibro le tante riflessioni, che avete appese a quello sovente replicato epitafio.
Mi preme sopra tutto di avvertirvi, come abbiate equivocato grossolanamente nell’intendere alcune parole della mia prefazione, che per le tante volte che me le avete rinfacciate, mi nasce il pensiero, che sieno state per voi una pietra di grande scandalo da aizzarvi non solo contro di me sino a farne le più alte maraviglie, e reclamarne a nome di tutta l’Italia; ma contro di Winkelmann assai più, impegnandovi a rilevarne ogni difetto per ismentire il mio giudizio.
Nel volere in compendio nella detta mia prefazione esporre al leggitore ciò che io pensavo delle Osservazioni di Winkelmann sull’Architettura degli antichi, io mi espressi, credo anche troppo modestamente, in quelli termini: Sono, a dir vero, di molta importanza, piene di quello stesso fondo di erudizione, che l'Autore ha profuso nel rimanente; e vi sono sparse molte belle, e nuove ricerche, ed osservazioni, che non si trovano in altri scrittori, che hanno trattato la materia per lo più superficialmente, o da semplici architetti. Di grazia, sig. Cavaliere, vi pare che io abbia scritto in italiano, o nella lingua dei Lapponi, e degli Ottaiti? Vi pare, che le mie parole dicano, che TUTTE le osservazioni del Winkelmann non si trovano in altri scrittori? Vi pare, che io non possa dimostrarvi, che in tante cose dette da lui riguardanti o l’erudizione, o la semplice arte pratica di fabbricare vi siano SPARSE MOLTE belle, e nuove ricerche, che non si trovano in altri scrittori? Vi pare, che il dire per lo più, sia lo stesso che dire nessuno? Vi pare quindi, che in quel per lo più io non abbia potuto comprendere, i Leon Battista Alberti, i Serlj, i Palladj, gli Scamozzi, i Blondel, ed altri ancora? Se aveste badato alle mie parole, io tengo per fermo, che non avreste menato tanto rumore; e non vi sareste offeso, che di tanti altri io abbia poi scritto, che hanno trattato la materia superficialmente, o (non e, come sempre ripetete voi) da semplici architetti. La materia, di cui ho parlato, sono le osservazioni erudite, che essi senza dubbio hanno toccate superficialmente per quanto richiedeva la storia di qualche fabbrica da essi riportata, e il loro più stretto bisogno; e sono anche gli antichi monumenti, che essi hanno considerati, studiati, illustrati, e proposti ad imitare, colle viste, e colle regole di semplici architetti, che non vuol dire sciocchi, o ignoranti; sebbene più d’una volta abbiano mostrato di esserlo, come ne fanno fede le tante differenze tra loro, e i loro contrasti.
Ma neppur voglio accordarvi, sig. Cavaliere, tanto grossolanamente, che que’ vostri citati corifei siano non meno grandi nell’erudizione, che nell’architettura; e che i loro libri siano sparsi a larga mano di profonda dottrina architettonica, tratta copiosamente non solo dai classici, ma dalle osservazioni fatte con occhio di architetto sulle fabbriche degli antichi di ogni genere. Io vi sfido a mostrarmi, non colle parole, ma coi fatti, questa grande erudizione tratta copiosamente dai classici, nel Serlio, e nel Palladio; tranne di questo il libro V. della topografia di Roma, che non ha da fare coll’architettura. Sì l’uno, che l’altro appena citano Vitruvio, rarissimamente, e di passaggio Plinio, con qualche altro; e ci danno qualche erudizione, o denominazione di piazza relativamente alle fabbriche di Roma, o d’altri luoghi, che riportano; aggiugnendo al più l’iscrizione, che vi si legge: nel resto la fanno veramente da semplici architetti, come mi pare, che debbano chiamarsi quelli, che danno le piante degli edifizj, colle altre parti di essi, ed una piccola descrizione. Il Serlio, per esempio2, trattando del Panteon, dopo aver accennato ciò che ne dice Plinio, e come fu restaurato da Settimio Severo, e Caracalla, secondo l’iscrizione, che si legge sull’architrave ed altre poche cose, scrive: Ma lasciando da banda queste narrazioni, le quali poco importano all’architetto, verrò a le particolari misure di tutte le cose. E appresso3 parlando degli obelischi: Onde derivassero gli obelischi, e come fossero condotti a Roma, & a che servissero, io non mi affaticherò a narrarlo: perciochè Plinio ne fa menzione ampiamente: ma io ne darò bene le misure, e dimostrerò la forma d’alcuni, ch’io ho veduti, e misurati in Roma. Colla stessa mira il Palladio scrive sempre nelle sue prefazioni, che l’idea del suo libro è di dare al pubblico gli avanzi di molte antiche fabbriche ad uso d’arte (benchè talvolta non lo abbia fatto) per vantaggio degli studiosi del buon gusto. Ecco quanto vogliano esser grandi nell’erudizione, e quanto la spargano a larga mano questi scrittori; o se piuttosto si dichiarino da loro medesimi semplici architetti per ismentirvi.
Voi credeste di dare una prova ineluttabile della grande erudizione del Palladio allorchè scriveste alla pagina XCII.: La sola riflessione, che fa il Palladio4 sul Tempio di Assisi, cioè che la cornice del frontespizio, invece dei modiglioni, che sono nella cornice in piano, ha una sola gola ornata di foglie, giacchè in quel sito non essendovi i puntoni del tetto non ci possono essere i modiglioni, che li rappresentano (unico esempio di questa pratica negli edifizj Romani ), mostra la differenza dell’occhio dell’ERUDITO artista da quello del SEMPLICE letterato. Ma perdonate di nuovo, se io ho il coraggio di ripetervi, che voi, non volendo, confermate vieppiù il mio giudizio. Vi liete scordaro ben presto d’avere alla pagina LXVI. fatto rilevare con un lungo sproloquio, che per quanto utile, e dilettevole sia il sapere l’origine degli ordini, e qual tempio fosse costrutto nella Grecia, e in Roma o di questo, o di quell’altr’ordine; se gli antichi usassero i vetri; se aprissero le porte innanzi o indentro, e cose simili; pure se gli uomini del secolo XVI non ci avessero rilevato le belle proporzioni, e le belle forme degli edifizj antichi, il meccanismo della loro corruzione in tanti casi particolari, dalle quali cose dipendono la bellezza, e la solidità delle fabbriche; ne verrebbe alle arti lo stesso vantaggio, che dal sapersi quanto di favoloso ci dissero gli antichi di Apollo, e di Ercole, senza avere l'idea chiara, e precisa delle proporzioni, e delle finezze delle sculture, che si ammirano nell’Apollo di Belvedere, nell’Ercole di Farnese. Senza le prime un artista non sarebbe mai erudito, ma farebbe sempre un artista: senza però le seconde un letterato non potrà mai discorrere fondatamente dell’arte. Non vi accorgete di una manifesta contradizione sparata magistralmente, quando dite non erudito, ma artista quello, che fa rilevare le belle proporzioni, e le belle forme degli edifizj antichi, il meccanismo della loro corruzione in tanti casi particolari, dalle quali cose dipendono la bellezza, e la solidità delle fabbriche; e poi ci volete provare erudito in sommo grado il Palladio con una sola riflessione, vale a dire, per avere scoperto, che nel frontespizio del tempio di Assisi in vece dei modiglioni, i quali naturalmente non vi possono essere, l’architetto vi ha rappresentato una sola gola ornata di foglie? Da semplice letterato vi sosterrò sempre, che questa è una osservazione non da erudito, ma da semplicissimo artista: da artista, che sarebbe stato non semplice, ma ignorantissimo, se nel dare la figura di un edilizio, e i suoi dettagli, non gli avesse guardati con occhio di architetto i non avelie ben rilevato la forma di essi, le loro bellezze, e l’esser fatti secondo le regole prescritte chiaramente dal gran precettore Vitruvio5. Da artista par suo non fu lo sbaglio, per tacere di altri moltissimi, che prese nel fare più alti di quel che sono i piedistalli delle colonne di questo tempio, come già notai nella mia opera6.
Poco più erudito posso accordarvi Francesco Blondel, che mostrate di essere stato ispirato a unirlo ai nostri italiani per far numero. L’erudizione, e la dottrina, di cui lo fate ridondare a segno di fare stupore, si riduce poi a citare qualche volta Plinio, Vitruvio, e i suoi commentatori, il Barbaro, il Filandro, ed inoltre l’Alberti, il Palladio, il Serlio, il Vignola, il Cataneo, e tal altro, che un poco compendia, un poco loda, un poco biasima, e sempre riguardo all’architettura semplice, e alle varie sue parti. Qui si riduce tutta la grande erudizione, che fa stupore a voi, a citare i libri della sua professione. Se possa far maraviglia ad altri ancora, i quali fanno che voglia dire erudizione, e che si ricordano della definizione da voi datane pocanzi, io lo rimetto al senso comune; senza voler punto defraudare al vero merito di quel grand’uomo nell’architettura teorica.
Allo Scamozzi in primo grado, e poi all’Alberti (sia detto con vostra buona pace perchè è fiorentino) io tributo più che di buon animo il titolo di eruditi, e di molto giudizio; quantunque si possa dire in parte col sig. Milizia, del primo, che il suo Trattato sia infrascato di tanta affettata erudizione mal digerita, e mal a proposito disposta; e del secondo, che la di lui opera insigne per gli architetti è stracarica d’inutile erudizione. Accordato questo, siamo anche d’accordo nel resto; purchè voi vi compiacciate di credere, che con quel per lo più, a cui non badaste da principio, io non ho inteso di dire tutti; e che anzi ho inteso di eccettuare realmente questi due scrittori in ispecie dagli altri, che hanno trattato l’erudizione superficialmente. Al più dunque la questione si ridurrà a vedere, se Winkelmann secondo il suo scopo abbia scritto in maniera da potere se non superare, almeno stare al paro di questi due grandi artisti eruditissimi .
Un giornalista, che dà estratto di un libro, e ne fa il confronto col merito di altri, deve prima esaminare quale sia stato l’oggetto degli uni, e degli altri. Quello dell’Alberti, e dello Scamozzi pare che lo abbiate capito, e accennato (e come non intenderlo se è spiattellato sul frontespizio delle loro opere?) che è di fare un trattato d’Architettura universale7. Di Winkelmann no che non lo avete capito. Ben si comprende, che voi avreste desiderato, che egli scrivesse da semplice artista; perchè di tanto in tanto ripetete, sebbene in parte a torto, che le sue ricerche, e osservazioni ben di rado penetrano dentro il midollo dell’arte8; che non danno alcun lume riguardo alla solidità, e alle proporzioni degli edifizj9; che non racchiudono in sè alcun precetto dell’arte, giacchè mai ragiona di proporzioni, e di forme10. Se avesse scritto in quella maniera, allora sì che avreste potuto alzare la voce, e dire, che l’Alberti, il Palladio, e lo Scamozzi molto più copiosamente, e dottamente hanno trattato queste materie. Pertanto Winkelmann, che voleva prevenire, e scansare quello rimprovero, ha preso di mira altre cose. Sappiate dunque, sig. Cavaliere, che dalla sua opera, e dalle sue proteste si vede chiaro, ch’egli non ha voluto rifriggere grossolanamente le cose dette da altri, come avverte in più luoghi11: che nelle sue ricerche fatte nello spazio di cinque, e più anni sì in Roma, che in altre città d’Italia, egli lì è proposto di parlare non tanto dell’architettura universale, ma principalmente delle fabbriche di Roma, e suoi contorni, facendovi osservazioni coi suoi proprj occhi; e in secondo luogo sempre ha cercato di notare cose, colle quali potesse illustrare gli autori antichi greci, e latini, pur troppo non intesi volgarmente, ove trattano di cole riguardanti fabbriche antiche, e in qualunque modo le belle arti. Rileggete le sue osservazioni con questa idea, e vedirete quanto vi Sembreranno diverse, e migliori di quelle dello Scamozzi, e dell’Alberti. Vedrete quanto poco sensatamente abbiate scritto alla pag. LXIX.: Per quanta erudizione abbia tratta dai classici per dirci, che alcune fabbriche erano nella Grecia, e in Roma, o di mattoni crudi, o di tufo, o di travertino, o di marmo, e cose simili, bisogna confessare, che l’Alberti, il Palladio, e lo Scamozzi molto più copiosamente, e dottamente hanno trattato queste materie, come ognuno da sè può riscontrare. Sì, riscontriamo qualcheduna di quelle cose, e vedremo tutto l’opposto. Lo Scamozzi12 parla del travertino, e del peperino, e del luogo, ove si cavano: l’Alberti13 parla del peperino: e come ? come delle pietre di tanti altri paesi, cioè appena di passaggio. Sì questo14, che quello15 trattano della pozzolana nello stesso modo e voi lo confessate dell’Alberti16, dicendo, che non ne parla lungamente, perchè non trovandosi questa per tutto, e volendo egli fare un trattato generale d’Architettura, doveva più tosto distendersi, come fece, a discorrere dell’altra calce più usitata, e comune. Leggete ora quanto diffusamente discorra Winkelmann della pozzolana, sue qualità diverse, proprietà, ed uso fattone in Roma, in Napoli, e altrove17. Osservate come parli del tufo, del peperino, del travertino, e del marmo, usati in Roma, non solo per la loro origine, e diverse qualità; ma facendo una specie di storia dei varj tempi, ne’ quali sono stati adoprati in questa città, per trovare l’epoca di tante sue fabbriche. Così dite generalmente di tutte le di lui osservazioni. Se i vostri due scrittori, ed altri accennano appena certe cose; egli vi fa quasi un trattato con riflessioni non fatte da essi: e se allo Scamozzi18 erano già note le volte più leggiere di pomici, e di vasi di tara del circo di Caracalla, come voi rilevate alla pagina LXIX.; non sarà delitto, che lo abbia osservato, e detto19 anche Winkelmann con molte altre aggiunte. Questo stesso vostro osservatore per giustificarsi delle cose dette e ridette da lui, e da altri, scrive, che le cose buone non sono mai ripetute abbastanza20.
Moltissime altre cose dette da Winkelmann le troverete affatto nuove: come per esempio sono quelle sulla villa Adriana a Tivoli21; sulla villa scoperta a Frascati, ove è la Ruffinella22; sulle case d’Ercolano, e d’altre città sepolte dal vesuvio23; e sulla maniera, con cui erano ornate, e dipinte24; e così di tante altre. Anche a voi pare utile, e dilettevole il sapere l’origine degli ordini, e qual tempio fosse costrutto nella Grecia,e in Roma o di questo, o di quell’altro ordine; se gli antichi usassero i vetri; se aprissero le porte innanzi, o indentro, e cose simili: perchè poi avete quasi voluto deridere Winkelmann, se ne ha trattato? Diventano forse inutili, e disgustose, perchè egli insieme non ha rilevato le belle proporzioni, e le belle forme degli edifizj antichi, e ciò che riguarda la solidità di essi? Torno a dirvi, che non avete capito, che egli ha voluto con queste ricerche fare anche delle osservazioni sugli antichi scrittori: ha voluto decidere delle questioni agitate da tanti grandi uomini, Salmasj, Casauboni, Mureti, ec. colle semplici autorità di diversi antichi autori senza badare ai monumenti dell’arte. Perciò ha parlato anche dei cammini degli antichi, come ne avea parlato Francesco di Giorgio, lo Scamozzi25, ed altri; e più a lungo ne ho parlato io per finire da giureconsulto coll’autorità delle leggi romane, e degli altri scrittori una controversia dibattuta dal marchese Maffei, dal P. Benedetti, ed altri molti scrittori diffusamente26: così ho fatto degli sportelli alle finestre, e dei vetri27 per illustrare antichi autori, e per finire controverse rinate, e sostenute con calore dopo le scoperte fatte nelle rovine delle città summentovate .
