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Francesca da Rimini
L'ultimo de' puristi Settembrini e i suoi critici

[ 36 ]

FRANCESCA DA RIMINI


Quasi all’ingresso dell’inferno incontriamo questa Francesca che Dante ha fatto immortale.

Per molti la Divina Commedia non è che due nomi soli: Francesca da Rimini e il conte Ugolino. E ci sarebbe da fare un bel volume a raccogliere tutto ciò che si è sottilizzato e sofisticato, a voce o per iscritto, intorno a questi due personaggi.

— Perché Dante ha raccontato con tanto affetto i casi di Francesca da Rimini? — Perché, risponde il Foscolo, Dante ha abitato in casa di Guido da Polenta, padre della giovane, e forse vide la camera dove ella dimorò prima di maritarsi, e forse udí narrare il pietoso accidente dalla famiglia e dové in quella prima impressione concepire quell’episodio, che poi d’anno in anno andò toccando e ritoccando insino a che non l’ebbe condotto a perfezione. — E perché il poeta ha gittato nell’ombra il peccato e dato rilievo a ciò che di gentile ed affettuoso è nella peccatrice? — Per delicatezza e per gratitudine, risponde il Foscolo: perché accolto ospite in casa il padre, gli sapea male di doverne infamar la figliuola. — E perché, volendo giustificare o attenuare il peccato, Dante non ha fatta menzione di una circostanza di molto momento, storia o tradizione che fosse, cioè del perfido inganno in che fu tratta la misera che si credea di sposar Paolo, e solo la mattina svegliandosi si accorse di avere accanto il deforme e sciancato Lanciotto, fratello di lui? — Perché una rappresentazione ideale, risponde il Foscolo, non dovea essere sopraccaricata di accidenti reali che ne avrebbero alterata la purezza. — E perché Dante ha uniti insieme nell’inferno i due amanti? — Perché per sí lieve fallo non sono a dir propriamente dannati, risponde Ginguené; anzi, corregge il Foscolo, perché, se il loro fallo è stato assai grave, come si vede dal verso citato qui sotto, con che si chiude il racconto, la misericordia di Dio è stata maggiore, il quale volle aver riguardo a tanto amore e scemare la pena, concedendo loro di potersi amare anche nell’inferno. — E perché quel paragone delle colombe? — Perché sono animali lussuriosissimi, salta su un comentatore. — E perché il poeta fa parlare Francesca e non Paolo? — Perché le donne, risponde con poca galanteria il Magalotti, sono di lor natura ciarliere; e perché, ripiglia il Foscolo che ha il torto di prendere sul serio tali futilità, le donne quando sono appassionate sentono il bisogno di parlare e di sfogarsi. — E perché Dante sente tanto dolore che la mente gli si chiude «dinanzi alla pietà de’ due cognati?» — Perché, risponde insolentemente un frate, egli dové ricordarsi di aver commesso un peccato simile. —

Ecco un esempio dei perché e dei forse, dietro i quali si stillano il cervello i comentatori di Dante. Mi si dice che nelle conferenze pedagogiche tenute a Firenze si sia molto discorso della Francesca da Rimini, e che il segreto della grande bellezza di quel canto sia stato da alcuni posto nel verso tanto tormentato da’ comentatori:


                         

Quel giorno piú non vi leggemmo avante.

                         

E se questo è, bisogna pur dir che la critica ha fatto cosí poco cammino in Italia da essere ancora possibili simili discussioni, proprie di cervelli oziosi e vaghi di sciarade, ottusi alle pure e immediate impressioni dell’arte.

Ho ricevuto, è un po’ più di un mese, una lettera sottoscritta da tre alunni del Liceo di Bari. Questi bravi giovani volevano da me sapere perché il Petrarca avea scritto il Canzoniere in italiano e non in latino. E mi raccontavano che ci era una scommessa tra loro, sostenendo chi un’opinione e chi un’altra. Ebbi proprio una brutta tentazione. Volevo rispondere che il Petrarca aveva fatto cosí perché Laura non sapeva di latino. Ma parvemi cosa crudele rispondere con uno scherzo a giovani che disputavano con tanta gravitá.

