Questo testo è stato riletto e controllato.
Questo testo fa parte della raccolta Poesie inedite (Pellico)


ROCCELLO.





Cantica.

M’era sembrato si potesse fare una specie di romanzo in due o tre volumi, dipingendo un generoso cavaliero italiano del secolo decimoquarto, il quale visitasse una dopo l’altra le varie dominazioni in cui stava divisa la nostra penisola, e così si disingannasse di molti sogni. Provatomi a tal lavoro, incontrai troppi scogli, stante l’obbligo che ha di svolgere con minutezza molti argomenti chi assume lunga prosa relativa a punti storici. Convertendo il soggetto in cantica, tutti i quadri si sono impiccioliti; ma forse così il lettore non avendo tempo d’annojarsi, potrà meglio afferrarne le armonie morali.

Ogni cosa veduta dal mio Roccello nella Italia de’ suoi tempi è esattamente storica.






ROCCELLO.





Nec memor eris iniuriae civium tuorum.

(Levit. 19. 18).



Oh sospirato d’indulgenza alterna
Malagevol ritorno, allor che fiamma
Di discordia civil tocche ha l’irose
Schiatte de’ forti! Nè bastò la fuga
5Delle guelfe di Napoli bandiere
E del lor collegato empio Manfredo
A raddur tosto pe’ Saluzzii lidi
L’armonia del perdono e delle paci.
Aperti scherni ed avventate punte
10Di calunnia secreta e più crudele

Affliggean le famiglie, e singolari
Ne seguìano certami e vïolenti
Scoppi a vendette. Il buon Roccel, perduti
Ambo i vecchi parenti, e contristato
15Dallo spettacol di cotanti sdegni,
Caduta in troppe a lui sembrò bassezze
La stirpe umana entro la patria terra.
     Di Milan sorrideagli e de’ Visconti
La rimembranza, ed a Milan s’avvia
20Vagheggiando col fervido pensiero
I costumi leali e generosi
Della città lombarda. — Oh dell’estinta
Mia genitrice amata culla! Oh pie
Torri de’ suoi congiunti! Oh come tutta
25Combacian quest’amante anima i fatti
De’ cavalieri che in Milano io vidi!
Là s’albergo pur v’hanno alcuni indegni,
I degnissimi abbondano: là i cuori
Intemerati a cuori intemerati
30Unir si ponno e confortarsi. Un tempo
Anco Saluzzo e le sue valli amene
Eran così; mietute ha cruda guerra
Le magnanime vite, e brulicante
Vil di rettili resta oggi semenza.
     35Scotea le spalle il suo scudier Gilnero

Dietro a lui cavalcando: — Illustre sire,
Trista per ogni dove è l’agitata
De’ mortali progenie, e sol da lunge
Sfavillan di virtù le stranie rive.
     40— Gilner, tu ignori l’età nostra: eccelse
Speranze arridon per più genti, e il loco
Onde arridono più, certo è Milano.
Grandi cose avverran: d’uopo il mio core
Ha di batter fra giusti e fra gagliardi.
     45— Signor, di giusti e di gagliardi copia
Non nutre alcun terren.
                                                  — Grandi ti dico
Avverran cose in questo secol. Rozza,
Ignara del presente e del futuro
È la nostra Saluzzo; io nella sede
50Degli operanti e de’ veggenti spirti
Nato a viver mi sento.
                                              — Udite, o sire . . .
     — Taci.
                      E Gilner tacea; ma affettuose
Occhiate indietro qua e là gettava
Ai Saluzzesi campanili, ai poggi
55Che dalle mura estendonsi con tanta
Varïetà e vaghezza di contorni
Per le verdi convalli, ed agli acuti

Gioghi che più remote alzan le teste
Coronate di neve. A quell’aspetto
60Sin da’ prim’anni a lui sì caro, il mesto
Scudier sospira e brontola: — Contrade
Si cerchin pur simili a questa! Il mondo
Alquanto anch’io stolidamente ho corso:
V’è un sol Monviso sulla terra, un solo
65Gruppo di monti come quello, un solo
Pian che s’agguagli di Saluzzo al piano.
Su via, vediam quel de’ Lombardi. Un tempo
So che di maestose ombre penuria
Patìa pe’ molli prati, e su quel guazzo
70Giacean fetide nebbie. Or sarà, certo,
Ricco di piante al par di questo, e scarso
Di pantani e di febbri; e trasportate
Le bige nebbie si saranno oltr’Alpe.
     — Gilner, non adirarmi: e quando cieco
75Ti parvi di mia patria alla bellezza?
Non questa fuggo, ma color che iniquo
Su terra sì gentil traggon respiro.
     Brontolava sovente il buon seguace,
E gemiti mandava, e sovra gli occhi
80Talor di furto colla destra il pianto
Mal compresso tergeva; e se Roccello
Vedea quel pianto, commoveasi anch’esso