Avete equivocato parimente nel figurarvi, o nel pretendere quasi, che Winkelmann facesse un’opera compita d’architettura, come l’hanno fatta lo Scamozzi, e l’Alberti; quando egli non ha inteso di fare altro, che mettere insieme quelle osservazioni, che andava facendo nel leggere i classici, e nel vedere le fabbriche antiche, per comunicarle ai suoi nazionali: e se le accrebbe di molto in cinque, e più anni, non ha voluto dire, che v’impiegasse tutto quel tempo, come pare, che voi grossolanamente lo abbiate inteso; facendone anche paragone con autori, che hanno impiegata tuttala loro vita per fare un’opera, allorché scrivete alla pag. XCII.: E quì di nuovo perdoni il sig. ab. Fes. se torniamo a maravigliarci, che dopo le ricerche di cinque anni il Wtnk. ci dica sì poco, e molto meno di quello, che già scrissero con tanto sapere i nostri valenti maestri, e grandi antiquarj del secolo decimosesto, e che egli pretende nella suà prefazione, che abbiano trattato la materia per lo più superficialmente, e da semplici architetti. Avrebbe anzi dovuto crescervi la maraviglia, che egli abbia potuto leggere, e osservare tante cose relative all’architettura nel tempo stesso, che era distratto in moltissime altre, e che componeva tante opere di maggior mole, ed importanza, che potete leggere riferite nelle prefazioni al primo Tomo della Storia delle Arti del Disegno.
Feci avvertire eziandio nella mia prefazione, che Winkelmann dopo aver pubblicate quelle osservazioni colle stampe l’anno 1761., le accrebbe tanto nel 1762. da compiacersi, che fossero per essere la migliore delle sue operette, qualora ne avesse fatta una nuova edizione. Prova manifesta doveva esser questa per voi, come lo fu per me, che l’Autore medesimo non dava le sue prime osservazioni per un’opera compita, per un capodopera, per un’opera, che voi aveste da mettere in confronto colla Storia delle Arti del Disegno, o con quelle dell’Alberti, e dello Scamozzi, e di tanti altri per farne calare il merito; e che io per farglielo crescere avessi da esaltare al punto, che avete fatto credere collo stroppiare, o non intendere le mie parole. Eppure, chi lo crederebbe! questo stesso mio avviso ha servito a voi di un nuovo titolo per aggravar la mano sopra di Winkelmann, come se io avelli detto, che egli tanto si compiaceva della prima edizione delle sue osservazioni, non delle aggiunte fattevi in appresso; e per fare stare in guardia i dilettanti delle belle arti a non crederla gran cosa. Tale mi pare il vostro fentimento alla pag. CXL. seg.: La riputazione meritamente acquistatasi dal Wink. per la sua Storia delle Arti del Disegno presso gli antichi . . . potrebbe imporre ai dilettanti delle Belle Arti, che leggessero anche queste sue Osservazioni sull’Architettura degli Antichi, delle quali egli stesso tanto si compiaceva, e che erano il frutto delle sue ricerche di cinque anni sì in Roma, che in altre città d’Italia.
Questo è quello, che riguarda in generale l’opera di Winkelmann. Quando poi venite ad esaminarne qualche parte, oh quanto mi fate rannicchiare! Alla pag. LXIX. rilevate, che Winkelmann si è scordato affatto di ciò, che aveva promesso, dei fondamenti cioè in pendio, nel mare. Un poco più di pazienza vi avrebbe citato campo di vedere al!a pagina 36. §. 26. e 27., che ne parla bene, e con una osservazione non fatta mai dai vostri Alberti, Scamozzi, Serlj. Palladj, e Blondel. Trionfate quasi, e non capite in voi d’allegrezza per l’osservazione, che fate alla pag. LXXXIX. sopra l’edifizio focico, non capito, come voi dite, da Winkelmann, nè da me. Rilevate, che Pausania parla dei gradi nell'interno di detto edifizio, e non mai degli esterni sottoposti alle colonne: quindi ne fate una definizione, dalla quale ricavate, che fosse una basilica; e vi maravigliate, che non si avvedesse il Winkelmann, che quei popoli sedendo eternamente negli scalini attorno ad un tempio, volgendosi gli uni cogli altri le spalle, separati in quattro parti dall’edifizio intermedio, non potevano mai tutti insieme deliberare, ascoltare gli oratori, e trattare i loro affari senza un gravissimo incommodo. Belle riflessioni, sig Cavaliere, sono queste; ma permettetemi, che prima io vi domandi, le voi abbiate capito il sentimento di Winkelmann. Avete osservato il proposito, in cui fa menzione del palazzo focico, che è di provare, non che avesse scalini attorno come i tenipj, in cui si tenessero le adunanze dai popoli; ma bensì in generale, che gli scaglioni alti usati in molti edifizj greci, romani, ed egiziani, come piramidi, tempj, e palazzi pubblici, ove si rendeva ragione, non solo erano fatti per modo di scala da salire, nel che io l’ho confutato; ma anche servivano per sedervi? A questo proposito dunque egli dice alla pagina 81.: Pausania scrive28, che ad un palazzo a poca distanza da Delfo, ove i deputati della Focide tenevano le loro adunanze, vi erano scalini, i quali servivano per sedarvi. Era ben naturale, che parlando Winkelmann di un palazzo pubblico, ove si giudicava, o si trattava d’affari dai deputati di una provincia, voi credeste, che egli supponesse quegli scaglioni dalla parte interna, non dalla esterna, che non dice. E per verità farebbe stata una idea nuova, degna della vostra feconda testa, e di quella del gran Michelangelo, il fare un palazzo della città a modo di tempio con quegli scaglioni attorno, per trattarvi pubblicamente, quanto fosse possibile, dei più segreti altari dello stato.
Pare che un’idea sì strana neppur sia caduta in mente a voi, nonchè a Winkelmann; poichè per convincerlo di sbaglio, del suo palazzo ne fate un tempio, dal quale poi create una basilica, come se già ci aveste provato, che le basiliche fossero conosciute dai Greci; e come se le basiliche o greche, o romane nell’interno tutto attorno, invece di essere a modo di passeggi piani, avessero dovuto avere quei gradi per sedervi, forse ad uso di teatro, che si stendevano dal piè delle colonne fino alle mura. Perdonate, signore, io non intendo questa forma di basiliche, forse perchè io son nuovo nelle Belle Arti, e semplice letterato: ben intendo per altro, che voi non ragionate da professore, quando oltracciò volete notare d’inavvertenza il Winkelmann, sul supposto, che parli di un tempio, e non di una basilica col fargli osservare, che quei popoli sedendo esternamente negli scalini attorno ad un tempio, volgendosi gli uni cogli altri le spalle, separati in quattro parti dall’edifizio intermedio, non potevano mai tutti insieme deliberare, ascoltare gli oratori, e trattare 1 loro affari, senza un gravissimo incommodo. Chi mai vi ha detto, che per trattare di un negozio, per sentire oratori, per rendere ragione, fossero necessarie le quattro parti di tutto l’edilizio, o fosse l’esterno di un tempio, o l’interno di una basilica? Avete mai letto negli antichi o semplici architetti, o semplici eruditi, che queste cose non potesserò trattarsi in una stessa fabbrica contemporaneamente? Se vi si fosse trattato di un solo altare, ditemi in cortesia, in qual luogo della basilica dovea postarsi il giudice, l’oratore, o altri che fosse, per farsi intendere senza un gravissimo incommodo da tutti gli uditori, che stavano sotto il colonnato, intorno, e in altre parti di un edifizio quadrilungo? Vi pare, che io abbia detto troppo, se ho detto, che voi scrivete con poca riflessione? Mi dispiace, che ne abbiate date altre riprove anche più forti, che soffrirete in pace di sentirvele mostrare.
Alla pagina 88. dice Winkelmann, che fu certamente ai tempi di Nerone, che si cominciò a far uso di ornamenti inutili, vedendosi, che un tal gusto già dominava ai tempi di Tito, come può notarsi nel suo arco: e molto più andò crescendo sotto i seguenti imperatori, come si scrge al tempio di Palmira de’ tempi di Aureliano. Su quella osservazione voi riflettete così: Ognuno crederebbe, che in due secoli e più, che corrono da Nerone ad Aureliano, il gusto di ornare soverchiamente fosse andato crescendo, come che avanti di Nerone non ve ne fosse esempio. L’arco di Tito, che egli dà per esempio, notò già il Serlio29 essere un poco troppo carico d’intagli, e di membri nelle cornici. Or questo difetto, che non si scorge al Panteon, pure si trova nel tempio di Castore e Polluce, e in quello di Pola riportati dal Palladio30, che conviene in forza delle loro iscrizioni riporre nel tempo d’Augusto. Al contrario vi sono monumenti posteriori a Nerone molto giudiziosamente ornati nelle cornici, come sarebbe il tempio d’Antonino e Faustina, il frammento di cornice degli orti Colonnesi, che dalla forma dei modiglioni, se non è del tempo di Aureliano, conviene riporre molto lontano da Augusto; la Colonna Trajana, ed altri. Davvero, che a prima vista ognuno giudicherà, che voi parliate da dotto arrtista pratico dei varj monumenti d’architettura, e della storia di essa; e supporrà che abbiate letta bene l’opera di Winkelmann da capo a fondo. Se non chè, esaminando a parte a parte il vostro discorso, io trovo, che è tutto fuor di luogo. Potrebbe dirsi primieramente, che Winkelmann parla del gusto di ornare quasi dominante, e generale al tempo di Tito, cresciuto molto più determinatamente al tempo di Aureliano. Ma sia anche sua mente di comprendere tutto quel tempo di seguito; egli non potrà esser impugnato con addurre uno, o due esempj anteriori a quell’epoca di Tito, e qualche altro posteriore, in cui un tal gusto fosse alquanto diverso. Che voi diciate giudiziosamente ornato il tempio di Antonino e Faustina, e la Colonna Trajana, io ve lo accordo: saranno eccezioni della regola; quantunque non possiate negare, che il detto tempio, se è ornato giudiziosamente, è però assai più ornato del Panteon; e che la Colonna Trajana ornata anch’ella giudiziosamente nel capitello, e nella base per corrispondere ai bassirilievi del corpo; è ornata però molto più di quello porti il semplice ordine dorico, o il toscano, di cui crede lo Chambray31 che sia quella Colonna, e il sig. le Roy32 questa, e quella di M. Aurelio.
Del frammento degli orti Colonnesi lo stesso Winkelmann ha detto33 come voi, che non si poteva accertare del tempo di Aureliano; e che è poco ornato, non avendo che tre gran tratti di fogliami. Che se per tutta quella fabbrica vedrete il Palladio34, egli vi dirà, che dovea essere la maggiore, e la più ornata di Roma, quale si vede dagli ornamenti di quelle parti, che ne riporta. Non mi negherete poi, se avete occhi, e se credete al vostro Serlio35, che l’arco di Settimio Severo sia molto ornato, e riccamente lavorato; e che lo sia quanto altra cosa, che sia in Roma, al dire dello stesso Serlio36, l’arco di Gallieno a s. Giorgio in Velabro, fatti amendue prima di Aureliano.
Molto più direte come Winkelmann quasi dominante quel gusto al tempo di Tito, se penserete con me, e con tutti credo gli architetti, che il Serlio al luogo citato da voi per fargli onore, sognò grossolanamente, mostrando di credere, che l’arco di quell’imperatore, come tanti altri, sia così ornato, perchè fosse fatto di spoglie di altre fabbriche, e forse in fretta. Vorrei che egli avesse portato un documento storico dell’essere stato inalzato in fretta, se egli così credeva; non avendosene altra memoria se non se l’iscrizione appostavi, in cui si dice eretto dal Senato a Tito Divo, vale a dire già morto; come si prova anche dall’apoteosi di lui rappresentata nella volta dell’arco nella figura senza barba portata da un’aquila, creduta grossolanamente un Giove coll’aquila dallo stesso. E per provare che non fu fatto così nè in fretta, nè di pezzi di altre fabbriche, ma per un genio del tempo, dovea bastare al Serlio, uomo anche di tanta supposta profonda dottrina architettonica, l’osservare, che il tempio di Pallade nel foro di Nerva, e quello detto di Giove Tonante in Campidoglio, fabbriche credute con molta ragione fatta la prima, e restaurata la seconda da Domiziano, sono a un di presso carichi ugualmente d’ornati, e dello stesso gusto; siccome lo sia anche il tempio della Pace eretto da Vespasiano, secondo le tavole del Palladio37.
A provare il gusto de’ soverchi ornati anche prima di Tito, ed ai tempi di Augusto, recate in esempio i due tempj di Pola, e di Castore e Polluce a Napoli. Del primo osserva il sig. le Roy38 che è ricco d’ornati, ma non eccedente: e comunque sia l’uno, e l’altro, che al certo non sono molto carichi, avreste dovuto osservare, che Winkelmann assai giustamente scriveva altrove39, che fin dai tempi di Augusto nelle Provincie, o fuori di Roma, s’introdusse il gusto guasto, e corrotto nell’architettura; come Vitruvio prevedea che si farebbe presto introdotto da per tutto.
L’istessa vostra inavvertenza, o troppa fretta di volere o leggere, o criticare all’improviso, vi ha fatto gettare al vento alcune dotte osservazioni, che avreste potuto riserbare a miglior ventura. Supponendo40, che Winkelmann dica generalmente, che gli stipiti delle porte, grandi, e piccole erano lavorati a modo di festoni di fiori, e di foglie, come si vede al tempio di Balbec, e in Roma in parecchi luoghi; avete radunati tanti esempj in contrario, cominciando dal Panteon fino alla Basilica Palatina scoperta l’anno 1724. nel palazzo de’ Cesari, per poter conchiudere autorevolmente: Ecco come dal particolare argomentando all’universale coll’autorità di un grand’uomo, che dice di avere osservato per cinque anni, potrebbero gli amatori delle Belle Arti, che non hanno avuto il comodo di veder tutto o sui libri, sui monumenti, farsi una falsa idea delle pratiche degli antichi. Convien sospettare di necessità, che voi leggiate le opere, che criticate, nella maniera stessa, colla quale date fuori le vostre osservazioni, a pezzi, e a bocconi. Io, che sono giureconsulto, vi suggerirò per un’altra volta la gran regola di critica legale, e generale ancora, se volete, proposta da Celso41: Incivile est nisi tota lege perspecta, una aliqua particula ejus propofita, judicare, vel respondere: la quale vuol dire, che se voi avesse letto quello, che dice Winkelmann prima, e dopo le da voi carpite parole, avreste veduto, che egli non fa una regola generalissima per tutti i tempi; ma generale, e particolare per li tempi del cattivo gusto, per li tempi all’incirca poco prima, e dopo le fabbriche di Balbec, che nomina; e sono i tempi intorno ad Aureliano, del quale ha parlato anche ad altro proposto poche righe avanti. E’ tanto chiaramente limitato il senso di Winkelmann alla decadenza delle arti dal lungo discorso, che fa avanti, in serie del quale fra questo degli ornati delle porte; che per farlo parlare generalmente di tutti i tempi, forza è di supporre, che voi crediate l’opera di lui un’insalata cappuccina, di cui un pezzo non abbia coll’altro la minima connessione; quando non vogliate confessare di averla letta per salto. Ed ecco la maniera, con cui un povero autore, un grand’uomo, che ha osservato per cinque anni, viene all’improviso strapazzato da chi non ha saputo o leggere, o badare che a tre righe, e mezza della di lui opera. Andiamo.