Pur, se la mia voce avesse qualche peso sulla nuova generazione, io direi: — Lasciate queste dispute agli oziosi da convento o da caffé, e voi gittate via i comenti e avvezzatevi a leggere gli autori tra voi e loro solamente. Ciò che non capite, non vale la pena che sia capito: quello solo è bello che è chiaro. Soprattutto, se volete gustar Dante, fatti i debiti studi di lettere e di storia, leggetelo senza comenti, senz’altra compagnia che di lui solo, e non vi caglia di altri sensi che del letterale. State alle vostre impressioni, e soprattutto alle prime, che sono le migliori. Piú tardi ve le spiegherete, educherete il vostro gusto; ma importa che ne’ primi passi non vi sia guasta la via da giudizi preconcetti e da metodi artificiali — .

Tra’ più belli, appunto perché tra’ più chiari, è il canto di Francesca. Ed io domando con che cuore possono i comentatori innanzi ad una creazione cosí limpida abbandonarsi a sciarade e indovinelli e fantasticare su tanti perché. Io non mi tratterrò a confutare le assurde risposte, perché il torto qui non è di aver fatte quelle risposte, ma di aver poste quelle domande. Il che avviene quando l’impressione estetica è giá cancellata, e la mente raffredda, e il critico, non sapendo cogliere la situazione nella sua integritá, si smarrisce ne’ particolari. I quali, separati dal tronco, ovvero dalla loro unitá, in cui è posta la loro ragion d’essere ed il loro significato, si sciolgono nell’arbitrario, e diventano materia di questa o quella supposizione gratuita com’ e’ salta in capo al primo venuto. Sgombriamo dunque il terreno di questi forse e di questi perché, ed accostiamoci a questa primogenita figliuola di Dante con non altro sentimento che quello dell’arte, e con non altro intento che di contemplare e di godere.

Come Dante fu condotto alla concezione di questa Francesca importa poco. E importa meno il sapere se e che il poeta abbia mutato o alterato della tradizione storica. Ciò che importa è questo: che la Francesca, come Dante l’ha concepita, è viva e vera assai piú che non ce la possa dare la storia. Sí, certo. Giulietta ed Ofelia e Desdemona e Clara e Tecla e Margherita ed Ermengarda e Silvia hanno una vita piú salda e reale che non tutte le donne storiche: perché l’ariditá della cronaca e la gravitá della storia toglie a queste tutta la vita intima, ed elle stanno come in lontananza da noi, e le vediamo in piazza e non le conosciamo in casa, e sappiamo le loro azioni ed ignoriamo il loro cuore. Laddove con le altre ci sentiamo a fidanza e quasi familiari, ed elle ci si porgono amabili, e con perfetto abbandono ci rivelano tante riposte gioie, tanti arcani dolori. A questa serie di fanciulle immortali appartiene Francesca; anzi è essa la primogenita, la prima donna viva e vera apparsa sull’orizzonte poetico de’ tempi moderni.

Francesca non è nata se non dopo una lunga elaborazione nelle liriche de’ Trovatori e nella stessa lirica dantesca. Ivi l’uomo riempie di sé la scena; è lui che opera e parla e fantastica; la donna ci sta in lontananza, nominata e non rappresentata, come Selvaggia e Mandetta; ci sta come il riflesso dell’uomo, la sua cosa, la sua fattura, l’essere uscito dalla sua costa, senza personalitá propria e distinta: concetto che il Leopardi ha rappresentato con tanta altezza nell’Aspasia. Talora è un semplice concetto, sul quale il poeta disserta o ragiona come fa spesso il Cavalcanti, e Dante stesso. Poi diviene un tipo nel quale il poeta raccoglie tutte le perfezioni morali, intellettuali e corporali, costruzione artificiale e fredda, assolutamente inestetica. In questo genere la creatura poetica piú originale e compiuta è Beatrice, bellezza, virtù, e sapienza, un individuo scorporato e sottilizzato, non piú individuo, ma tipo e genere; non femmina, ma il femminile, l’eterno femminile di Goethe. Concezione ammirabile; ma non è ancora la donna, non è ancora persona schietta. La potente virtú creativa di Dante non è bastata a fondere insieme tanta varietá di elementi che si trovano in lei congregati, sí che spesso la ti pare una personificazione e un simbolo, anzi che persona viva. Se in queste costruzioni simboliche, teologiche, scolastiche non troviamo la donna, tanto meno vi troviamo l’amore. Anch’esso è sovente una personificazione, una reminiscenza di Cupido; e quando si sviluppa dal mito, ed opera direttamente come forza naturale, malgrado le lagrime e i sospiri del poeta, ci lascia freddi, perché troppo idealizzato, e piú spesso stima ed ammirazione per le nobili qualitá dell’amata e l’eccellenza della forma, anzi che fiamma e furore, come direbbe Ariosto, forza invitta e cieca a cui tutto soggiaccia.