Ma celava del dolce animo i sensi,
E si fea beffe di Gilner. — Cinquanta
85Anni, e sei debol come donna!
                                                               — Ingrato
A mia terra non son, dicea con ira
Il rozzo Saluzzese: amo ed onoro
Tutte le sponde sue, tutti i suoi rivi,
Perchè infinita all’alma mia recaro
90Per molt’anni letizia! Un Saluzzese
Che s’innamori di straniere spiagge,
Sire, oltre voi, lo cercherete indarno.
     In tali avvicendati impeti il suolo
Di Piemonte magnifico varcaro
95I duo peregrinanti, e nella Insùbre
Signorìa de’ Visconti eccoli alfine.
     Bello l’aspetto della reggia altera
Ove rinnovellato han de’ Lombardi
La monarchia i Visconti, esterminando
100La invecchiata repubblica! E del forte
Imperante Luchin bella col saggio
Fratel Giovanni l’armonia perpetua,
Mentre Giovanni dall’Olona il lituo
Stendeva episcopal per così vasta
105Regïon cisalpina! Ambo i fratelli
Sprona eccelso desìo: giustizia, freno

Alle gare de’ grandi e alle plebee,
Accrescimento di virtù guerriera,
Civil, religïosa. Ogni sublime
110Italo ingegno è loro amico: il sommo
Petrarca istesso ad Avignone omai
Vuol Milano anteporre. Oh bella, oh piena
Di nobili destini una contrada
Signoreggiata da potente senno,
115Il qual sue lance dilatando astringe
Popoletti ad unirsi, e così sempre
Prosperità, studi e fortezza aumenta!
     In tal guisa Roccel solea dapprima
In Milano esclamare. Esilarati
120Venìan gli spirti suoi dalle splendenti
Feste del prence in Lombardia primiero
Che a lui dal seggio sorridea, siccome
A tutti sorridea gli ospiti illustri,
Anelando in occulto alle sue mire
125Ambizïose partigiani farli.
E ricolmo di grazie iva Roccello
Dalla moglie del prence incantatrice,
Isabella del Fiesco, emula a grandi
Regine della terra in gemme ed auro
130E di corte eleganza e di conviti.
Tali accoglienze un fàscino alla mente

Poser del saluzzese ospite, a segno
Che men trista gli parve una sciagura,
Il non trovar tra’ Milanesi amati
135Alcuni volti consanguinei. Morte
Ed esilio colpite avean più teste
Ne’ giorni infausti in che Luchino ad uno
De’ suoi proprii fratelli, al bellicoso
Marco, troncò le trame e in un la vita.
     140Roccel creder non può che nell’orrenda
Storia del fratricidio il gran Visconte
Da tiranno operasse. Ode assai bocche
Giustificarlo ed attestar che il sire
Dannò, costretto da giustizia e rischio,
145L’empio fratello, e in condannarlo pianse.
     Sol dopo trenta giorni al buon Gilnero
Badò Roccello alquanto. — Il cor, signore,
Quei gli dicea, voi nella reggia aprite
Alle voci di tali infra i Lombardi,
150Cui prodiga Luchino ogni onoranza:
Io parlo al popol. Di Luchino il regno
Regno è di frodi e sangue. Il trucidato
Marco avea queste colpe: alti pensieri
Pel comun bene e invitta spada e senno.
155Tolta la vita all’innocente prode,
Vite molt’altre caddero. Il terrore

Per le vie di Milan muto passeggia,
E questa in ogni dove or celebrata
Prosperità, è menzogna. A signoria
160Dritti non ha Luchino, e dove manca
La possanza de’ dritti, usasi il ferro.
     — Fole, Gilnero mio.
                                                — Fole? E l’indegna
Di Luchino alleanza oggi col rio
Filippin de’ Gonzaghi, uom che fregiato
165Della corona mantovana obblìa
Ogni fè signorile, e omai s’agguaglia
Con sue perfidie ai masnadier più vili?
Udiste pur di Filippin l’infame
Sovr’Obizzo degli Esti tradimento,
170Promettendogli il passo, e su lui quindi
Con oste scellerata prorompendo
Che fe’ de’ pellegrini ampio macello?
     Vero, inaudito, orribile misfatto
Mentovava Gilnero, e collegato
175Col truce sire infatti era il Visconte.
     — Taci, dicea Roccello al temerario
Ragionator. Ma breve tempo quegli
Ammutolisce e a mormorar ripiglia:
     — Luchino un grande cavalier? Luchino
180Degno di regio serto? Il salvatore