Stupenda è veramente, e da semplice architetto l’osservazione, che seguite a fare dopo la precedente, alla pag. XCV.: Tra alcuni abusi già noti, che giustamente riprende il Wink.42, dice ancora, che quando non si seppe inventare altro di nuovo si fecero le colonne di un sol pezzo col capitello. Non vorremmo, che il lettore credesse ancor questo un difetto . Ciò non pregiudica alla solidità, che anzi si aumenta col fare di un sol pezzo quello, che farebbe di due. Non pregiudica alla bellezza, quando sia fatto colle solite proporzioni. E chi mai recandosi avanti il Coloseo, il teatro di Marcello, avanti il tempio Vaticano, resterà disgustato dall’apparirgli tutte di un pezzo le colonne col capitello? Crederei peraltro bene, sig. Cavaliere eruditissimo, di prevenirvi di una lagnanza, che taluno potrebbe fare di voi dopo che avesse avuto la sofferenza di camminar tanto per veder quelle fabbriche grandiose, degne di essere vedute per cento altri riguardi. Potrebbe dire: se il sig. Cavaliere, che ci vuole ammaestrare, e far da pedante, avesse avuto almeno per il pubblico quella carità, che non dimostra per il Winkelmann; se in vece di mandare tutto il mondo avanti il tempio Vaticano, o il teatro di Marcello, o il Colosseo, con pericolo di restarvi anche sepolto sotto qualche rovina, avesse avuto la bontà di recarli egli stesso per una strada di pochi passi nel palazzo Giustiniani ad osservare quelle due colonne del più duro serpentino orientale, che il Winkelmann dà in esempio della sua riflessione; avrebbe veduto, se non ha capito le di lui parole che egli parla di colonne tutte di uno stesso pezzo il tulio intiero, e il capitello attaccatovi; non già del capitello fatto di un io pezzo di pietra con un pezzetto della parte superiore della colonna, fatta nel resto di altri pezzi; quali sono le altre colonne da lui mandateci a vedere, che di più sono mezze colonne, e pilastri.
Sarebbe ragionevole questa lagnanza. Ma tal altro potrebbe aggiugnere a vostra discolpa, che non avete capito il sentimento di Winkelmann, perchè amante soltanto del bello non vi dovevate curare di sapere la storia dell’architettura de’ bassi tempi, dei tempi del cattivo gusto: e che neppure vi è caduto in mente di vedere il testimonio da lui recato; perchè mai non vi è occorso di trovare questa riflessione in quegli autori, i libri dei quali sono sparsi a larga mano di profonda dottrina architettonica. Sarà, dirò poi io, superficiale la dottrina di Winkelmann, e la sua osservazione; ma sarà sempre vera; e non potrà negarsi, che sia un vero capriccio di chi non seppe inventare altro di nuovo, il fare colonne di pietre durissime, porfidi, serpentini, ed altre, tutte intiere di un sol pezzo col capitello, per far vedete, che quando non si seppe inventare cose nuove di gusto, si seppe con nuove idee stravaganti superare le maggiori difficoltà dell’esecuzione; che lascio riflettere a voi se doveano essere grandissime nel lavorare un capitello attaccato alla colonna, tuttochè non molto grande, per voltare, rivoltare, e lavorare i sottosquadri.
M’investite alla pag. CXIX. perchè io non ho corretto Winkelmann43 ove insieme con altri mette in ridicolo i sacchi d’arena rammentati da Plinio nella costruzione del tempio di Diana Efesina. Questo voi lo credete un gran delitto derivato dalla premessa: colla erudizione sola si potrà mai parlare giustamente della filosofia, della matematica, della meccanica, dell’architettura degli antichi, senza sapere queste scienze? Affè, che voi le dovete sapere in grado sommo, perchè ne parlate con molta enfasi! Avreste fatto però bene, in vece di mettere in ridicolo Winkelmann, perchè gli sembrano ridicoli qete’ sacchi d’arena, paragonandoli colla meccanica de’ Greci, di far vedere, che ci voleva un sublime meccanico per alzare grandi architravi di marmo mediante un monte di sacchi d’arena, fu cui si rotolassero fino a posarsi sui capitelli. Io credo che gli altri Greci meccanici, e Zabaglia, che loda Winkelmann, si sarebbero vergognati di quel mezzo come se ne vergognerebbe il sig. Antinori, che voltò i Cavalli del Quirinale; e il sig. Carburi, di cui tanto lodaste nello scorso anno la macchina per trasportare lo scoglio di Pietroburgo. Il povero Winkelmann non potè arrivare a tanta sublimità di scienze, che non erano compatibili colla sola erudizione; ma egli dovrà essere ben costerno di saperne almeno quanto faceva di tutte quelle altre scienze, oltre l’architettura, il gran maestro Vitruvio, benchè avette maggior obbligo di doverle tapere, il quale nel capitolo 1. dei suoi libri modestamente confessò non esserne a perfezione istruito per l’ampiezza delle materie; come voi rilevate alla pag. CXLV. per onore di lui, e della verità.
Dall’antico passando al moderno, Winkelmann conchiude le sue osservazioni con una riflessione sopra il gusto di Michelangelo Buonarruoti, e del Borromino nell’architettura, scrivendo: Michelangelo, il di cui genio fecondo non potea contenersi nei limiti dell’economia degli antichi, e dell’imitazione dei loro capi d’opera, cominciò a metter fuori delle novità, e a dar negli eccessi in materia di ornati. Borromino, che lo superò in questo cattivo gusto, l’introdusse nell’architettura, e da lui si comunicò ben presto all’Italia tutta, e agli altri paesi, ove si manterrà. Oh qui sì, Winkelmann mio, voi ed io dobbiamo fuggir lontano! voi per aver pronunciato un giudizio tanto leverò contro Michelangelo; ed io per non averlo difeso confutandovi! Come potremo guardarci da una tempesta di profonda dottrina architettonica; da un complesso di riflessioni non più intese, vibrateci a larga mano dal sig. Cavaliere con tutta l’energia, che può ispirare l’amor della nazione, l’onore del Pittor della Cappella Sistina, dello Scultore dei Depositi Medicei, dell’Architetto del Vaticano, cui devono, dopo che risorsero le Arti sorelle, molte più bellezze, che difetti; e l’abominazione a quell’infastto vaticinio, che avete fatto imprudentemente, del doversi mantenere il cattivo gusto nell’architettura, non ostante, che ne abbiamo freschissimi esempj moltiplicati! Voi non vi siete ricordato di avere scritto poco prima, che alle Terme di Diocleziano vi erano già esempj di qualche abuso imitato al risorgimento delle Arti dal S. Gallo, e da Michelangelo. Voi non avete badato, tuttochè lo abbiate fatto tanto spesso, a dare un occhiata al libro delle antichità del Serlio, alle rovine di Palmira, e di Balbec, al palazzo de’ Cesari di Mons. Bianchini, alle antichità del Montano, e a tante altre rovine per convincervi, che i semi del cattivo gusto sono molto anteriori al Buonarruoti, e che prima assai di lui gli antichi erano usciti dai limiti dell’economia, ed avevano messo fuori delle novità, e dato in eccessi in materia di ornati. Con queste riflessioni voi vi sareste accorto, che non potevate fare un salto mortale dal secolo terzo dell’era cristiana al risorgimento delle arti nel decimosesto, benchè lo abbiano fatto le stesse belle arti oppresse, e quasi dimenticate per tutto quel frattempo: che era un sofisma, un paralogismo, un paradosso l’asserire, che il gran Michelangelo sia stato il primo in quella feconda epoca a dare in eccessi in materia di ornati; quando i semi del cattivo gusto sono anteriori a lui di tredici, e di quindici secoli per arrivare a Diocleziano, e a Domiziano. Ci vuol pazienza: amendue abbiamo ignorato, che per ornati in architettura altro non s’intende che intagli; che perciò il moltiplicare fregi, fasce, cornici, cornicioni, pilastri, pilastrucci, ed altri membri, ove non hanno nè uso, nè ragione, non è ornare: che per esempio fra le altre opere di Michelangelo, la Porta Pia, che è una delle sue più fantastiche invenzioni, sembra al sig. Cavalier Boni piuttosto difettosi per una licenziosa combinazione di membri architettonici, che per eccesso degli ornati; mentre non vi scorge un membro intagliato; e per ornato, rigorosamente parlando, non vi è che una maschera, ed un festone. Avete intesò?
Per la parte mia, che è di non avervi saputo far fare queste, ed altre belle riflessioni, io me ne sbrigherò con poco, scusado la mia mancanza. Io sono semplice letterato, per derisione del sig. Cavaliere: dunque non potevo difendere Michelangelo; imperocchè la vostra critica non cade sulla vita, o sul numero delle opere di quel genio restauratore delle belle arti, o sui luogo, dove stanno; ma sulla qualità, e sul merito delle opere stesse riguardate con occhio di architetto, e di architetto, che debbe essere fornito di quella profonda dottrina architettonica, che il sig. Cavaliere ha saputa radunare, e mettere in vista specialmente a quei giovani architetti, che il gusto dell’antico riconduce sul bon sentiero. Come semplice letterato potevo anzi fare non una mancanza di omissione, ma di commissione, che farebbe stato peggio. Potevo recare a vostra difesa il giudizio simile al vostro, e più esteso, che fa del gusto di Michelangelo negli ornati il sig. Milizia, il di cui senno nel discoprire i difetti delle opere dell’arte è troppo rinomato. Egli scrive in fine della vita del grande, non minuto, architetto, che negli ornati ei si prese delle gran licenze, uscì spesso di sotto alle buone regole, e mostrò un certo che di bizzarro e fiero, che è stato il suo predominante carattere nella pittura. Forse contro di lui ancora avrà voluto il sig. Cavaliere dirigere le sue lagnanze, e ragioni. Ma io torno adire, che da semplice letterato me ne cavo fuori; e lascio che due architetti bravi teorici se l’aggiustino fra di loro come credono.
Oltre i riferiti pretesi errori, e difetti di Winkelmann, sig. Cavaliere eruditissimo, alcuni altri ne avete saputo rilevare, che sono verissimi. Ma cui bono? vi si potrebbe dire in due parole. Perchè annojare i vostri leggitori con delle ripetizioni inutili? Io già gli avevo avvertiti tutti nelle mie note. Avevo osservato44, che le cupole antiche erano diverse dalle moderne: che la proporzione di sette diametri nelle colonne d’ordine dorico era già comune al tempo di Vitruvio45. Così dirò del capitello di s. Lorenzo fuor delle mura, delle colonne del palazzo Massimi, e di tutte le altre cose da voi ripetute, che già avevo scritte io, come mi fate l’onore di sottoscrivere. In vece di rimettere in vista degli errori, e delle congetture non fondate del nostro Autore, il saper le quali da voi in un giornale nulla deve importare a chi legge l’opera di Winkelmann, perchè ve le osserva notate in pie di pagina; a chi non la possiede bastava l’accennare, che alcune, o molte cose vi sono state corrette dall’editore, come avevate più volte detto generalmente; sarebbe stato più lodevole, e più utile il riferire qualcheduna delle tante belle cose, che vi sono, e che non avete saputo ne lodare, nè biasimare.
Vediamo ora, sig. Cavaliere, quanto più felicemente siate riuscito nel fare delle osservazioni sopra varie cose scritte da me nelle note, e nell’indice dei rami. Comincierò da quella, che voi mostrate di avere proposta con qualche esitanza, e indirettamente, con un pure, che lascia salva la mia opinione, al tempo stesso, che voi ne volete dare ad intendere un’altra. Là dove Winkelnann46 congettura saggiamente per ispiegare un passo di Euripide non inteso per l’avanti, che le metope del tempio dorico, di cui parla quel poeta, dovessero essere aperte, affinchè per mezzo di esse fra i triglifi potessero penetrarvi dentro Oreste, e Pilade, io riflettevo, che il tempio doveva avere la forma detta in antis, vale a dire, per chi non intende i termini latini d’architettura, che non aveva portici attorno, ma soltanto dalla parte avanti aveva un portico, o vestibolo formato da pilastri nella facciata, all’estremità delle mura della cella, e da due colonne nel mezzo fra i pilastri. 1. perchè quella forma di tempio si diceva dai Greci ea parastasi secondo Vitruvio47; ed Euripide fa dire da Ifigenia al re Toante, che non entri nel tempio, ma si fermi nel vestibolo, o portico, ea parastasi: conformità di espressione, che mi è sembrata caratterizzare la forma di quel tempio, il quale secondo Vitruvio era caratterizzato dalla parastasi, o portico avanti, ove si fermava la gente prima di entrarvi. 2. perchè non avendo colonnato attorno, era facile a capire come dalle metope aperte nel fregio della stessa cella si potesse penetrare dentro immediatamente. 3. diremo, perchè così quel tempio era più semplice, più conforme alla semplicità de’ più antichi tempi, all’in antis, che da Vitruvio è messo il primo di tutti; ed anche più simile alla forma dei tempj etruschi semplici più degli altri greci.
A queste mie riflessioni voi rispondete brevemente nella pagina LXXL: I triglifi she si mirano attorno alla cella del tempio della Concordia, si oppongono all’opinione del sig. ab. Fea, che vorrebbe quel tempio in antis, potendo pur essere perittero. Con egual brevità vi rispondo io, che i triglifi non sono attorno alla cella del tempio della Concordia; ma soltanto nel pronao, o vestibolo, come sono a quello del tempio maggiore di Pesto. Dunque la vostra opinione è senza fondamento. Vi pare che io dica bene? Se anche fossero i triglifi tutto attorno alla cella, non sarebbe meno inconcludente il vostro argomento. Vi direi allora, che potevate sovvenirvi del discorso, che faceste l’anno passato nel mese di decembre dello stesso vostro giornale, alla pagina CCVI., contro l’opera del P. Paoli, dicendo ottimamente, che dalla perizia degli Etruschi nel terzo secolo di Roma non si potevano dedurre fatti da loco gli edifizi Pestani nell’oscura, e favolosa età degli Eroi, e avanti alla Greca Architettura . L’istesso inganno prodotto dalle gran distanze, rappresentando allo stesso livello oggetti lontanissimi, cagionerebbe l’opera delle Antichità di Pesto, se non si collocassero ai fatti le loro giuste epoche. Allora, si trovano immensi tratti di tempo da un fatto all’altro, nella stessa guisa, che il viaggiatore scorge immense valli fra quei monti, che da lontano sembrano uniti. Più opportuna, e più adattata non può essere la riflessione al cano nostro. Dalla forma del tempio della Concordia fatto dopo i tempi di Pericle, nel fiore delle arti in Grecia, come io provai48, e voi ne convenite, lì potrà mai argomentare, saltando un immenso tratto di tempo, alla forma del tempio in questione, che è della favolosa età degli Eroi? Da un tempio di pietra tanto studiato, e fatto con tanti ornati, si potrà mai provare la precisa forma dei tempj antichissimi fatti per lo più di legno, come credo fosse, o che Euripide supponga quello della Tauride? In questi doveano esservi cose naturali, non imitate. Ora ditemi da architetto, come stessero i travi del supposto portico intorno ai tempio coi travi del palco della cella potati amendue lui muro di essa; e come tra mezzo ad essi vi fossero le metope aperte per dar lume nel tempio, o per altra ragione, che siasi?
Le fabbriche della città di Posidonia, detta poi Pesto, hanno dato occasione a voi di estendervi in parole, sì per ciò, che io dico da erudito, e da architetto in prova, che quelle grandiose fabbriche sono opera de’ Greci, non degli Etruschi; e sì perchè nel fare quel discorso nell’indice de' rami, che io stampai per accidente dopo che voi già avevate divulgati due fogli della critica all’opera del P. Paoli, non ho detto, che voi già le avevate sostenute tali contro quel dotto in scrittore, dal quale si vogliono etrusche: quali che io abbia voluto rubarvi il merito di essere stato il primo a uscire in campo; e che voi anzi mi abbiate strascinato nella vostra opinione.