Entro a queste costruzioni artificiali fondate sul culto della donna, posta in cima di ogni perfezione, e simbolo di tutti gli altri ideali che muovono l’uomo, rimane pur sempre il concetto della donna, non solo come il femminile, la bella faccia che l’uomo dá a tutti i suoi ideali, ma come individuo ella medesima, un essere innamorato e gentile. Quest’individuo, sviluppato da ogni elemento eterogeneo, non piú concetto, o tipo, o personificazione, ma vera e propria persona, in tutta la sua libertá, è Francesca. Beatrice è piú e men che donna, quando dice di sé:


                               E chi mi vede e non se n’innamora
D’amor non averá mai intelletto.
                         


Ciascuno presente in queste forme un senso ulteriore e piú vasto e alto che non è il senso letterale. Beatrice qui è piú che donna, è «angeletta bella e nova», è il divino non ancora umanato, l’ideale non ancora realizzato, la faccia o apparenza di tutto ciò che è bello e vero e buono, che attira a sé tutti quelli che hanno virtú d’intenderlo, che hanno «intelletto d’amore». Ma appunto per questo Beatrice è men che donna, è il puro femminile, è il genere o il tipo, non l’individuo. Perciò voi potete contemplarla, adorarla, intenderla, spiegarvela, ma non l’amate, non la possedete con pura dilettazione estetica, anzi ne state a distanza. Il che spiega perché Beatrice non ha potuto mai divenire popolare, ed è rimasta materia inesausta di dispute e di arzigogoli. Francesca al contrario acquistò un’immensa popolaritá presso le nazioni anche meno colte, ed anche oggi in moltissimi ella è rimasta la sola figura sopravvivuta alla Divina Commedia. Certo, non era questa l’intenzione di Dante, il quale, confondendo poesia e scienza, immaginava che dove fosse maggiore virtú e veritá e perfezione, ivi fosse maggiore poesia, e la cosa è tutta al rovescio, perché la scienza poggia verso l’astratto, l’idea come idea, e l’arte ha per obbiettivo il concreto, la forma, l’idea calata e dimenticata nell’immagine, La scienza è il genere e la specie; l’arte è l’individuo o la persona, e piú vi scostate dall’individuo, più sottilizzate e scorporate, e piú vi allontanate dall’arte.

Francesca è donna e non altro che donna, ed è una compiuta persona poetica, di una chiarezza omerica. Certo, essa è ideale, ma non è l’ideale di qualcos’altro, è l’ideale di sé stessa, ed è ideale compiutamente realizzato, con una ricchezza di determinazioni che gli danno tutta la simulazione di un individuo. I suoi lineamenti si trovano giá in tutti i concetti della donna prevalenti nelle poesie di quel tempo: amore, gentilezza, puritá, verecondia, leggiadria. Ma questi non sono qui epiteti, ma vere qualitá di persona messe in azione, e perciò vive. Edipo inconsapevole, Dante ha qui ucciso la sfinge, ed è entrato nel pieno possesso della vita; quella donna che cerca in paradiso, eccola qui, egli l’ha trovata nell’inferno. Francesca non è il divino, ma l’umano e il terrestre, essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, e perciò in tale situazione che tutte le sue facoltá sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni. E questo è la vita.