Ei dell’itale glorie? Alma villana
Mascherata da re! Col fratricidio
Non si pianta un impero a’ dì cristiani.
Indarno ei rapinava una dop’altra
185Città qui intorno tante, e si curvaro
Alla vipera alzata in sanguinosi
Stendardi Alba, Cherasco, Asti, Alessandria,
E intero omai s’arroga egli il Piemonte.
Gloria oggidì al ladrone, e doman forse
190La fune al collo! Eroe lo chiaman oggi;
Doman da quei che gli movean più laudi,
Si scaglierà sulla sua tomba oltraggio!
     — Taci! era il grido di Roccello ancora.
Ma ruminava ei di Gilnero i motti,
195E scrutando iva poscia altri pensanti;
E a poco a poco discoprìa infelice
La città Milanese, e fremebonda
Di rancori indelebili e di trame.
Vide egli stesso di Luchin nel tetto
200Paure e inimicizie ed immolate
Nobilissime fronti; e vide il sommo
Vate Petrarca abbrevïar l’ospizio
Largito a lui dal protettor Visconte;
E dalle labbra di quel sommo intese
205Questo secreto, spaventevol detto:

— Qui sovrasta ogni dì spada o veleno!
     La bellissima Ligure Isabella,
De’ Milanesi ammalïante donna,
Al Veneto san Marco un voto sciorre
210A que’ tempi volea. Glielo consente
Il signor suo. Con sontüosa, immensa
Di liete dame e lieti cavalieri
Cavalcante brigata ella al devoto
Viaggio move1. Italia mai non ebbe
215Lusso più vago di monili e insegne
E vesti ed armi e splendidi corsieri,
Ed arpe e trombe e canti. Anco Roccello
Quelle pompe seguì, vago ad un tempo
Di visitar la veneta laguna,
220Ed ansio nel cor suo di trarsi a lochi
Men da rammarchi e tirannia infestati.
     — Nasconder non tel vo, fido Gilnero:
Con letizia abbandono or quelle mura
Che più non son la mia gentil Milano
225Degli anni andati, quando tanti avea
La genitrice mia concittadini
A lei pari in contento e cortesìa.

Spenti sono i migliori, e succeduta
È qui razza di mesti e di discordi
230Ch’ogni dì più contristerìami. Or voglio
Questa regal magnificente corsa
Assaporar per via; fermo in Vinegia
Prendere ostello intendo poi: Vinegia,
La città senza esempio! il più bel frutto
235Dell’italica mente! il seggio dove
La maestà si ricovrò latina!
Barbara cosa è tutto il resto: i soli
Veneti han leggi e libertà e senato
Come i prischi Romani, e ad emularli
240Chiamati son per l’universa terra.
     — Vedrem, dicea Gilner, vedrem codesta
Città di fetid’acque e di palagi
Piantati nella melma! E veneranda
Nazïon certo ne parrà una ciurma
245Di possenti pirati, usi a galere
E traffichi e saccheggi, ingentilita
Men fra cristiani che fra turchi e mori!
     Ma giunsero a Verona, e qui la moglie
Del temuto Luchin maravigliose
250Accoglienze gioconde ebbe dai duo
Scaligeri fratelli ivi regnanti,
Mastino e Alberto: illustre coppia e forte

D’unanimi signori, anch’essi audaci
In desiderio di supremo impero.
     255Il saluzzese cavalier si piacque
Su’ bei liti dell’Adige, e più lieta
D’ogni altra corte or giudicando questa,
Disse a Gilner: — Se poi Vinegia a noi
Stanza grata non fosse, io, vedi, ho fermo
260Di trarmi a queste sponde. Il sai, prosapia
È d’eroi la Scaligera, e la insidia
Qui della serpe Viscontèa non cova.
Dante Alighier, quel lume delle genti
Che passato e presente e avvenir seppe,
265Com’ esul fu dalla sua ingrata terra
Qui portò i passi, ed altre itale reggie
Non onorò sì lungamente. È fama
Che l’ispirato ingegno presagisse
A questa prode casa alte fortune.
270In Mastino ed Alberto io veramente
D’anime grandi e voci e modi scerno.
     — Signor, non volge lungo tempo, il guardo
Accarezzante e astuto del Visconte
Apparìavi innocenza di colomba.
     275— Taci!
                      — Que’ nomi di Mastino e Cane
Che di Verona usano i prenci, un segno