Se la verità delle prove addotte in gran numero da voi corrispondesse alla franchezza, con cui le proferite, nessuno, ed io il primo, saprebbe negare, che voi dobbiate avere l’alto onore di avere rivendicato il primo all’ordine Dorico le fabbriche Pestane. Il Fatto si è però, che le vostre ragioni sono tutte imposture, e falsità manifeste. Una sola mia pagina, che io vi citi, basterà d’avanzo a persuadervene senza replica. Al solito vostro leggendo a pezzi, dalla prefazione di Winkelmann siete saltato alla pagina 472., all’indice dei rami, ove parlo a lungo delle fabbriche di Pesto; non badando così alla pagina 241., sotto alla quale notai chiarissimamente, che le dette fabbriche erano doriche. Assai più chiaramente ancora avevo ferino alla pagina 122., che tutte le fabbriche efìltenti nella Magna Grecia, e in Sicilia, della stessa forma, e ordine, come sono i tempj di Girgenti, e di Pesto, ed altre molte, erano opera dei Greci dori; dandone qualche prova, e mandando poi all’indice dei rami, ove potevo trattarne, come ne tratto di fatti, a lungo, per fare la storia di Pesto, e provare greche le sue fabbriche, con tutte quelle ragioni, che non potevo addurre in una nota, al luogo, che voi avete letto. Che vi pare?
Non credo, che potrà cadervi in mente di dire, che i fogli corrispondenti alle citate pagine, fossero pubblicati dopo dei vostri, quando furono pubblicati infallantemente sei, e otto mesi prima che io sapessi la vostra intenzione di scrivere contro il libro del P. Paoli, e forse prima che vi passasse pel capo. In caso, che mai pensasse diversamente, ve ne persuaderebbero i cinquanta fogli stampati tra mezzo; e la lunga mia dissertazione sulle rovine di Roma di venti fogli, che neppur era finita di comporre; e per la quale dovetti sospendere la stampa due mesi intieri. Ve ne persuaderebbe anche la data dell’anno 1784. posta alla pagina 217. per indicare, che scrivevo quella nota nello stesso anno; ed anche una riflessione, che potete fare sopra la pagina 261., nella quale illustro due lapidi spiegate parimente dall’eruditissimo, e pregiatissimo vostro, e mio amico sig. ab. Marini nelle sue Iscrizioni antiche della villa, e dei palazzi Albani; la di cui dotta spiegazione non citai, come desideravo, perchè l’opera non era ancora nè pubblicata, nè stampata, come potete informarvi dal medesimo. Arqui fu pubblicata nell’estate dell’anno 1785., come voi riferite per provare dal citarla, che io faccio alla pagina 431. 435., che queste pagine le stampai dopo il mese di Agosto, in cui cominciaste voi a scrivere contro il P. Paoli. Dunque lo scritto, e stampato da me alla pagina 132. e 241. fu scritto, e stampato molto prima: e siccome il tomo fu cominciato a stampare nell’anno 1784.; così misi sul frontespizio la data di quell’anno, come avevo fatto nei due tomi antecedenti, che furono cominciati a stampare, e a pubblicare dal frontespizio nel 1783., come fanno tanti altri amori in Roma, e fuori.
Vedete, sig. Cavaliere, a quante cose dovevate far attenzione prima di spacciare con tanta sicurezza alla pagina LXVIII.: Essendo ormai al compimento di quest’opera; e CERTAMENTE dopo che noi sin dall’Agosto dell’anno scorso rivendicammo I PRIMI all’ordine Dorico le fabbriche Pestane; dopo aver veduto la lettera, a noi scritta di Pesto stesso nel 22. Settembre 1785. dal sig. Antolini, che già riferimmo, e in cui ci accertava dell’esistenza dei triglifi in quei tempj; dopo esserne stato contemporaneamente con noi sincerato nell'Agsoto passaato dal sig. Barbier, che aveva misurati i detti tempj di Pesto; MUTO’ finalmente d’opinione, e RESTO’ CONVINTO, che questi sono d’ordine Dorico. Prese pertanto nelle Spiegazioni dei rami, che sono in fondo a quello tomo, a disdirsi, confutando l’opinione del P. Paoli con nuove ragioni: e di nuovo alla pagina CXLI.: Chiude quindi l'opera colle sue spiegazioni dei rami, nelle quali, come già avvertimmo, si disdice di quanto sul principio del tomo aveva avanzato in favore del P. Paoli sulle rovine di Pesto, restituendole finalmente, mosso dalle ragioni di noi, che ne quistionammo i primi, all’ordine Dorico, e togliendole agli Etruschi.
Qualora vi degniate di accordarmi, che troppo avete precipitato nelle vostre pretensioni; sarà pure facilissimo, che vi persuadiate esser falso, che mi abbia confermato maggiormente in tale opinione (di credere etrusche le fabbriche di Pesto) la lettera del P. Paoli sull’origine dell’Architettura da me riportata nel terzo tomo. Fu riportata da me questa lettera, ma dopo la pagina 122., e prima della 241., nelle quali avevo sostenuto il contrario. Dunque non poteva confermarmi in quella opinione. Ripensarete, che almeno avete equivocato allorchè pure scriveste di me: Nuovo, com’egli era nelle Belle Arti, si era lasciato sedurre dall’opera maestosa del P. Paoli sopra le rovine di Pesto, credendole di ordine etrusco, e sostenendole per tali ancora in voce, quando insieme con altri Architetti abbiamo seco lui avuta qualche questione di ciò . Dì ciò, volevate forse dire, se alla fabbrica maggiore di Pesto vi fossero i triglifi, o no. Di ciò ho discorso con voi, e con altri, non che fossero d’ordine dorico; credendo che meritasse fede il P. Paoli, il quale con tutta l’asseveranza diceva nella sua opera, che i triglifi non vi erano, ne vi furon mai: per la qual cosa la fabbrica poteva comparire di ordine diverso dal dorico. Quando poi venni certificato dal sig. Barbier, e da altri, che i triglifi vi erano; non ebbi più difficoltà di asserire nelle dette pagine, che tutte quelle fabbriche erano doriche: e ciò, torno a dire, molto prima, che voi scriveste, o pensaste a scrivere: nel qual tempo dissi allo stesso sig. Barbier in compagnia del sig. du Fourny, altro giovine architetto francese di uguale buon gusto e merito, mio e vostro amico distinto, che mi confermavo a credere quelle fabbriche opera de’ Greci, perchè tra gli altri argomenti, che ne avevo in pronto, avevo anche trovato notizie da fare una nuova storia della città di Pesto, provandola di greca origine, come avrei fatto nell’indice dei rami, con tutte quelle ragioni, che voi lodaste replicatamente. Sì fatto dubbio, come anche il non avere per allora appurate tutte le dette notizie storiche, mi fece al principio sospendere il giudizio riguardo all’opera del P. Paoli, che non volevo condannare senza buoni argomenti; e pensai di contentarmi alla prefazione di Winkelmann, e appresso, di citare in pie di pagina storicamente la di lui opinione diversa, senza impegnarmi nè a lodarla, nè a biasimarla; ma bensì spesso richiamando il leggitore all’indice dei rami, ove ne avrei trattato di proposito.
Eppure voi assicurate, che io mi ero lasciato sedurre dall’opera maestosa del P. Paoli, e ne date la ragione, perchè ero nuovo nelle Belle Arti. Certo: ero nuovo nelle Belle Arti dopo che, se non altro come dissi avanti, avevo già pubblicato i due primi tomi della Storia delle Arti del Disegno: quei due tomi, che voi encomiate tanto, con tutte quelle mie fatiche, diligenze, e ricerche piene di erudizione, come voi dite: dopo che voi mi fate l’onore di avanzare con della caricatura, che, non contento di questo, non ho risparmiato di assiduamente interrogare con indefessa premura i Letterati più celebri, e GLI ARTISTI PIÙ’ SAVII di Roma, per venire sempre più in cognizione della verità nei punti più delicati DELLE ARTI, nei quali conviene, per iscoprirla, essere egualmente GRANDE ARTISTA, che Letterato: nuovo forse, perchè avendo a parlare di fabbriche di ordine dorico, io non sapessi i loro caratteri, e proprietà; non ostante che io ne avessi scritto diffusamente fin dal principio contro Winkelmann, Major, ed altri. Per quella mia novità mi lasciai sedurre dall’opera maestosa del P. Paoli: e quando? nel tempo stesso, che io proposi a lui qualche non piccola difficoltà, in risposta alle quali egli scrisse quella lettera, che mi confermò maggiormente in quella opinione, come vi ho fatto vedere; e nella quale egli stesso conchiude: Se di ciò resterete persuaso, gradirò e non poco, di aver arrolato un uomo assai rispettabile per la sua intelligenza sotto l’insegna della mia opinione: che se poi continuerete nella vecchia, e volgare credenza, che tutta quest’arte colle sue invenzioni debbasi a Greci, io continuerò ciò non ostante nella medesima stima pel vostro sapere, e nella stessa osservanza, ed amicizia. per la vostra persona; ben consapevole, che in materia di scienza, e dottrina non sono poi così facili gli uomini a rinunziare alle proprie opinioni.
Con tutto questo la vostra testa si figurò, che io credessi, e sostenessi in voce con voi, ed altri l’opinione del P. Paoli; e che mi ci confermasse la sua lettera, finchè restituii le rovine di Pesto, mosso dalle ragioni di voi, che ne quistionaste il primo, all’ordine Dorico, e togliendole agli Etruschi. Grande efficacia voi attribuite alle vostre ragioni, per potermi dire mosso da quelle a tenervi dietro. Io, sig. Cavaliere, che ho zelato più l’onor vostro, che voi il nostro, avrei desiderato di non toccar questo punto; e di prescinder ora dalle vostre ragioni, come ebbi piacere di non averne parlato nella spiegazione dei remi, che pubblicai quando non ne era peranco uscita se non la terza parte, o sian due togli. Di queste, a dirvela sinceramente, ora che mi ci tirate, io non ne volli parlare, perchè credetti, che voi con una causa buona adopraste un cattivo mezzo termine. Vi metteste a disputare col P. Paoli, cominciando dal volere spiegare il sentimento di Vitruvio riguardo all’ordine toscano, su cui profondate tante parole, e tanti calcoli per lo più falsi, e capricciosi, col supposto di aver capito quel vostro gran maestro, che non avevate capito per niente. Deputavate dell’ordine toscano descritto da lui, nella maniera, che corre nel volgo dei più, ben lontana dalla mente, e dalle parole sue. Così mi parve allora, e tengo fermo anche al presente, che nella parte per voi più interessante, e nella quale credevate far pompa di spargere a larga mano profonda dottrina architettonica, sbagliaste a dirittura il mezzo termine. Onde premendomi l’onor vostro, stimai meglio tirar di lungo, e non mostrarmi inteso della vostra critica, per non doverla confutare: il che neppure avrei potuto eseguire pienamente; non volendo trattenere la stampa alcuni mesi per aspettarne il resto.
In questo voi voleste entrare nell’altra parte della controversia riguardante le cose storiche di Pesto dette dal P. Paoli. Oh quì sì, che diceste delle ragioni da muovermi, perdonate, le risa! Se male vi riuscì l’impresa per la parte architettonica, figuratevi come potevate uscirne con onore nella parte erudita, che non è vostra provincia. Vi basti, che della storia di Pesto non sapeste dirne una parola: anzi ciecamente avete adottato, che i monumenti storici, che reca il P. Paoli, provino l’antica esistenza di Pesto nei tempi Eroici49; e che acquistarono quella città i Sibariti nel terzo secolo di Roma, secondo lo stesso P. Paoli50. Di quella pretesa antichità voi spiegate Diodoro, e Strabone51. Avete accordato eziandio al P. Paoli52, che Tarquinio Superbo fece per opera degli Etruschi la Cloaca Massima, e il Tempio di Giove e così altre cose. All’opposto io ho fatto vedere con tutta probabilità, che Tarquinio fece quelle magnifiche opere per mezzo dei suoi Greci53. Ho fatta la storia di Pesto dalla sua fondazione nel secolo secondo di Roma per mezzo di una colonia di Sibariti, che erano Greci dori; del tempo, in cui fu soggettata dai Lucani, o Tirreni54; e del tempo, in cui fu conquistata alla repubblica Romana da Lucio Scipione Barbato55; e ho accennato come vadano intesi gli scrittori, che volgarmente si fanno parlare di Pesto, nome supposto anteriore, e dato alla città dagli Etruschi, quando parlano di Posidonia fondata dai Greci, detta poi Pesto dai Lucani, che forse erano Tirreni. A queste mie ricerche non avete avuto che ridire.
Per la parte architettonica ho presa la strada vera, e la più breve spiegando Vitruvio nel suo giusto senso ove parla dell’ordine toscano. Ho sostenuto, che secondo le di lui parole quell’ordine non aveva nè triglifi, nè fregio; colla quale spiegazione si viene a dare, senza tanti calcoli, un’idea affatto diversa a quell’ordine dall’ordine dorico, e dalle fabbriche di Posidonia per conseguenza, nelle quali è il fregio, e i suoi triglifi. Vedete pertanto, se io abbia potuto esser mosso dalle vostre ragioni. Voi avete capito la forza del mio argomento, ed avete mostrato di sentire la debolezza del vostro. Ma l’arrendervi anche per quella parte farebbe stato troppo fatale, dopo avere empito tanti fogli, e con qualche segreta compiacenza di erudito artista, e di buon ragionatore. Conveniva dunque nell’odierna vostra critica mostrare coraggio, cercando di difendere almeno in apparenza le vostre pretese dimostrazioni calcolatorie, col dirmi che quella opinione della mancanza del fregio nell’ordine toscano non è nè mia, nè del Piranesi, che io ho citato: col ripetermi le vecchie ragioni di coloro, che hanno abbracciata la sentenza contraria; e col non farvi carico delle mie. E’ cosa facile in questo modo abbagliare i leggitori incauti: no gli autori, che possono scrivere, e replicare. Or dovete sapere, sig. Cavaliere, che mai non ho detta mia quella opinione, che sapevo essere di altri, e dello stesso Winkelmann56: dissi di sostenerla, come la sostenni con nuove prove. Addussi volentieri anche l’autorità del Piranesi, perchè è architetto moderno; e perchè l’armatura del suo tetto senza fregio nella tavola, che citai, mi piacque più delle altre, poco premendomi delle altre cose da lui aggiunte.
Nel ricantare le vecchie ragioni, non sapeste negarmi assolutamente possibile un edifizio senza fregio. Solamente avete preteso di dimostrare più probabile, che i tempj etruschi lo avessero egualmente, che i greci, con tre argomenti, 1. della impossibilità di fare un tetto grande altrimenti. 2. argomentando da parecchie antiche fabbriche col fregio, credute d’ordine toscano dal Palladio, e da altri gravi antiquarj; e tra le altre l’Arena di Verona, e l’Anfiteatro di Pola. 3. che gli Antichi crederono il fregio una parte si essenziale della cornice, che non lo lasciarono mai, anche dove la rigorosa filosofia dell’Architettura permetterebbe lasciarlo senza errore. Tutte tre quelle ragioni, sig. Cavaliere, mi sembrano di ugual peso, vale a dire, di nessuno. Nello stesso tempo, che voi spacciate impossibile un tetto senza fregio, confessate possibile l’armatura diversa ideata dal Barbaro, almeno per li tetti non molto grandi: nulla dite della più giusta del Piranesi; e venite a conchiudere57: dunque non è poi tanto sicuro, che l’ordine Toscano non avesse fregio.