Non ha Francesca alcuna qualitá volgare o malvagia, come odio, o rancore, o dispetto, e neppure alcuna speciale qualitá buona; sembra che nel suo animo non possa farsi adito altro sentimento che l’amore. «Amore, Amore, Amore!» Qui è la sua felicitá e qui è la sua miseria. Né ella se ne scusa, adducendo l’inganno in che fu tratta o altre circostanze. La sua parola è di una sinceritá formidabile. — Mi amò, ed io l’amai; — ecco tutto. Nella sua mente ci sta che è impossibile che la cosa andasse altrimenti, e che amore è una forza a cui non si può resistere. Questa onnipotenza e fatalitá della passione che s’impadronisce di tutta l’anima e la tira verso l’amato nella piena consapevolezza della colpa è l’alto motivo su cui si svolge tutto il carattere. Appunto perché amore è rappresentato come una forza straniera all’anima e irrepugnabile, qui hai fiacchezza, non depravazione. Francesca è rimasta il tipo onde sono uscite le più care creature della fantasia moderna: esseri delicati, in cui niente è che resista e reagisca, fragili fiori a cui ogni lieve soffio è mortale, e che si rassomigliano tutte per una comune natura. Gittate in un mondo che non comprendono e da cui non sono comprese, tu le vedi, come Dante le rappresenta, «di qua, di lá, di su, di giú», menate dall’onda della loro passione, né possiamo senza strazio vederle nelle tragedie accostarsi piú e piú, ridenti e spensierate, a quell’abisso che elleno medesime si scavano, e dove va a sprofondare, prima quasi ancora che sia gustata la vita, tanta gioventú e bellezza. Qui è la tragedia della donna, variata da mille incidenti, ma con lo stesso fondo. Ofelia, Giulietta, Clara, Tecla, Margherita, Francesca, sono parenti, tutte hanno sulla fronte lo stesso destino. L’uomo nella sua lotta resiste e, vinto anche, l’anima rimane indomata e ribelle: il suo tipo è Prometeo. L’uomo che resista e vinca, può in certi casi essere un personaggio poetico; ma l’aureola della donna è la sua fiacchezza; né moralista otterrá mai che la donna invasa e signoreggiata dalla passione, ove dalla lotta esca vincitrice, sia altro mai che un personaggio inestetico, virtuoso, rispettabile, ma inestetico. La poesia della donna è l’esser vinta, invano ripugnante contro quella ferrata necessitá che Dante ha espressa con rara energia nella frase: «Amore... a null’amato amar perdona». Ma contrastando e soggiacendo ella serba immacolata l’anima, quel non so che molle, puro, verecondo e delicato che è il femminile, «l’essere gentile e puro». La donna depravata dalla passione è un essere contro natura, perciò straniero a noi e di nessuno interesse. Ma la donna che nella fiacchezza e miseria della lotta serba inviolate le qualitá essenziali dell’essere femminile, la puritá, la verecondia, la gentilezza, la squisita delicatezza de’ sentimenti, poniamo anche colpevole, questa donna sentiamo che fa parte di noi, della comune natura, e desta il piú alto interesse, e cava lacrime dall’occhio dell’uomo, e lo fa cadere «come corpo morto». Francesca niente dissimula, niente ricopre. Confessa con una perfetta candidezza il suo amore; né se ne duole, né se ne pente, né cerca circostanze attenuanti e non si pone ad argomentare contro di Dio. — Paolo mi ha amata, perché io ero bella, ed io l’ho amato perché mi compiaceva d’essere amata, e sentivo piacere del piacere di lui. — Sono tali cose che le donne volgari non sogliono confessare neppure all’orecchio. Chiama «bella persona» quello di che s’invaghi Paolo; chiama «piacere» il sentimento che ancora non l’abbandona; e quando Paolo le baciò la bocca «tutto tremante», certo la carne di Paolo non tremava per paura. Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di voluttá. Ma insieme con questo trovi un sentimento che purifica e un pudore che rivergina; talché a tanta gentilezza di linguaggio mal sai discernere se hai innanzi la colpevole Francesca o l’innocente Giulietta. Ci è qui entro un’aura di tenerezza e di dolcezza che alita per tutto il canto, una delicatezza di sentimenti squisita, ed una cotal morbidezza e direi quasi mollezza femminile in che è l’incanto di queste nature, e che si sente cosi bene nel verso:

                               Farò come colui che piange e dice,
                         

cosí simile di senso, ma cosí diverso di accento dall’altro:
                               Parlare e lagrimar vedra’ mi insieme.
                         