Mi par di minacciosa indol cagnesca,
Più che di santa carità e di pace.
     280Proseguiro il vïaggio, e finalmente
Videro la laguna e di san Marco
Le mura incomparabili. Il superbo
Doge e il Senato e innumerevol folla
D’uomini e donne illustri a Dea simìle
285Tenner la bella di Milan signora,
E d’onoranze pie la inebbrïaro.
     Fulgeano i giorni dell’Ascensa e il ricco
Sfoggio di tutte merci e tutti giochi,
E in Vinegia fervea gente di cento
290Itale spiagge greche e saracine;
E il portentoso Bucentor dai mille
Remi indorati recò il doge in trono
Sulle sparse di fiori onde spumanti,
Ed allor dalle dita il doge trasse
295L’anel, gettollo, e si sposò col mare.
     Più d’Isabella forse inebbrïato
Da sì vaghi spettacoli era il core
Immaginoso di Roccello. — Oh primo
Popolo di quest’orbe! Oh manifeste
300Testimonianze d’opulenza e regno
Che crebbe e cresce e crescerà! Oh ridenti
E colte labbra anco del volgo! Oh dolce

D’amor linguaggio e d’intima blandizie
Costringente a fiducia! Oh maga stirpe
305Che da pantani eleva case e templi,
Ed eserciti crea, manda, alimenta,
E miete palme, e serto a serto aggiunge!
Qui respirar vogl’io; qui mi vo scerre
Gentil compagna, e padre esser di prole
310Cui toccar possa virtù chiara e gloria.
     Brontolava Gilner, ma ― Taci! taci!
Gridò con più vigor l’acceso sire;
Veneto voglio farmi, allo stendardo
Sacrar della repubblica il mio brando,
315Mescer di prode Saluzzese il nome
Ad immortali Adriaci nomi. In guerra
Sta Vinegia co’ Dàlmati: sottratte
Al cenno suo di Zara son le torri,
Per impulso degli Ungheri; ma il forte
320Leon non perde sue conquiste mai.
     Ciò meditava il cavaliero, e intanto
Fama gli arriva di severe, atroci
Opre de’ reggitori. E Zara ed altre
Città soggette fremono di leggi
325E di capricci d’avidi mercanti
Fattisi quasi prenci. Entro la stessa
Celebrata laguna, appo quel vampo

Di libertà e di riso e di saggezza,
S’odon sommessamente acerbe storie
330Di tribunal secreto e di profonde
Fosse per vivi seppelliti, a piedi
Della reggia de’ dogi; e su tal reggia
Mentovavansi bolge arse dal sole
Sotto infocati piombi, e là espïati
335Venìan da illustri vittime delitti
Che il volgo mal sapea, che il volgo in dubbio
Osava por. Malediche, oltrespinte
Eran tai voci del terrore, e niuno
Forse dalla repubblica iva tolto
340Dal dolce liber’ aer, se d’esecrandi
Fatti non reo. Ma all’alma di Roccello
Que’ vivi seppelliti e quelle bolge
Che son corona a tal palagio, un sogno
Angoscioso divennero. Imprudenti
345Quesiti usò su quelle storie, ed ecco
Farglisi incontro, un dì, cortese fante
De’ vigili patrizi imperadori,
Il qual l’avverte pronta esser la nave,
E l’affretta a salirvi, e gli pronuncia,
350Sotto pena di scure, eterno bando.
     Non è a ridirsi il sogghignare amaro
Del fremente Gilner. Giunti alla riva,

E risaliti sull’arcion, guardossi
Intorno intorno lo scudier, poi volto
355Ver la città dell’acque, alzò la destra
E a mezza voce fulminò parole
Di maledizïon. Non l’interruppe
Con dirgli « Taci » in sulle prime il sire,
Ma diessi poscia ad acquetarlo.
                                                               ― Eh via!
360Non t’infiammar con tal corruccio il sangue.
Tedio noi già prendea di quelle meste
Gondole e de’ canali impegolati,
E i piedi nostri e de’ corsier le zampe
Nascean per batter sul terren le impronte.
     365— M’era dolce, o signor, che di quel lezzo
Ci traessimo alfin, ma volontarii,
Non come coppia di birboni espulsi!
Ed espulsi da chi? Da insolentita
Di possenti usurai turba corsara!
     370— Oibò, Gilner! qualche rigor molesto
Ponno i Veneti oprar, nè però cessa
Delle lor leggi il venerevol lustro:
Fu colpa mia; che di maggiore ossequio
Era a tai leggi debitor. Creduto
375M’hanno inimico, e pur, tu vedi, in ceppi
Non siam ne’ pozzi o nell’aeree buche.