L’argomento dedotto dagli anfiteatri di Pola, e di Verona dati per ordine toscano dal Palladio, e da altri, non doveva ripetersi da voi; perchè da altri moderni architetti, e forse da voi pure, per quanto fate capire con quel quando si volessero, quell’ordine supposto toscano si crede dorico, quale è veramente; e potrei con poco farvelo vedere. Ma per il nostro proposito basterà l’osservare, che questo architetto58 parlando dell’ordine toscano secondo la mente, e le parole di Vitruvio, del quale trattiamo, dice che quell’ordine avea di legno l’architrave, ed altre parti sopra; e che volendoci eseguire in pietra si doveano cangiare più cose per adattarsi alla diversità della materia. Riguardo poi a quegli anfiteatri egli pensa che vi sia l’ordine toscano, perchè vi trova in parte le medesime misure date ad esso da Vitruvio; di maniera che con queste fabbriche supposte d’ordine toscano, e con altre regole si è formato un ordine toscano a suo modo, che non è mai stato l’antico, come osserva lo Chambray59, il quale crede, che il vero toscano, di cui parla Vitruvio, non sia stato usato in città60, ma soltanto in fabbriche di campagna. Vedete bene, sig. Cavaliere, che siamo fuori della questione. Più miserabile è il terzo argomento, tratto senza buona ragione anche dalle fabbriche degli ordini greci, che nulla hanno da fare colla semplicità dell’ordine toscano. Resta dunque a vedere, se vi siate fatto carico delle mie ragioni.
Tutto il mio impegno fu di mostrare falsa la traduzione data dal Galiani al passo contrastato di Vitruvio61; portando molti argomenti per confutarla insieme alla conseguenza, che ne ricava egli, il Perrault, e tanti altri. Prima di sottomettere di nuovo al giudizio vostro, e del pubblico le mie riflessioni, ripeterò le parole di Vitruvio colla detta traduzione: Supra columnas trabes compactiles imponantur, uti sint altitudinis modulis iis, qui a magnitudine operis postulabuntur: eaque trabes compactiles ponantur, ut tantam habeant crassitudinem, quanta summæ columnæ hypotrachelium, & ita sint compacta subscudibus, & securiclis, ut compacturæ duorum digitorum habeant laxationem: cum enim inter se tangunt, & non spiramentum & perflatum venti recipiunt, concalefaciuntur, & celeriter putrescunt. Supra trabes, & supra parietes trajecturæ mutulorum, quarta parte altitudinis columnæ, projiciantur: item in eorum frontibus antepagmenta figantur: supraque ea tympanum fastigiis ex structura, seu materia collocetur; supraque id fastigium columen, cantherii, templa &c. Sopra le colonne poi (traduce il Galiani) si situano travi accoppiati, che formino l’altezza proporzionata alla grandezza dell’opera: e di più abbiano tanta larghezza, quanta è quella del collo della colonna: e si accoppiano questi travi con biette, e traversi a code di rondine, in modo che nella commessura vi resti una distanza di due dita; imperciocchè se si lasciassero toccare tra di loro, non giocando l’aria per mezzo, presto si riscaldano, e s’infradiciano. Sopra questi travi, anzi sopra la fabbrica del fregio posano i modiglioni, lo sporto dei quali è uguale alla quarta parte della lunghezza della colonna, e alle loro teste si affiggono degli ornamenti: sopra si fa il tamburo coi suoi frontespizj, o di fabbrica, o di legno: sopra del quale frontespizio ha da posare l’asinello, i puntoni, e le assi, ec.
Contro sì fatta versione io rifletto, 1. che il Galiani ha voluto trovare il fregio in quelle parole: sopra trabes, & supra parietes, traducendole: sopra questi travi, anzi sopra la fabbrica del fregio. Per fare questa traduzione ha dato un nuovo stravagante significato alla parola et, e, che in latino, e in italiano congiunge due sentimenti; e qui li disgiunge, e corregge il primo, traducendola per anzi. Fa scrivere anche scioccamente Vitruvio; perchè lo fa dire, e disdire immediatamente con due parole: sopra l’architrave; no: ho sbagliato: anzi sopra il fregio si mettano i modiglioni. Vi pare che sia puerile? Vi pare, che uno scrittore del secolo di Augusto, che non faceva testamento, in cui si sarebbe potuta tollerate una espressione precipitata; ma faceva un’opera a mente quieta senza fretta, per servire di norma agli architetti del suo secolo, e dei seguenti, non poresse, e non doveste togliere quel trabes, che s’era ficcato dentro al discorso importunamente facendo contradizione? Parietes si spiega fregio dal Galiani, per la ragione, come dice nella nota, che Vitruvio in altro luogo scrive, che tutti quegli spazj, che rimanevano fra trave e trave nel fregio, si muravano. Lo dice Vitruvio senza dubbio; ma lo dice parlando delle fabbriche dell’ordine dorico, coll’architrave di pietra, e d’intercolunnj stretti. Essendo di pietra l’architrave, e la cornice, era più proprio far di pietre, o mattoni, e calce anche le metope; come fra un architrave, e una cornice di legno sarebbe stato più naturale e per la materia, e per non aggravar tanto l’aschitrave, che nell’ordine toscano era retto da colonne assai distanti, il fare di legno anche le metope, se vi fossero state. Possiamo argomentarlo dallo stesso Vitruvio in altro luogo62, ove prescrive per qualunque fabbrica in genere, che se mai si avesse da far lavoro di materiali sopra architravi di legno, quelli si debbano reggere sotto, affinchè non si curvino, e rompano: limina, & trabes structuris cum sint onerata, medio spatio pandantes frangunt sua lysi structuras: cum autem subjecti fuerint, & subcuneati postes, non patiuntur infidere trabes, neque eas lædere: Le soglie, e gli architravi, traduce il Galiani, quando sono aggravali dalla fabbrica, curvandosi nel mezzo rompono col loro distaccarsi anche la fabbrica: ma se vi si porranno i puntelli a stretta, questi non lascieranno aggravare, nè offendere gli architravi.
Doveva poi il sig. Galiani provarci, che parietes nel senso di Vitruvio in questo luogo solo possa intendersi per quella supposta fabbrica del fregio. Nello stesso periodo Vitruvio usa altro linguaggio parlando del tamburo, che dice si faccia ex structura, seu materia, di fabbrica, o di legno, come traduce lo stesso Galiani. Parietes al contrario poco prima più volte, e poco dopo, e in altri luoghi costantemente l’usa per dire i muri grandi, o maestri, come ne conviene il Galiani. Così scrive, per esempio, nel libro IV. cap. 2.: Sub tegulas afferes ita prominentes (fiant), uti parietes projecturis eorum tegantur: e poche righe dopo in quel luogo stesso citato dal Galiani per provare, che le metope si facevano di fabbrica, Vitruvio contrapone colla stessa frase, e parole, e quasi allo stesso proposito parietes, e structura: Cum ita ab interioribus parietibus ad extremas partes tigna prominentia habuissent collocata, intertignia struxerunt: parole tradotte bene dal Galiani: Poichè ebbero situati i travi con un capo sul muro di dentro, e con l’altro sull’esterno tanto che sporgevano anche fuori, empirono di fabbrica lo spazio rimasto fra travi. Ora perchè voi con questo traduttore volete far mutare linguaggio al vostro maestro, e farglielo mutare anche in uno stesso capo, e in uno stesso periodo? Non vi ricordate, che avete poco prima rinfacciato al Piranesi di fargli mutare linguaggio per li modiglioni, da lui spiegati nell’ordine toscano per le teste dei correnti del soffitto?
Supponiamo a vostro modo, e degli altri, che parietes voglia dire la fabbrica posta fra i travi del fregio: ditemi di grazia, perchè Vitruvio doveva esprimere il fregio con una sola parola equivoca, e colla parte accessoria di esso, come sono le metope, le quali possono esservi, e non esservi, come abbiamo detto che non si usavano nei primi tempi? e perchè nominare le sole metope, quando i modiglioni, anche secondo la tavola del Galiani, posavano sopra i travi egualmente che sopra di esse? I Greci chiamarono il fregio triglifo con ragione; perchè appunto i travi, sulle teste de’ quali si scolpivano i triglifi, sono la parte essenziale, e più antica del fregio, come feci osservare in una mia nota63. Perchè Vitruvio dovea chiamare assolutamente parietes le metope, che non era di necessità fossero di fabbrica, potendo essere anche di legno come realmente di legno, o di fabbrica dice, che si faccia il tamburo? Insieme col portico d’avanti, il tetto, e i suoi modiglioni doveano girare sopra tutti i muri della cella. Vitruvio, volendolo dire, di qual parola doveva, e poteva servirsi? Senza dubbio di parietes; perchè l’architrave di legno non girava su i muri della cella. Dunque parietes avrebbe significato le metope, e i muri grandi attorno nello stesso tempo. Quante oscurità, e improprietà di parlare, dovremo, per vostro decreto, attribuire a quel grand’uomo! Osserveremo eziandio, che Vitruvio dicendo SUPRA trabes, & SUPRA parietes, con quel supra replicato a due parole, sembra, che abbia voluto chiaramente esprimere due parti diverse ad uno stesso livello.
Vi pare, sig. Cavaliere, che a tutti quelli argomenti possiate tornar a ripetere freddo freddo64: Non senza fondamento, dove Vitruvio farla del cornicione toscano dicendo supra trabes, & supra parietes trajectræ mutulorum &c., ravvisano il fregio nella parola parietes, poichè gli spazj fra le teste dei travi, che facevano capo nel fregio, si chiudevano di muro, come Vitruvio stesso dice al libro 4. cap. 2.; onde era sempre vero, che i modiglioni sporgevano supra parietes? Neppure si potrebbe dire, che i modiglioni sporgessero supra parietes, sulla fabbrica delle metope; perchè sopra quelle prima dei modiglioni si mette l’abaco, o cimasa, come insegnano ì vostri Serlj65, Montani66, e tanti altri.
Avete voluto anche far prova di scansare la difficoltà, che nasce dalla traduzione di et per anzi; e veramente in una maniera degna di voi. La difficoltà, scrivete, che reca il sig. ab. Fea sull’impressione Vitruviana poco propria, non è di gran peso. Trattandosi di parlare di un’arte, Vitruvio sarà stato inteso dai suoi, usando quella frase, che a noi par dubbia, perchè usiamo un’altra lingua. E quando pur si voglia trovare oscura, impropria, ed equivoca, non si fa torto a Vitruvio, dicendo, che il suo stile non è quello di Cesare, o di Cicerone. Male, sig. Cavaliere. Poco appresso voi dite, che nella mia edizione latino-italiana dell’opera di questo grand’uomo, non troverò a criticarlo se non che in materie fisiche, matematiche, idrauliche, ec.; e qui mi suggerite di principiare dal dire, che il suo stile non è quello di Cesare, e di Cicerone; e che non importa se ha parlato oscuramente, impropriamente, ed equivocamente; quasichè se non si può pretendere, che tutti scrivano con eloquenza, venustà, sceltezza di espressioni, e giro elegante di periodi; non si debba supporre che tutti, e Vitruvio in ispecie, che si crede vissuto nel secolo di Augusto, scrivano almeno col senso comune, senza contradizioni, equivoci, e improprietà: quasichè per parlare di un’arte non bastasse usare dei termini tecnici, e proprj di essa in certe parti; ma bisognasse stroppiare anche la lingua comune, e tutte le regole grammaticali per dare una significazione affatto contraria alla particella et, e farle dire anzi; e quasichè finalmente Vitruvio non dovesse farai intendere che dai suoi, non dai letterati, non da Augusto, o altro imperatore, a cui dirige tutte le prefazioni ad ogni libro della sua opera, ed anzi pare che a lui diriga tempre il suo discorso per animarlo a leggerla, e ad approfittarsene. Ma torniamo al Galiani, e alle altre difficoltà da me propostegli, e da voi neppur nominate.
Dicevo in feconde luogo, che supposta quella opinione, Vitruvio farebbe credere, che nell’ordine toscano vi fosse il fregio, senza darne misura alcuna; mentre la dà di tutte le altre parti sotto,e sopra di esso; o come dite voi, dà tante più piccole misure dell’ordine toscano. In terzo luogo, supponendo il fregio come se lo figura il Galiani, dopo il Perrault, ed altri, nella sua tavola X. in rame, formato di metope, e delle teste dei travi senza triglifi, sarebbe un vero fregio dorico, benchè senza triglifi; perchè questi non essendo altro, che un ornato della testa del trave, non sono essenziali all’ordine: e se veramente nell’ordine toscano vi fossero state queste teste dei travi in fuori visibili, non avrebbero tralasciato o i Toscani, o i Romani di farvi anche i triglifi, o canaletti per la stessa ragione, per cui si fecero nel dorico: vale a dire, o perchè le teste dei travi non si screpolassero, o per imitare, e far meglio scorrere le gocce dell’acqua venuta di sopra; o vi avrebbero posto altro ornamento, come Vitruvio prescrive si faccia alle teste dei modiglioni. Il Serlio67, il Montano68, il signor le Roy69, e tanti altri, che forse capirono questo inconveniente, stimarono meglio fare liscio il fregio senza le teste dei travi in fuori; poco importando loro che diventasse jonico, o corintio.
In quarto luogo il Galiani emenda in Vitruvio altitudinis in latitudinis per fare que’ modiglioni assai più corti; non riflettendo primieramente, oltre la stacciata violenza al testo contro l’autorità di tutti i codici, e stampe, che non si dice da Vitruvio latitudo di una colonna, o altra cosa simile, ma crassitudo; e secondariamente non bada, che con quei piccoli modiglioni fa una specie di dentelli inutili nell’ordine toscano, e proprj, secondo Vitruvio, dell’ordine jonico; i quali uniti al fregio formato di teste di travi, e di metope, fanno dell’ordine toscano un misto del dorico, e dello jonico, e ne travisano la semplicità, e il tuo vero carattere. Egli non ha capito il fine, per cui Vitruvio vuole quei modiglioni così lunghi fino alla quarta parte dell’altezza della colonna: ed è probabilmente acciocchè essi portando il tetto molto in fuori tutto attorno al tempio, poggiando sull’architrave di legno, e sulle mura della cella, supra trabes, & supra parietes, si venisse così a dare comodo al popolo in occassione di pioggia di ritirarvisi al coperto nella stessa maniera, che si faceva nei tempj greci col colonnato tutto intorno, come scrive lo stesso Vitruvio70: Si & imbrium aquæ vis occupaverit, & intercluserit hominum multitudinem, ut habeat in æde, circaque cellam, cum laxamento liberam moram.
Lascio ora considerare ad un attento leggitore o semplice letterato, o semplice architetto, se dopo vedute tutte queste mie difficoltà, possiate continuare con buona fede a sostenere, che, il marchese Galiani, ed altri trovandosi nel bivio, o di foracchiare (se pure lo vogliono) una parola, e salvare la sostanza della cosa, o di salvare la parola, e alterare totalmente la cosa con mille arbitrj, e supposizioni; scelsero come più prudenti il primo partito: se si tratti solamente di stiracchiare una parola (se pure lo vogliono, per farci un piacere); o se i mille arbitrj, e supposizioni siano delG aliani, che ha scontrafatto Vitruvio, e l’ordine toscano barbaramente. Egli dovea piuttosto confessare, e lo protesterò anch’io, se volete, di non capire, come si facesse un tetto in quella maniera senza fregio; mettendo quella cosa o tra le invenzioni, e artifizj degli antichi, de’ quali si è perduta la memoria; o tra i luoghi oscuri di Vitruvio, che forse il tempo, o qualche bravo ingegno o letterato, o architetto, o meccanico, potrà ridurre alla bramata chiarezza.