     — Meglio infatti così! sclamò Gilnero;
Ma dove andiam?
                               — Mel chiedi? Al cor mio nota
380Città non è che in leggiadria e costumi
Cavallereschi agguaglisi a Verona:
Da lei scostarmi io non doveva; e l’orme
Sacre di Dante ivi mi legan.
                                                        — Parmi
385Che qua e là, come le nostre, erranti
Vagasser l’orme di quel vate, ognora
Fiori di senno e carità cercando,
Ed abbrancando non que’ fior, ma spine
E morte frasche e laidi insetti e rospi.
390Ma l’esul Fiorentin dritto al compianto
Avea d’ogni gentil, chiuse dall’arme
Veggendosi le valli, ove ne’ campi
Degli avi suoi vissuto fora, amando
Se non tutti i mortali, almen taluno
395De’ servi e cani delle sue pareti.
Noi, sir, compianto non mertiam, fuggendo
Senza esilio que’ lochi ove la polve
De’ padri nostri giace, ove ogni zolla
Rammenta di que’ padri angosce o gioie
400Ad essi sacre, e non men sacre ai figli.
     — Taci! disse Roccello. Ed ambidue

S’asciugaron le ciglia.
                                              Entro il regnetto
Della prosapia da Carrara i passi
Misero i vïaggianti, ed ivi i dotti
405Portici Padovani appena tocchi
Venner dal cavaliero, a questo un fante
Cortese come il Veneto affacciossi.
     — Illustre sir, picciolo prence è il nostro,
E l’ira di san Marco evitar debbe:
410A voi di là bandito i Padovani
Dar non possono ospizio: uscir vi piaccia.
     Sulle cavalcature i Saluzzesi
Risaliron mirandosi, e Gilnero
Vermiglia come brage avea la faccia.
415— Spero, disse a Roccel, che da ogni lido
Sarem cacciati come ladri, e grazia
Poca non fia se n’è sparmiato il laccio.
     Ma novamente in breve eccoli a riva
Stanzïati dell’Adige, il fremente
420Gilnero sbadigliando, e il lieto sire
Gioie di cavalieri assaporando
Ora a torneamenti, or a pompose
Sere di corte, ove su nobili arpe
La scaligera gloria i trovadori
425Su tutte glorie esaltano, e obblïato

Non è l’ospizio e l’amistà che v’ebbe
Il ramingo signor de’ patrii canti.
     Ma dopo il giro di due lune, oppressi
Cittadini conobbe il Saluzzese,
430Che si dolean secretamente: il tempo
Esser dicean per sempre estinto, in cui
Davver fiorìa Verona, uomini insigni
Recando in seggio. Or tralignato il seme
Stimavan de’ lor prenci. Or su Verona
435Primeggiante vedean di giorno in giorno
Vieppiù Milano: or non fulgea più raggio
Di grandezza ai nepoti; ora infamato
Iva il nome scaligero da paci
Ed alleanze instabili e bugiarde,
440E pazze guerre e di giustizia spregio.
     S’attristava Roccel considerando
Come per ogni umana gente, accanto
A superbe allegrezze e a larghi incensi
Tributati al natìo suolo beato,
445Ferva di sconsolate alme il dolore,
Ch’ivi non veggion fuorchè fango ed onta.
     — Dunque, ei dicea (non a Gilner, ma chiuso
Entro se stesso), a che vogl’io contrade
Trovar migliori di Saluzzo? Inferma
450L’umana razza non è tutta al pari?

Vana apparenza ognor non sono il lustro
E l’albagìa de’ più cospicui lidi?
Vana apparenza non è tutto, i retti
Pensieri tranne e le magnanim’opre?
     455Meditava ei così, ma fantasie
Più splendide e men vere indi volgea,
Che bello il secol gli pingeano, e bello
Il vincolarsi all’inclito destino
De’ prenci più operosi e più possenti:
460Alte dal secol suo cose aspettava,
E da Verona or presagìane il cenno.
     Del bando a lui da’ Veneti scagliato
Voce traspira intanto, e da maligni
O sospettosi inventansi novelle
465Sulla cagion del fatto. Ei di Luchino
Viene estimato esploratore astuto,
E cessano per lui gli accoglimenti
Nelle sale de’ sommi ed il sorriso
Delle dame scaligere. Egli espulso
470Per comando non vien, ma dai serrati
Cuori si scosta disdegnoso e parte.
     Invan Gilnero, il curïoso adunco
Naso arricciando, investigar tentava
Dal taciturno signor suo le cause
475Del pronto dipartir. — M’era avvezzato,

Sire, a quelle bell’onde, a que’ bei colli,
A quel sublime anfiteatro, a quella
Cavalleresca, franca indol soave
Della incorrotta Veronese stirpe.
480E da lei ci togliam? Sire, io non penso
Che pur qui v’abbian detto: « Ite in mal’ora ».
     — Temerario!
                             — Ma dunque . . .
                                                             — Ognor vaghezza
Di Fiorenza ebbi, e visitarla or voglio,
E so ch’ella Verona in pregio vince.
     485— Bel pregio, parmi, esser madrigna atroce
A quel re de’ poeti, onde cotanto
Italia e tutta umanità s’onora!
     — Dell’Alighieri a’ tempi incrudeliva
Parte malvagia entro Fiorenza; or pio
490Vi campeggia stendardo, e all’Alighieri
Culto, siccome a patrio angiol, si rende.
     Mossi i duo Saluzzesi ecco alla volta
Delle tosche amenissime colline,
E toccan pria le fertili campagne
495Dell’Abdüano, e non si ferman, tanta
Ira colà nutrono i petti al nome
Di Filippin di Mantova tiranno;
E varcan per Ferrara, egregia sede

D’Obizzo Estense, ma laddove il ferro
500Sempre sovrasta del vicin Gonzaga
E del Visconte, e queta alba non sorge;
E varcan per Bologna, ove l’acciaro
Stendon robusti i Pepoli, ma dove
Da’ nemici de’ Pepoli ogni notte
505S’alza tumulto, e pallidi il mattino
I passegger pacifici bagnate
Veggion di sangue cittadin le vie,
Od appesi alle forche i ribellanti.
     — Salve, Fiorenza! un dì sclamò Roccello
510Con ardente esultanza, allor che alfine
Vide sulla pendice i generosi
Tetti della repubblica più ardita
Che in cor d’Italia splenda. A te serbata
Di tutta Etruria è signorìa secura,
515Dacchè il ciel maledetta ha l’esecranda
Torre di Pisa, ove perìan di fame
I figli d’Ugolin: Pisa, già donna
Di tanti mari e terre, oggi da guelfi
E ghibellini lacera e da nuovi
520Ospiti protettori ogni dì spoglia.
Salve, o patria di vati e di guerrieri,
Che non han pari altrove! Oh, finalmente
Avrà qui posa il mio agitato spirto,

Avido d’alti fatti e di verace
525Gara per dritti e libertà ed onore!
     — Ma parmi, o sir, che, non ha molto, un grido
Universal vilissima chiamasse
Questa prosapia di toscani eroi,
Curva a lambir d’un cavalier francese
530L’orme sanguigne.
                                      ― Oibò, Gilnero! Il tristo
Gualtier duca d’Atene avea la stolta
Sua gallica arroganza ivi recato,
Soggiogarli sperando; e più rifulse
Di Fiorenza il valor! più la concordia
535Contro a straniere tirannie! Di laude
Più che mai degna è questa illustre terra.
     Così in Fiorenza entrarono, e tre giorni
Roccel d’amor s’inebbriò e d’ossequio
Per quelle mura, per quel ciel, per quelle
540Argute faccie, per quel dolce vezzo
D’un idïoma che le grazie vince
Pur de’ veneti suoni, e per palagi
E chiese e monumenti, ove di grandi
Anime tante la memoria vive:
545E d’amore e d’ossequio inebbrïossi
Per le repubblicane alto-sonanti
Paterne leggi, onde con bello orgoglio

Favellava ne’ trivii anco l’artiero.
     Volgea la terza notte, i Saluzzesi
550Desta ad un tratto un rombo, ed era a guisa
Di nembo e terremoto. Ed ecco rugge
Di strida l’aura, e splendono attraverso
La fenestra giganti orrende fiamme
Divoratrici di civili alberghi.
555S’alza Roccel, s’alza Gilnero: ascolto
Porgono all’empie voci, e gridar morte
Odono a’ guelfi e morte a’ ghibellini,
E viva i buoni popolani, e viva
Le patrizie famiglie! Intanto ferve
560Carnificina sino all’alba; e poscia
Ecco feste e clamori di vittoria,
Ed a suono di trombe un proclamarsi
Felicità, cui mischiasi condanna
Di scure o strozzamento a’ reggitori
565Che regnavano ier, se alcun di loro
Fia che al notturno scempio anco sorviva;
Ed insiem si proclama uno stupendo
Magistrato di plebe imperadrice,
Tutto saggezza e libertà e confische,
570E carità di patria e manigoldi.
     In tal trionfo di giustizia e senno
Roccello e lo scudier venner percossi