In ultimo luogo, sig. Cavaliere, mi sono riservato ad esaminare ciò, che voi scrivete riguardo al tempio di Giove Olimpico a Girgenti descritto da Diodoro. Largo campo vi si è aperto con questo argomento da far di nuovo pompa, della vostra profonda dottrina architettonica; da farci toccar con mano, che con tutta ragione avete tante volte ripetuto contro di Winkelmann, e di me il detto di Vitruvio, qui litteris solis confisi fuerant, umbram, non rem persequui videntur; e che coll’erudizione sola non si potrà mai parlare giustamente della filosofia, della matematica, della meccanica, dell’architettura degli antichi, senza sapere queste fcienze. La scienza geometrica, la trigonometrica, la calcolatoria, e l’erudizione tratta dai migliori classici vi si trova più che mai sparsa a larga mano: e quel che è più valutabile, il tuono magistrale, e il possesso di cattedra, vi spicca sì autorevole, che se durasse quella vecchia usanza d’imporre silenzio coi mngister dixit, resteremmo tutti colla bocca aperta, e stupefatti. Ci conforta però in qualche maniera quell’apologhetto di Marziale71 intorno a un leone, e ad un lepre:
Rictibus his tauros non eripuere magistri,
Per quos præda fugax itque, reditque lepus.
Quodque magis mirum, velocior exit ab hoste;
Nec nihil a tanta nobilitate refert.
Non avrei mai creduto, sig. Cavaliere, che voi foste capace di far tanto abuso dei vostri talenti; e d’impiegare così fuor di luogo le vostre cognizioni, fino a somministrarmi prove le più evidenti da convincervi, che non erat hic locus da farvi onore. Voi stesso mi obbligate a dirlo, e a provarlo contro mia voglia; onde non avrete da lagnarvi.
Dopo che avete approvata72 l’emendazione di Winkelmann nel testo di Diodoro dei 60. piedi in 160. per la larghezza nel tempio; immediatamente passate a scrivere: In tutte le altre dimensioni, che tanto il Wink., che il sig. ab. Fea ricavano dulie parole di Diodoro, ognuno però ideando un tempio diverso, noi siamo di contrario sentimento. Il sentimento di Winkelmann, e il mio73 era, che Diodoro nel dare l’altezza del tempio non vi avesse compreso il basamento di esso, che veniva a formare la grandiosa scalinata di alti scaglioni, come negli altri tempj dorici della Sicilia, e di altre parti; interpretando per basamento la parola. κρηπίδωμα crepidoma da lui usata nella descrizione, che ne dà in queste parole, che noi ripeteremo in latino, secondo l’edizione di Wesselingio 74: Fanum illud pedum CCCXL. longitudine porrectum est, ad LX. vero latitudo patet, & ad CXX. altitudo, crepidine tamen excepta, attollitur. Maximum hoc omnium est, quæ per insulam habentur, & magnitudine substructorum exteris quoque comparari meretur. Nam etiamsi molitio ista ad finem perducta non fuit, pristina tamen deformatio adhuc in conspectu est. Cum enim alii ad parietes usque templi educant, aut columnis ædes complectantur, utriusque structuræ genus huic fano commune est. Nam una cum parietibus columnæ assurgunt rotundæ extrinsecus, sed quadrata intus forma. Ambiens harum ab exteriori parte XX. pedes habet, tanta strigum amplitudine, ut corpus humanum inserere se apte queat: intrinsecus vero XII. pedes continet. Magnitudo porticuum, & sublimitas stupenda est: in quorum parte orientali Gygantum conflictus est, colatura, magnitudine, & elegantia operis excellens. Ad occasum Trojæ expugnatio efficta habetur, ubi Heroum unumquemque videre est, ad habitus sui formam elaborate fabricatam. Voi, per dare un disegno ricavato colla maggiore accuratezza da quelle poche misure date da Diodoro, avete capito, che la base della questione era il senso di quella parola; e perciò avete pensato di darle una nuova significazione. Vi siete figurato, che quel tempio, essendo posto, come la città, sopra un monte, fosse necessario con grandissime sustruzioni di uguagliare l’area dalla parte scoscesa, come fu fatto al Campidoglio sotto al palazzo Senatorio, e come in Girgenti stesso si vede fatto al tempio della Concordia: quindi avete pensato che per crepidoma Diodoro volesse intendere di quelle sustruzioni: e come se il pensarlo, e il provarlo, o supporlo provato fosse lo stesso, proseguite a dire: Sarebbe egli credibile, che Diodoro volesse magnificare questo tempio per le sustruzioni, se non si fossero vedute, e avesse dall'altezza di questo eccettuato il fondamento, se fosse stato per tutto sotterra? Abbiamo accennato sotto al prospetto del nostro tempio, come da qualche parti di esso doveano vedersi le sustruzioni, che formando, come un gran Zoccolo fatto al tempio, potremmo provare, e con Dione, e con Vitruvio, ed altri autori, che acconacconciamente sono chiamate crepidines. Io lodo la franchezza, sig. Cavaliere; ma le prove della vostra nuova opinione io non le vedo.
Dalle sustruzioni del Campidoglio forse, e da quelle del tempio della Concordia congetturate, che vi fossero anche nel tempio di Giove Olimpico? Nè dal P. Pancrazi75, nè dal barone di Riedesel76, nè da altri ho potuto ricavarlo. Sul passo di Diodoro voi ci fate una diceria, che mostra o che non lo avete capito, o che avete voluto impicciare, quando scriveste: Sarebbe egli credibile, che Diodoro volesse magnificare questo tempio per le sustruzioni, se non si fossero vedute, e avesse dall’altezza di questo eccettuato il fondamento, se fosse stato per tutto sotterra? Vi siete immaginato, o volete far credere, che egli magnifichi le sustruzioni fatte, come voi dite, per appianare il monte; e che sustruzioni, e crepidoma tradotto da voi nello stesso tempo per sustruzioni, e per fondamento, siano la stessa cosa. Sarete stato ingannato dalla parola substructionum della traduzione, (che doveva essere in singolare substructionis, come nel greco ὑποστάσεως), la quale nel senso più ordinario si prende per sustruzioni fatte ai fondamenti. Ma se voi, come architetto, aveste badato in primo luogo al senso naturale del discorso, avreste capito, che non poteva intendersi in quel significato, secondo il quale il paragone di Diodoro sarebbe ridicolo, come se avesse supposto, che tutti gli altri più grandiosi tempj fuori della Sicilia avessero dovuto essere nella stesa situazione montuosa, e ineguale, per dover essere in qualche parte sostenuti da sustruzioni, e sustruzioni tali da meritare sì alti encomj. Se poi aveste osservato il contesto, avreste pure inteso, che lo storico vuol lodare quel tempio per la grandiosità del fabbricato, o di tutto l’insieme della fabbrica, che tanto spiega anche la parola latina substructio, e la greca ὑπόστασις adoprata in altro luogo nello stesso significato77, e qui due volte; la prima tradotta per substructio, di cui fi è parlato; e l’altra poco dopo per structura. Potreste anche spiegarla per magnificenza, grandiosità di disegno, di idea della fabbrica; giacchè in altri luoghi Diodoro l’ha usata per dire idea, argomento di un opera78.
Tuttavia, per sempre abbondare con voi, fingiamo contro il testo, e contesto, che vi fossero quelle sustruzioni. Io non trovo ragione, per cui Diodoro, nel dare l’altezza del tempio, dovesse avvertire, che la dava, non compresevi però le sustruzioni da qualche parte. A chi mai potrebbe venire in mente di fare una simile eccettuazione? Di non voler comprendere nell’altezza di un tempio, o altra fabbrica, le fondamenta sotto l’area, o le sustruzioni più alte, e più basse fatte da una, o più parti, tuttochè visibili, e grandiose, per appianar l’area? Il supporre, che lo abbia fatto Diodoro, sarebbe un volerlo far credere letterato troppo semplice. Se avesse anche voluto magnificare le sustruzioni supposte, lo avrebbe dovuto fare con altro discorso, prescindendo dall’altezza del tempio, come si fa comunemente in tali casi .
Dovrete poi far vedere, che queste sustruzioni siano state chiamate da Diodoro coll’altra parola κρηπίδωμα crepidoma. Altro ci vuole, che potremmo provare! Bisogna provare di fatto e non basta dire e con Dione, e con Vitruvio, ed altri autori. Quando si tratta del fondamento di tutta la questione bisogna provare chiaramente: bisogna indicare i luoghi precisi degli autori, se volete esser creduto. All’antica si farebbe detto, e con Dione, e con Vitruvio, ed altri autori. Al presente il gusto di citare è diverso, e con ragione; perchè si può temere che sia una giattanza il citare gli autori appena per nome, per imporre a chi non può, o non sa trovarseli in fonte da rincontrarli. Con me ci voleva maggior cautela, dopo che avevate confessato, che con straordinario coraggio, e pertinace fatica mi sono dato la pena di riscontrare le innumerabili citazioni del Winkelmann, rettificarle, correggerle, aumentarle. Io non mi fido delle citazioni, quantunque io non abbia motivo di dubitarne: figuratevi poi che cosa io faccia, se temo d’impostura, e che lateat anguis in herba.
In fatti, parendomi impossibile, che Dione nominato il primo parlasse a modo vostro, sono corso a vederlo; e ho saputo trovare, che egli in tre luoghi usa la parola κρηπίς crepis equivalente quasi sempre al crepidoma di Diodoro, e al latino crepido: ma in nessuno parla di sustruzioni; e in uno parla anzi di basamento, o zoccolo, per confondervi. Nel primo luogo79 per fare un elogio a Giulio Cesare, scrive, che se Enea, ed altri re, i quali regnarono in Lavinio, e in Alba, gettarono i fondamenti della città di Roma; Giulio Cesare l’avea portata a sì alto punto di gloria, che fra le altre cose aveva anche mandate colonie in quelle città, dove essi aveano regnato: καὶ οἱ μὲν τὴν κρηπῖδα τῆς πόλεως ἡμῶν προκατεβάλοντο ... quumque illi fundamentum urbis nostræ jecerint, ipse tantum ad fastigium eam evexerit, ut præter reliqua sua facta, colonias etiam majores iis urbibus, quarum illi reges fuerunt, deduxerit. Giudicate voi se per crepidine, o fondamento abbia potuto intendere sustruzioni. Dovrete prima far vedere o con buoni raziocinj, o con minuti calcoli, che Roma, o sia l’impero Romano, di cui Enea, e i re d’Alba, e di Lavinio gettarono i primi fondamenti, o lontani principi fosse stato inalzato sopra un precipizio, per aver bisogno di sustruzioni come il Campidoglio. Il secondo passo di Dione80 è dove racconta, che dopo la famosa vittoria navale riportata da Augusto contro Pompeo, il Senato ordinò in onore di lui, fra le altre cose, che si ornasse con rostri di nave la crepidine del tempio di Giulio: Utque sacrarii Julii crepido captivarum navium rostris ornaretur. τήν τε κρηπῖδα τοῦ Ἰουλιείου ἡρῴου τοῖς τῶν αἰχμαλωτίδων νεῶν ἐμβόλοις κοσμηθῆναι. Quel tempio non istava lui declivio del Campidoglio, ma in piano nel Foro Romano81, ove non aveva bisogno di sustruzioni: e se le avesse avute da qualche parte, vi pare, che fossero un luogo a proposito per far onore a quell’imperatore collo scolpirvi dei trofei? Dunque Dione deve intenderli del basamento, dello zoccolo, che girava tutto intorno al tempio forse ornato di portico dalla parte davanti solamente. Nel terzo luogo Dione82 riporta, che l’imperator Commodo stando nell’anfiteatro da un luogo rilevato nel giro della crepidine uccise solo cento orsi con dardi: At primum quidem die centum ursos de fuperiore loco ex ambitu crepidinis solus jaculis confecit. Nemmen per sogno direte, che qui si parli di sustruzioni; parlandovisi del parapetto, o murello rilevato, che difendeva le gradinate dalle fiere, detto anch’esso crepidine.
Forse Vitruvio, benchè citato all’antica, dirà come volete voi. Altrimenti sarebbe scandalosa, che neppur aveste mostrato di capire il vostro gran maestro. Eppure così è: o non lo avete letto, o non lo avete capito; oppure vi siete anche qui dato ad intendere, che io non avessi da trovare que’ luoghi, ove parla di crepidini; non ricordandovi, che voglio fare una nuova edizione latino-italiana della di lui opera. Gli avevo anzi già trovati da un pezzo, avendoli citati alla pagina 117.; e sono parimente tre luoghi. Nel primo scrive83: Frons loci, quæ in æede constituta fuerit, si tetrastylos facienda fuerit, dividatur in partes undecim semis præter crepidines, & projecturas spirarum: parole così tradotte dal Galiani: Se nello spazio destinato per la fronte si vorranno mettere sole quattro colonne, si dividerà in undici parti, e mezza, non contando gli sporti delli zoccoli, e delle basi. Qui dunque crepidines sono gli sporti delli zoccoli, e delle basi, o le basi stesse, non già le sustruzioni. Neppur di quelle parla nel secondo luogo84; ma anche di sporto: Corona deinde plana fiat cum cymatio; projectura autem ejus erit, quanta altitudo supercilii: dextra, ac sinistra projecturæ sic sunt facieudæ, uti crepidines excurrant . Siegue poi il gocciolatojo piano con la sua cimasa, traduce il Galiani: lo sporto sarà eguale all’altezza, dell’architrave, che posa sopra i due stipiti, e gli aggetti a destra, ed a sinistra saranno tali, che avanzino i piedi: ove lo stesso Galiani osserva nella nota85 contro il Baldo, ed altri, che nel senso naturale crepidines sono l’orlo inferiore di qualunque cosa nel che sbaglia di certo, tuttochè asserisca, che tutti gl’interpreti, e i grammatici lo riconoscono. Ma poco c’importa ora: basta che non s’intenda di sustruzioni. Nel terzo luogo86 Vitruvio chiama crepido il lido del mare, o sia l’orlo della terra, che s’alza sopra il livello del mare, come si chiama generalmente87; e così il lido, o sponde dei fiumi88. Sin autem propter fluctus, aut impetus aperti pelagi destinatæ arcæ non potuerint contineri, tunc ab ipsa terra, sive crepidine puevians quarti firmissime stimatur. Ma se per le onde, ed urti del mure non potessero rimanere salde le stabilite chiuse, allora sulla terra ferma, o sia sulla spiaggia si formi un letto il più forte, che si può. Osservate all’opposto, che Vitruvio quando vuol parlare di sustruazioni, usa più e più volte il suo termine proprio latino, e dell’arte, substructio89.
Conciosiacosachè dunque abbiate imposturato quando diceste: potremmo provare, e con Dione, e con Vitruvio, e con quest’ultimo in ispecie, che le sustruzioni acconciamente sono chiamate crepidines; nessun conto farò di quegli altri autori, che non vi siete compiaciuto di nominare, perchè sono certo, e tanta confidenza m’ispira a dirlo la lettura, che ho fatto, che ve li siete sognati. Ma un passo di Dionisio Alicarnasseo al lib. 4. pag. 259., proseguite a dire, chiaramente conferma la nostra opinione. Parlando del tempio di Giove Capitolino fatto da Tarquinia Superbo sopra le sustruzioni fatte da Tarquinio Prisco, e da esso descritte nel libro antecedente, dice: fundatum est in alta crepidine octo jugerum ambitu ec. Dunque altro è il fondamento, altro la scalinata, che vi posava sopra. Sarebbe bella mo, sig. Cavaliere, se questo passo, come tutti gli altri, in vece di confermare chiaramente la vostra opinione, confermasse la mia, come vi dissi al principio, e fosse per voi un’assoluta condanna. Riportiamo i passi di Dionisio, e lo vedremo.