E ingiurïati e rapinati, e a stento
Salvo recàr lunge dall’Arno il capo.
     575Frenar Gilnero or chi potea? ― Villana
Di beccai libertà! sozza di schiavi
Sollevati repubblica! Ed è questa
Dell’itale divine arti la terra?
La degna patria d’Alighier? la gente
580Che se vivo il dannò, morto l’adora?
Oh! nella schiatta saluzzese lingua,
Razza di! . . .
                          — Taci; andiamo. Oggi qui palma
Pur troppo han colto i rei. Se piace a Dio,
Roma ci appagherà.
                                        — Roma? Neppure
585Il Padre Santo più v’alberga!
                                                            — I tempi
Trapiantavan la sede in Avignone,
Ma al Tebro, il sai, riede Clemente alfine.
     — Quando vedrollo, il crederò: promesso
Da molt’anni è il ritorno; ad impedirlo
590Troppi s’adopran fra romani istessi.
Lasciamo, o sire, i vani sogni. Il mondo
S’approssima al suo fin, tutto è rapina,
Fraude, eresia, bestemmia; e più si muta,
Più si peggiora. Un angolo men tristo

595In quest’ampia penisola rimane
All’alme generose, ed è Saluzzo:
Colà si nasce ancor come nasceste,
Come nacqui io: garrula gente, ardita,
Prona ad afferrar brandi e a menar busse,
600Ma larga di compianti e di perdoni.
     Rivolto a Roma, non badò Roccello
Al consiglier che lo seguìa cruccioso;
E più cruccioso, imperocchè per via
Cose orrende s’udìan dell’empia stirpe
605Onde in Ravenna uscita era Francesca,
La trucidata in Rimini infelice.
     Regnava Ostasio, e morto questo, il serto
E i mutui dì s’insidïaro i figli
Con nere trame, ed un de’ tre sgabello
610Fece a sua gloria i duo fratelli in ferri.
     Odono i vïatori anco tragedie
De’ Malatesti a Rimini imperanti,
E de’ tiranni di Forlì Ordelaffi,
E de’ Trinci in Foligno, e delle venti
615Schiatte di masnadieri insignoriti
Di Romagna e di Marca e dell’antico
Patrimonio di Pier. Mille fïate
Più di pria sanguinose eran le genti
Di quel latino suol, dacchè lontana

620La tïara gemea quasi captiva.
     Sconfortato Roccel da tante voci
Di sciagure e di colpe, arrivò un giorno
Alle sette colline, e messe appena
Nella sacra città l’umili piante,
625Andò ne’ templi a lagrimar. Chi puote
Non lagrimar mirando Roma e tali
Di sua crollata possa orme famose,
Ed orme di miracoli e martirii,
E pur troppo fra i santi anco frammiste
630Alme d’Iscarïoti e di perenni
Del Figliuolo di Dio crocefissori!
     E assai giorni Roccello e il suo scudiero,
Le romane basiliche ammirando
E le mille ruine e le vetuste
635Effigie e le colonne e gli obelischi,
Alternàr gioia e lutto ed ira e scherno
E penitenza e preci, ogni pensiero
Della terra obblïando oltre a’ pensieri
Che in lor destava la città rëina,
640Afflitta sì, ma ognor rëina al mondo
Per memorie e speranze e immortal ara.
     A far vieppiù maravigliosa e grande
La città de’ portenti, ecco a tai giorni
Sorger Cola di Rienzo, uom che insanito

645Pareva e saggio, e invaso da potenza
Non si sapea se interna o celestiale.
     Abbietto di prosapia, alto d’ardire,
Vissuto in gravi studii, amico a’ sommi
Di dottrina e di cor, predicò, volle
650Che da Avignon la Pontificia Sede
Sul Tevere tornasse, e poichè udita
Non fu sua voce, sguäinò la spada,
Quasi guerrier profeta, e intitolossi
Tribuno e sire e correttor dell’orbe.
     655Tal fu l’audace senno o gl’incantesmi
Del plebeo fatto eroe, che al suo comando
Patrizi e popol si curvaro, e plausi
Ebbe da re lontani, e il suo stendardo
Parve a Petrarca stesso il destinato
660Per ristaurar giustizia e fede e pace.
     Ratto elevossi e ratto cadde, e ratto
S’elevò ancor l’incomprensibil forte,
Adorato e imprecato. Oh quante in esso
L’alma fidente di Roccel sognava
665Forze divine! Or nella vera patria
Ei si credea de’ generosi, e patria
A se medesmo Roma indi eleggea!
Sublimi, eterne gli parean le leggi
Di quel re popolano: alme d’eroi

670Pareangli tutti, e sommi ed imi, in Roma.
E che a Roccello non parea? . . . Gilnero
Zufolava fremendo e intercalando:
Cola di Rienzo il tavernar! costui
Aver senno da Cesari! Albagìa
675D’uom che impazzì su que’ vetusti libri
Di cui la gente il dice dotto, e breve
Reca stupor! ne ghignerem dimane.
     E la dimane da Gilner predetta
Spuntò non tarda. Il dotto imbaldanzito
680Sol ne’ volumi conoscea la grande
Arte del regno, e in suoi pensier foggiava
Uomini antichi, ed ignorava il core
De’ respiranti, e gioco alto imprendea
Da giocator frenetico. Trasparve
685Tra’ suoi lampi d’ingegno al mobil volgo
La stoltezza di Cola, e fin que’ lampi
Gli si negaro, e l’appellar buffone,
E riser di sue leggi e dalle spalle
Strappargli voller di tribuno il manto,
690Ed ei chiamò i suoi fidi alla battaglia,
E quei che fidi ei riputava, il ferro
     Volser sull’idol loro e il laceraro!
In quella orrenda civil pugna, il folle
Parteggiar di Roccel per l’assalito