Comincia questo Scrittore nel libro terzo90 a dire di Tarquinio Prisco, che appianò il monte Tarpeo, detto poi Capitolino, con delle sustruzioni da molte parti; ma che non potè gettare i fondamenti del tempio, gettati da Tarquinio Superbo: Collem, ubi templum erat fundaturus, laboriosa egentem opera (neque enim aditu facilis, neque planus erat, sed præruptus, & fastigiatus) multis ex partibus substructionibus circumdedit; atque spatium, quod erat inter ipfis substructiones, & collis verticem aggesta multa terra planum effecit, & ad excipiendas sacras ædes aptissimum. Templi autem fundamenta jacere non potuit, quod post bellum confectum quadriennium tantum vixisset. Sed multis post annis Tarquinius, qui tertius ab illo regnavit, & qui regno expulsus fuit, fundamenta fecit, & magnam illius ædificii partem fecit. Nel libro quarto91 dopo avere anche accennato, che il monte fu fatto piano da Tarquinio Prisco, torna a scrivere, che Tarquinio Superbo scavò, e gettò i fondamenti del tempio, nello scavare per li quali fu trovata la tedst di un uomo, che parea di fresco recifa dal busto, intorno al quale prodigio furono consultati gl’indovini, e fu poi chiamato il monte da quella parte Capitolino: quindi seguitano le parole, che c’interessano: Dum fundamenta foderentur, & ipsa fossa jam valde profunda esset, inventum caput hominis recens cæsi . . . . Extructum autem, ac fundatum fuit super crepidine alta, octo jugerum (meglio fecondo il greco plectororum, misura più piccola dello jugero) ambitu, pedum ferme ducentorum singula latera habens: pari fere longitudine, ac latitudine, ne quindecim quidem integrorum pedum differentia. Etenim templum, quod supra eadem fundamenta patrum nostrorum ætate post incendium fuit ædificatum, solo luxu, ac materiæ magnificentia a prisco differt, ut compertum est. Anche Tito Livio92 scrive, che Tarquinio Prisco fece l’area su quel monte per alzarvi il tempio, fondato poi da Tarquinio Superbo, il quale spese nei soli fondamenti some immense93.
Voi dunque, sig. Cavaliere, pretendete, che quel crepidine alta siano le sustruzioni fatte al monte da Tarquinio Prisco. State attento con me. Dionisio scrive, che Tarquinio Prisco appianò il monte con delle sustruzioni da molte parti. Dunque non da tutte: dunque non poteva poi dire, che il tempio fosse fabbricato sopra un’alta sustruzione; quasichè tutto il monte fosse una sustruzione del tempio. Al più poteva dire sopra un alta sommità, che sommità si dice anche crepido94, intendendo di tutto il monte, senza riguardo alle sustruzioni fattevi da molte parti. Queste sustruzioni non erano fatte per il tempio immediatamente, ma per il monte. Per il tempio Tarquinio Superbo dovette gettare nuove profondissime fondamenta, perchè l’area, secondo Dionisio, tra le sustruzioni, e il sasso vivo era un terrapieno. L’area era grandissima, e il tempio ne occupava una ben piccola parte, come fi può vedere nella figura presso il Nardini95, ed altri antiquari. Dunque Dionisio non poteva, e non doveva dire, che il tempio era fondato sopra un’alta sustruzione. Di più. Dionisio in tutto il suo discorso fa questa serie. Tarquinio Prisco appianò il monte per fare un’area vasta: Tarquinio Superbo gettò le fondamenta, alzò una parte del tempio, ma non lo potè finire: poi segue: Extructum autem, ac fundatum fuit super crepidine alta, octo jugerum ambitu, pedum ferme ducentorum singula latera habens: pari longitudine, ac latitudine, ne quindecim quidem integrorum pedum differentia. Etenim templum, quod supra eadem fundamenta patrum nostrorwn ætate post incendium fuit ædificatum, solo luxu, ac materiæ magnificentia a prisco differt, ut compertum est. Come mai, sig. Cavaliere, se avete letto tutto il contesto di questo discorso, non avere badato, che Dionisio dopo aver detto fatte le sustruzioni al monte, e gettati i fondamenti del tempio, non dovea tornare a dire, il tempio è poi stato fabbricato sopra un’alta sustruzione? Come non avete capito, che seguita a parlare dei fondamenti sopra terra, e del resto, che vi fu alzato sopra dal secondo Tarquinio; e che per conseguenza quell’alta crepidine era appunto il basamento, lo zoccolo, che circondava il tempio, detto crepidine, non ἀνάλημμα analemma, che ha usata Dionisio poco prima per sustruzione; e che questo basamento colla scalinata vi doveva essere, almeno al tempo di Dionisio, perchè da tre parti il tempio aveva il colonnato, di due ordini ai lati, e di tre alla facciata, dalle quali parti era necessaria la scalinata, come si vede agli altri tempj con portici attorno? Almeno potevate badare a quel octo jugerum ambitu, circonferenza di otto jugeri, o pletri, che mai non poteva riferirà alle sustruzioni, le quali circondando il monte da molte parti, col monte stesso, che faceva l’area, occupavano un’ampiezza di gran lunga maggiore. Prosegue Dionisio a dire, che la circonferenza di otto pletri si divideva in quasi ducento piedi per parte in largo, e in largo, con una differenza di circa quindici piedi: misure, che bene corrispondono, come osserva il Nardini96: poi aggiugne, che il tempio rifabbricato in appresso sopra gli stessi fondamenti, era soltanto diverso dal primo per ricchezza, e magnificenza. Quell’eadem fundamenta, gii stessi fondamenti, si riferisce a extructum, ac fundatum super crepidine alta. Alzato, e fondato sopra un alto basamento; non mai a sustruzioni.
La cosa mi pare troppo manifesta. Ma affinchè restiate più sicuro, che la parola κρηπίς crepis adoperata da Dionisio, e κρηπίδωμα crepidoma usata da Diodoro, amendue equivalenti alla latina crepido, sono state bene interpretate da me per basamento; sappiate, che la parola κρηπίς crepis in prima sua significazione vuol dire scarpa, o sia quella specie di scarpa fatta colla suola solamente, e con legacce, o altro, detta dai Latini crepido.97, quale si vede a tante antiche figure: poscia fu adoprata anche a significare basamento, o altra parte sottoposta a qualche cosa per sollevarla alquanto; come appunto fa la scarpa all’uomo, detta dai Latini crepido. Sentite come nel senso di basamento dei tempj crepido sia stata per regola generale da Servio98: Crepido est abrupti saxi altitudo. Crepidines etiam templorum dici ipsos suggestus, in quibus ædes sunt collocatæ. Chiama crepidine, e suggesto il basamento dei tempj, perchè la crepidine, o basamento faceva lo stesso effetto nei tempj, come il suggesto, o predella ai tribunali, o agl’imperatori; che era di sollevarli, o farli comparire più alti. Vedete dunque spiegato bene Dionisio, e Dione, che avete citati voi, ove parlano di tempj, e usano crepidines. Esichio v. Κρηπίς dice, che crepidine è quella parte, che va lotto lo stilobate, o piedistallo delle colonne. Luciano99 chiama crepidine la base della statua di Giove Olimpico; come Stazio chiama crepidine la base, su cui era alzata la grande statua equestre in bronzo di Domiziano100:
.... Insessaque pondere tanto
Subter anhelat humus; nec ferro, aut ære laborant,
Sed Genio: teneat quamvis æterna crepido,
Quæ super ingesti portaret culmina montis,
Cœliferique attrita genu durasset Atlantis.
Cosi Giuseppe Flavio101, che citai nell’opera in una nota102, scrive: Basis autem pedibus facta erat e carbunculo, palmum lata, crepidinis speciem efficiens, octo vero digitorum latitudinem habent, qua tota pedum lamina ei innitebatur. Pausania103: Est oraculum supra lucum in monte, crepido in orbem candido faxo circumducta. Crepidinis ambitus est instar areæ minimæ, altitudine minore, quarti cubitum duum. Erecti sunt super crepidine obelisci tam ipsi, quam zonæ, quibus continentur, ænei. Se questi esempj non vi bastassero, ne recarei altri molti ad ogni vostra richiesta.
Rovinata in questa maniera la sustruzione, la base, il fondamento, o la crepidine, come volete voi, del vostro discorso, precipita tutto il tempio, che sopra vi alzaste a forza di calcoli veramente minuti per tanta fabbrica: imperocchè non avendosi a comprendere il basamento del tempio nella sua altezza; necessariamente deve dividersi la larghezza, e l’altezza di esso nel resto, e fare le colonne più alte, e più piccole, o più stretti quegl’intercolunnj. Voglio ciò nonostante eliminare altre cose, che al solito vostro supponete certe, o provate, e non lo sono.
Dite alla pagina CXVIII.: Subito, che Diodoro ci dà l’ambito delle mezze colonne circolari striate di venti piedi, è molto facile trovare il diametro con una semplice operazioni di trigonometria, poichè riducesi il problema a trovare il diametro di un poligono di venti lati; gacchè sappiamo, che ogni colonna, dorica aveva 20. strie, ed ogni stria di queste colonne doveva essere di due piedi greci. Tenuta l’antica divisione del piede greca in 16. dita, troviamo con questo mezzo, che il diametro delle colonne doveva essere di piedi 12., e dita 13. la queste parole avete supposto in primo luogo, che Diodoro ci dà l’ambito delle mezze colonne circolari foriate di 20. piedi. Diodoro scrive solamente, che la circonferenza delle colonne esteriori era di 20. piedi: non dice espressamente se fossero mezze le colonne, o in fuori più del mezzo. Noi abbiamo creduto, che fossero in fuori due palmi più del mezzo; perchè Diodoro prima ha dato il diametro di piedi 12. ai pilastri interni corrispondenti alle colonne esterne; poi ha detto, che la circonferenza di queste colonne esterne era di 20. piedi, vale a dire 2 piedi più in fuori del mezzo diametro: con che mostra di non aver voluto parlare del diametro, come avea fatto dei pilastri; giacchè il diametro di quelle poteva ricavarsi dal diametro di questi; ma ha voluto notare la singolarirà di uscire le colonne fuori del muro più del loro diametro. Toccava a voi di provare, che i pilastri fossero minori nel diametro di 13. dita delle mezze colonne, e che non dovessero corrispondere. Vi poteva essere la sua ragione nel dare quell’aggetto maggiore alle mezze colonne. Si veniva così a dare loro un effetto più grandioso, che le faceva comparire quali intiere vedute a un certo punto; come si doveva cercare di farle comparire, riflettendo, che l’idea di farle in questo modo nuovo di falso-alato era stata un ripiego dell’artista per rimediare all’inconveniente della gran lunghezza degli architravi. Si rimediava anche ad un altro cattivo effetto, che avrebbero fatto gli ornati, o fasce, se mai vi fossero stati, intorno al muro, come lo fanno ai pilastri del portico dentro e fuori del Panteon quelle due fasce ornate con patere, candelabri, ed altri strumenti di sacrifizio allusivi al tempio, di restare sotto al diametro, poco meno, della colonna per non ingombrarla. Se voi aveste fatto più fabbriche, che calcoli, lo avreste capito, e non avreste aggiunto: Ora quasi quattro quinti di piede non è una quantità da disprezzarsi in 12. piedi, che era un calcolo troppo grossolano ha dato il Wink. al diametro delle nostre colonne, e che il sig. ab. Fea ha adottato ciecamente. In questo errore non sarebbero caduti quei nostri scrittori, che hanno trattato la materia per lo più superficialmente, e da semplici architetti, come dice il sig. ab. Fea dai quale perciò, e da un grande antiquario, come il Winkelmann si aveva diritto di aspettare miglior precisione di misure, che finalmente non dipendevano, che dalle più note operazioni geometriche, senza le quali non si può parlare, nè intendersi di architettura . . . Ecco come hanno alterato ambedue le proporzioni delle colonne, delle loro distanze, che si ricavano sicuramente da Diodoro. Sicuramente, con tanta perizia di far calcoli tutti diranno, che avete più che ragione; e che que’ grand’uomini lodati innanzi non avrebbero mai saputo dir peggio, benchè semplici architetti.
Il secondo supposto, che avete fatto, è che sappiamo, che ogni colonna dorica, aveva 20. strie, ed ogni stria di questa colonna doveva essere di due piedi greci. Da Vitruvio104 si prescrive, che la colonna dorica abbia venti strie, o scanalature. Chi vi dice, che la regola dei tempi di questo scrittore sia fiata anche dei più antichi greci, delle colonne dei quali egli ha mostrato di non aver notizia, come già osservammo?105. Non vi ricordate, che voi stesso scriveste diversamente nel mese di decembre dell’anno scorso106 contro del P. Paoli: I monumenti antichi, e Vitruvio stesso mostrano nelle colonne doriche PER LO PIU’ 23. canali, e tanti ne hanno nello stesso tempio (maggiore di Pesto) le colonne del prim’ordine interno. Perchè lo stesso architetto ne ha fatti 24. alle colonne esterne dei portici, e 16. alle colonne dell’ordine interno di sopra? Vitruvio appoggiato ad una verità geometrica, che i poligoni defcritti dentro dello stesso circolo tante più divengono maggiori, quanti più lati hanno, disegnò al cap. 4. lib. 4., che se una colonna, comparisse troppo gentile, vi è il rimedio di crescere il numero dei canali, per farla apparire più grave, crescendone così la superficie. Meno geometria, sig. Cavaliere, e più memoria . Quella è la terza volta, e non farà l’ultima, che vi prendo in contradizione: ma non me ne maraviglio, perchè le vostre Memorie sono giornaliere, o mestrue al più, sotto la protezione non di Giano bifronte, ma credo di Deucalione, che si tirava sassi dietro alle spalle per farli diventare suoi figli. Contentiamoci di parlare di quella grandiosa fabbrica all’ingrosso, senza entrare in minuti calcoli; finchè qualche illuminato artista, o anche sempliee letterato, facendosi carico di tutte le nostre osservazioni, e difficoltà, ci voglia col tempo dare giuste misure di ogni parte, o avanzo, che vi si trova, come già protestai nell’opera107.
Secondo le parti misurate dal signor barone di Riedesel nella citata opera io ideai l’alzato, che detti nella Tav. VI. lett. A. Eccettuai però dalle misure il basamento per le anzidette ragioni, e per quelle, che voi faceste proporre al P. Paoli nel mese di settembre dell’anno scorso108, allorchè vi giovavano: Molto meno secondo la piasta toscana di Vitruvio, che egli misura sopra il piano della scalinata, siamo in grado di accordare al P. Paoli, di computare la larghezza di questi per la larghezza totale del tempio, come egli vorrebbe, per avere l’esatta somma di tre colonne. La scalinata, come molto variabile secondo il numeri degli scalini, non può mai servire di regola per un’esatta misura, come quelli, che nel nostro caso prescrive Vitruvio, il quale neppure ne parla. Le stesse ragioni dell’esser variabile secondo il gusto degli architetti, e del non parlarne Vitruvio, m’indussero a detrarre dall’altezza anche il frontone, come sono soliti a detrarlo comunemente gli architetti; nel che parimenti mostrate di convenire, scrivendo poco dopo: Lasciando la questione, se Vitruvio nei fissare le proporzioni delle colonne possa aver mai calcolate il frontespizio, che può essere più, meno alto secondo, che posi sopra più, meno colonne, ec. Mi c’indusse anche il leggere in Diodoro, che egli dopo data l’altezza del tempio, scrive, che la grandezza, e altezza dei portici era stupenda: magnitudo porticuum, et sublimitas stupenda est: cosa non necessaria a rilevarsi se già avesse compreso nella data altezza il frontespizio.