695L’espose a risse ed a coltelli. A stento
Si strascinò ferito alle ospitali
Soglie d’un chiostro, e le pietose cure
Di Gilnero e de’ frati il serbàr vivo.
     Il magnanimo infermo cavaliero
700Più dì e più notti delirò, imprecando
I nemici di Cola e Cola istesso,
E le promesse e le speranze e l’ire
Del suo secol maligno, e ciascheduna
Delle da lui percorse itale spiagge.
     705Gilner l’interrompea: — Saluzzo in vero
Non è paese come questi, e vale
Tutte le Rome della terra: ad ogni
Paio di birbi abbiam cinquanta onesti!
Ad ogni donna vil, cento zitelle
710E cento mogli che son perle! Andate
Dove volete, una Saluzzo è sola!
     L’infermo cavalier ne’ suoi delirii
Tai di Gilnero udendo amate voci,
Non discernea chi il parlator si fosse,
715E a lui diceva: — Oh! chi se’ tu, cortese
Venerando filosofo, che alfine
Sveli al mio indagatore, avido spirto
La contrada cui tende ogni mia brama,
La contrada de’ buoni?

                                                 — Io son Gilnero,
720E a Dio piacesse ch’io vi fossi ognora
Sembrato un venerando! Io vi consiglio
Di risanar dalle ferite e in uno
Dalle vostre follìe. Cercando eroi
Si trovan coltellate, e si consuma
725Inutilmente sanità e danaro.
     ― Dunque?
                           ― A Saluzzo tornerem.
                                                                        ― No: vista
Non ho Napoli ancor, la fortunata
Monarchia di Giovanna: ah troppo dure
Son le maschie superbe anime, e solo
730Dove bella Reina un popol regge,
Imperar ponno amore e pace e gloria.
     Ito a Napoli fora il cavaliero,
Ma mentre ei stava risanando, crebbe
Contro Giovanna in tutta Italia il grido,
735Aver dessa aguzzato i brandi infami
Che la francàr dall’abborrito sposo,
Ed esser già del novo sposo stanca,
Ed avvilirsi in empi amori, e tutto
Esser rivolte ed omicidii il regno
740Ed alterne vendette e sacrilegio.
     — Dunque? ridisse al buon Gilner.

                                                                            — Saluzzo!
Ripigliò questi.
                                 E uscirono del chiostro,
Mercè rendendo alla ospital famiglia
De’ fraticelli. E uscirono di Roma,
745E verso le dilette Alpi lontane
Venner ricavalcando. Ardui perigli
Incontran mille, ma le sponde un giorno
Ritoccan del Piemonte, e omai vicina
La maestà riveggion del Monviso,
750E le pendici amene, innamoranti
Del marchesato. Oh grande, oli incomparata
Gioia a chi mosse ramingando in cerca
D’egregi umani e di felici terre,
Ed incontrò per ogni dove umani
755Da colpa travagliati e da sventura,
E ritornando alle natìe convalli
Gli amici primi si ricorda, e i fatti
Glorïosi degli avi e l’indol cara
Della fraterna stirpe! Invaso il seno
760Da quella nova gioia avea Roccello,
Nè il suo Gilner con palpiti men dolci
Salutava l’Eridano ed i poggi
Di Taurino eleganti e la pianura
D’arbori e prati e campi e ruscei vaga,

765E i monti di Saluzzo, e finalmente
Saluzzo istessa.
                               — Ah vi siam giunti! esclama
Quegli e questi a vicenda; e il cavaliero,
Fervido sempre, altissime, abbondanti
Mette dal cor voci di laude al loco,
770Al principe, alle leggi, a’ consanguinei,
Al volgo, agli usi, alla favella, a tutto.
     — Temprate il foco del contento, o sire,
Dice il savio Gilner: senza magagne
Non evvi terra, ed ha le sue pur questa.
775Ma poichè pieno è di magagne il mondo,
Indulgete de’ vostri avi alla terra
Più che ad ogni altra, e pïamente a lei
Sacrate il senno ed i tesori e il brando.


  1. Vedi il libro del Santarosa, intitolato Scene istoriche del Medio Evo.

Note

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