In appresso poi riflettendo, che le colonne sarebbero state troppo sottili per quell’epoca; e che Diodoro lodava il portico insieme alla sua parte superiore, nominando i bassirilievi, che erano nel timpano, e non eccettuato quello dall’altezza del tempio; pensai, che ve lo avesse compreso. Così le colonne venivano ad essere della proporzione più giusta di circa sei diametri. Riflettei parimente al motivo, per cui quell’architetto pensasse a fare il tempio falso–alato, ossia col muro della cella tirato fino quasi al diametro delle colonne; e sospettai, che fosse stato, come già dissi, per la difficoltà di trovare pietre della grandezza, e della resistenza necessaria per formare gli architravi, non per bisogno di ampliare la cella, come dice Vitruvio109 che fu fatto in appresso. Per ultimo considerando la larghezza di 160. piedi, che doveva avere la cella; e che forse questo tempio dedicato a Giove Olimpico poteva essere della forma del tempio di Giove Olimpico in Elide, e di quello in Atene, che erano ipetri, al dire di Vitruvio110; congetturai, che quello potesse anche essere ipetro, o scoperto dentro nel mezzo, come è il maggiore di Pesto; e che non avesse portici a colonne intiere nè avanti, nè dietro; ma che quelli fossero chiusi dal muro fra le mezze colonne come il rimanente.
A quelle mie nuove riflessioni voi opponete le vostre, e con poche parole; perchè al solito sparate decreti, e assiomi, non prove. Ma Diodoro, scrivete, che lo aveva, veduto, dice, che vi erano portici. Nè per portico si può intendere un luogo chiuso, tra quattro mura; nè finora sappiamo cosa sia nei tempj antichi questo portico chiuso a modo di vestibolo, che il sig. ab. Fea propone di sostituire ai soliti portici aperti. Questa nuova distribuzione del tempio farebbe stata notata da Diodoro, come notò l’insolita costruzione colle mezze colonne esterne attaccate alle colonne quadrate interne. E poi quali tenebre non sarebbero state in un tempio, che avanti le sue due porte in vece di avere un portico aperto avesse un vestibolo chiuso? D’altronde noi non sappiamo che quei tempj avessero finestre. Diodoro nel dire, che vi erano i portici avanti, e dietro, ossiano le stoe in greco, non dice precisamente, che fossero colonnati, come quelli, che sogliamo vedere negli altri tempj. Egli anzi avrebbe dovuto avvertire, che vi era questo colonnato di colonne intiere, in vece di nominare solamente le mezze, e darne la misura: tanto maggiormente, se prese la misura dell’altezza dalla parte avanti, comprendendovi anche il frontespizio: e di tante colonne di così smisurata grandezza, come non avrebbe dovuto conservarsene qualche pezzo visibile ai viaggiatori, che non vi hanno mai saputo trovare se non le mezze? Siccome questo tempio, al dire di lui, era diverso per quella nuova forma dagli altri, non è imponibile, che fosse diverso anche nella forma del portico; perchè in essi a farli a modo di colonnato ostava la stessa difficoltà delle pietre degli architravi, che nel resto; non potendole sospettare fatte a conio . Bastava, che negl’intercolunnj avessero delle porte, e finestre a un di presso come il portico, o atrio della basilica Vaticana, della Lateranense, ed altre; che sarebbero stati veri portici, come lo sono questi: badando che siano in qualche modo aperti per salvare il significato della parola stoà, altronde tanto ampio, che si estende perfino a significare un granajo111; come ampio è il significato di porticus in latino, e di cryptoporticus, che si dice di un corridore, o galleria sotterranea senza colonnato, e lume, fuorchè alle due estremità112.
Svaniscono in questa maniera tutte le proposte vostre obbjezioni: della mancanza delle finestre negli antichi tempj; regola vera, ma che ha avuto eccezioni, come lì vede al tempio detto di Vesta, o della Sibilla a Tivoli, e in altri esempj, che citai nell’opera113: delle tenebre nel tempio, che non vi sarebbero state, volendolo ipetro, o aperto dentro nel mezzo; e dell’idea di portico passatavi per il capo. Se foste stato costante nelle vostre riflessioni, qui avreste dovuto ragionare, come faceste innanzi in favore del Galiani per il passo di Vitruvio: che era meglio stiracchiare, se pur si voleva, una parola, e salvare la sostanza della cosa. La sostanza era l’impossibilità di trovare, come dissi, tanti gran pezzi di pietra, per la larghezza del tempio di 160. piedi, o 156. secondo il vostro calcolo, e per la rispettiva larghezza di otto intercolunnj ai quattro lati dei portici, alti 10. piedi, come volere anche voi, e lunghi piedi 32., o poco meno; e capaci di reggere tanto peso, o di reggere anche da per sè stessi per la loro qualità di specie di tufo, anzichè di pietra molto dura, o di marmo. L’altra impossibilità, che me lo fece credere ipetro, e che a voi non passò per la mente, era di coprire quella larghezza di 160. piedi. Vi sarebbero voluti e per il soffitto, e per il tetto dei travi assai più lunghi, che l’altissimo pino portato dal ciclopo Polifemo per bastone. L’interno di quella grande larghezza, e della lunghezza di quasi 200 piedi secondo il vostro calcolo, sarebbe stato oscurissimo con tutto il supposto vostro colonnato aperto avanti, e dietro: e poi, a qual fine una cella sì vasta?
Queste difficoltà per voi sono state un nulla. Avete fatto un bel disegno, e lo avete fatto incidere in rame per farlo ammirare dai vostri associati. Quanta differenza c’è tra il fare un disegno in carta, e l’eseguirlo! Oh trattenetemi, se vi basta l’animo, dal ripetervi, come faceste con noi, che il detto di Vitruvio era propriamente fatto per voi: Qui ratiocinationibus, et literis solis confisi fuerunt, umbram, non rem persequuti videntur! (Quello, che è di buono nel vostro disegno, è l’idea che il tempio fosse falso–alato, e con quel numero di colonne: ma di questa posso dire senza timore d’essere cavillato che io l’avevo così intesa, e formata prima di voi, e forse prima d’ogni altro.
E’ tempo ormai, che si dia luogo alla verità: che io vi renda, sig. Cavaliere, quella giustizia, che meritate: che rilevi le cose osservate da voi nella nostra opera; e che ve ne professi le mie obbligazioni, come avrei voluto poter fare anche per il resto. Mi avvertite dottamente alla pagina XCI., che Winkelmann114 dice archivolte delle nicchie, quando dovea dire volte: alla pagina XCV., che il finestrone licenzioso del palazzo dei Conservatori in Campidoglio non è di Michelangelo, ma di Giacomo del Duca suo scolare115: e per ultimo alla pagina CXV., che lo Chambray116 non parla del teatro di Vicenza fatto dal Palladio; ma di un altro teatro antico esistente in detta città117. Winkelmann ha sbagliato in quelle cose, ed io non l’ho avvertito. Di quest’ultimo errore non potevo nemmeno accorgermene, come forse non ve ne siete accorto voi da per voi; perchè non potei trovare l’opera dello Chambray, che appena ora ho potuto vedere per l’acquisto fattone dal sig. principe Chigi.
Ecco tutto il merito delle vostre osservazioni: dove si riduca la sostanza critica di quattro fogli vantaggiati . Taluno potrebbe dire: rem magnam præstas quia bonus es. Ma io ve ne ringrazio davvero; e ne profitterò se mai col tempo si potrà fare una nuova edizione dell’opera di Winkelmann. Vi prego anzi di continuare a far delle nuove osservazioni, e più importanti, o a bella posta, o mano mano, che ve se ne presenterà l’occasione. Io ho scritto per amore della verità, col pensiere di giovare, non d’imposturare, o di sostenere i miei sogni, e i miei equivoci, se mai ne presi alcuno: onde sarò pronto a far nuovi solenni sacrifizj delle proprie opinioni qualora mi si mostri. Mi consolo, che quandoque bonus dormitat Homerus. Ho procurato di migliorare l’opera di Winkelmann per quanto potevo nelle mie circostanze. Se concorreremo in più a perfezionarla, lo avrò a caro, e farà utile al pubblico. Una cosa fola vi raccomando; ed è, che maturiate più i vostri pensieri. Vi servano di regola quelli, che abbiamo esaminati finora. Lasciate da parte le ironie, le celie, le amarezze contro i semplici letterati, e i giureconsulti. Riflettete, che da giureconsulto, e passando all’improviso dai serj, e meno piacevoli studj legali, ai più ameni, e brillanti di quella parte di antiquaria, che risguarda le belle arti, in breve tempo ho saputo fare un’edizione di un’opera, e quasi direi una nuova opera, che voi con tutto il comodo non avete saputo attaccare, che col mostrare di non averla saputa nè capire, nè leggere; e col farvi fare un processo alle vostre cognizioni nella difesa, che ho dovuto qui farne. In somma (sit venia verbo) tenetevi a mente ciò, che scrisse Plutarco nella vita di Teseo: Fea era una fiera veramente da esser molto temuta, siccome quella, che combatteva, ed era difficile ad esser vinta. Io poi cercherò in contracambio di tener lontana da me la tentazione, che m’era passata pel capo dopo aver lette le riferite vostre osservazioni, di applicarvi l’elogio fatto da Cicerone a que’ due Consoli118: Boni sì, ma boni solamente. Desidero di continuare ad aver per voi, per li vostri talenti superiori, e non superficiali cognizioni, quella sincera alta stima, che ne ho avuta per l’avanti; e di rinnovarmi di cuore vostro servitore obbligatissimo .
- Dalla Biblioteca Chigi li 21. giugno 1786.
- ↑ Lib. 1. cap. I.
- ↑ Lib. 3. pag. 4. ediz. del 1544.
- ↑ Pag. 62.
- ↑ Lib. 4. cap. 26.
- ↑ Lib. 4. cap. 2.
- ↑ Pag. 61, Vedasi anche il ch. Guattani nelle Notizie delle Antich. ee. al mese di marzo di quest’anno 1786. paga 21.
- ↑ Pag. LXIX. segg.
- ↑ Pag. LXVI.
- ↑ Pag. LXXXIX.
- ↑ Pag. XCI.
- ↑ Pag. 45. 83.
- ↑ Lib. 7. cap. 8. 10.
- ↑ Lib. 2. cap. 9.
- ↑ Lib. 2. cap. 22.
- ↑ Lib. 7 cap. 21.
- ↑ Pag. LXX.
- ↑ Pag 25. segg.
- ↑ Lib. 8. cap. 15.
- ↑ Pag. 28. segg.
- ↑ Lib. 6. cap. 10.
- ↑ Pag. 72. 82. segg.
- ↑ Pag. 83. seg. 21l. segg.
- ↑ Pag. 83. 203. segg.
- ↑ Pag. 103. segg.
- ↑ Lib. 3. cap. 21.
- ↑ Vedi pag. 84. 209. segg.
- ↑ Pag. 74. segg. 206. segg.
- ↑ Lib. 10. cap. 5. pag. 808, edit. 1696.
- ↑ Lib. 3. pag. 206.
- ↑ Lib. 4. cap. 26. e 27.
- ↑ Paral. de l’archit. anc. sec. part. chap. 1. Paris 1702.
- ↑ Les Ruin. des plus beaux mon. ec. par. II. princ. pag. 2.
- ↑ Pag. 88, e segg.
- ↑ Lib, 4. cap. 12. tav. 6.
- ↑ Lib. 3. pag. 110.
- ↑ Pag. 109.
- ↑ Lib. 4. cap. 6. tav. 6.
- ↑ Princ. e par. 2. pl. 29. 30.
- ↑ Pag. 215. e Tom. II. pag. 125. e 335.
- ↑ Pag. XCIV.
- ↑ L. 24. ff. De legib.
- ↑ Pag. 90.
- ↑ Pag. 124.
- ↑ Pag. 41.
- ↑ Pag. 51.
- ↑ Pag. 47. segg.
- ↑ Lib. 3. cap. 1.
- ↑ Pag. 122.
- ↑ Decembre 1785 Pag. CCIX.
- ↑ Pag. CCIV.
- ↑ Pag. CCI.
- ↑ Pag. CCVI.
- ↑ Pag. 491.
- ↑ Pag. 473. segg.
- ↑ Pag. 490.
- ↑ Tom. II. pag. 100.
- ↑ Pag. CXLIV.
- ↑ Lib. 1. cap. 14.
- ↑ Paral. de l’arch. anc. sec. part. ch. 2.
- ↑ Prém. parte., avantpropos.
- ↑ Lib. 4. cap. 7.
- ↑ Lib. C. cap. 11.
- ↑ Pag. 98. n 13.
- ↑ Pag. CXLIII.
- ↑ Lìb. 4. pag. 6.
- ↑ Lib. 2. cap. 6.
- ↑ Lib. 4. pag. 6.
- ↑ Lib. 1. tav. 3.
- ↑ Sec. part. pl. 1.
- ↑ Lib. 3 cap. 2.
- ↑ Lib. 2. epigr. 49. edit. Amst. 1643.
- ↑ Pag. CXVI.
- ↑ Pag. 125. segg.
- ↑ Lib. 13. §. 82. pag. 607.
- ↑ Tom. II. par. 2. tav.7.
- ↑ Voyage en Sic. & dans la Grande Grece, lettre 1. pag.44. segg.
- ↑ Lib. 1. §. 06. pag. 76.
- ↑ Lib. 1. 3. 3. pag. 6. Tom. I. Lib. 15, §. 70. pag. 57. T. II.
- ↑ Lib. 44. cap. 17. pag. 406. Tom. I. edit. Reim. 1752.
- ↑ Lib. 51. cap. 19. pag. 649.
- ↑ Vedi il Nardini Roma antica, lib. 5. cap. 5.
- ↑ Lib. 72. cap. 18. pag. 12. 8.
- ↑ Lib. 3. cap. 2.
- ↑ Lib. 4. cap. 6.
- ↑ Pag. 151.
- ↑ Lib. 5. cap ult.
- ↑ Polluce Onom. lib. 9 segm. 28.
- ↑ Stazio Theb. lib. 9. vers. 492. Q. Curzio lib. 5. cap I. sect. 28., Diodoro lib. 2. §. 8. pag. 121.
- ↑ Lib. 1. cap. 5., lib. 6. cap. 11., lib. 8. cap. 6.
- ↑ Lib. 3. cap. 69. pag. 192. Oxon. 1704.
- ↑ Lib. 4. cap. 59. pag. 246. segg.
- ↑ Lib. 1. cap. 16. num. 38.
- ↑ Cap. 21. num. 35.
- ↑ Vedi Roberto Stefano, l’Hofmanno il Passerazio, il Forcellini, e gli altri Lessici a questa parola.
- ↑ Lib. 5. cap, 11.
- ↑ Lib. 5. ap. 15.
- ↑ Aulo Gellio Noct. Attic. lib. 13. c. 21.
- ↑ Ad Æneid. lib. 10. vers. 653.
- ↑ Quom. hist. sit conscrib. §. 2. oper. Tom. II. pag. 35. edit. Reitz.
- ↑ Sylv. cap. I. vers. 56.
- ↑ Antiq. Jud. lib. 12. cap. 2. n. 8. edit. Amst. 1726.
- ↑ Pag. 117
- ↑ Lib. 9. cap. 39. pag. 791. Lipsiæ 1696.
- ↑ Lib.4. cap. 3.
- ↑ Tom. III. pag. 51.
- ↑ Pag. CXCVIII.
- ↑ Tom. III. pag. 507.
- ↑ Pag. CXLVIII.
- ↑ Lib.4. cap.7.
- ↑ Lib. 3. cap. 1.
- ↑ Vedasi Suida, ed Enrico Stefano a quella parola.
- ↑ Vedasi il nostro Tom. III. pag. 73.
- ↑ Loc cit. pag. 71.
- ↑ Pag. 101.
- ↑ Pag. 91.
- ↑ Prem. part. chap 2.
- ↑ Pag. 110.
- ↑ Epist. 3. ad Bint.