Un minimo atto di bontá che passa inosservato per gli uomini volgari, è un tesoro per le anime delicate. Infine che cosa aveva detto Dante?
                               .  .  .  .  .  .  O anime affannate,
Venite a noi parlar, s’altri non niega.
                         

Un interprete si maraviglia che Dante non li abbia pregati per «quell’amor ch’ei mena», come avea consigliato Virgilio; ed un traduttore latino di Dante, un tal D’Aquino, lo corregge appunto come vorrebbe l’interprete. Che cosa è quell’interprete? che cosa è questo traduttore? Sono orecchi sordi, accessibili solo al rombo del cannone. La sola parola «affannate» basta a Francesca da Rimini: è un grido «affettuoso», una voce viva di pietá che giunge al suo orecchio nel regno «dove la pietá è morta», e nella prima impressione il suo primo pensiero è di pregare Dio, come solea fare in terra, per l’uomo che ha «pietá del suo mal perverso». E le esce di bocca la preghiera, ma condizionata con un «se», congiungendovisi immediatamente la coscienza dell’inferno, e come Dio non è piú il suo amico, ed ella non ha il dritto di volgere piú a Lui la preghiera.

                                    Se fosse amico il Re dell’universo
Noi pregheremmo lui per la tua pace,
Poi che hai pietà del nostro mal perverso.
                         

Questa preghiera condizionata, che dal fondo dell’inferno manda a Dio un’anima condannata, è uno de’ sentimenti piú fini e delicati e gentili, colto dal vero. Non c’è la preghiera, ma c’è l’intenzione; ci è terra e inferno mescolati nell’anima di Francesca; una intenzione pia con linguaggio ed abitudine di persona ancor viva, ma che non giunge ad essere preghiera perché accompagnata con la coscienza dello stato presente. Un poeta moderno avrebbe analizzato quello che qui è un solo momento complesso e immediato. Avrebbe rappresentata Francesca in un momento d’oblio, viva innanzi a persona viva, e le avrebbe interrotta in bocca la preghiera con un «ahimè, che dissi!», ecc., con un rapido ritorno su di sé stessa, che sarebbe un colpo di scena assai patetico e di sicuro effetto. E ciò facendo sarebbe stato critico e non poeta, avrebbe analizzato due movimenti interni e contrarii che qui si presentano contemporanei, l’uno nell’altro, e la calma e sintetica esposizione di Dante avrebbe ridotta in un artificio rettorico. Il medesimo fanno questi benedetti comentatori, che analizzando e sottilizzando guastano e corrompono il gusto. Francesca dice:

                         
Ma se a conoscer la prima radice
Del nostro amor tu hai cotanto affetto.
                         

e i comentatori notano: — Affetto qui è figura rettorica, e significa desiderio! — . Gente senza cuore e grossolana, che guasta ogni piú delicata bellezza di sentimento. Quando Francesca, sforzando la grammatica, dice «affetto», non è giá il desiderio che Dante abbia di conoscere la sua storia che le si presenta immediatamente innanzi, ma l’affetto col quale esprime il suo desiderio, non avendo potuto sfuggire a quell’anima delicata il modo commovente col quale Dante chiamandola per nome disse:

                               .     .     .     .     .     Francesca, i tuoi martiri
A lacrimar mi fanno tristo e pio.

                         

E tutto in quest’immagine è cosí fine e delicato. Morire, per Francesca, è perdere «la bella persona» che piaceva tanto a Paolo; melanconico pensiero di donna e d’innamorata, raddolcito da quest’altro pensiero sopraggiunto ch’ella morí insieme con lui: fu «una morte». Amore fu per Paolo necessitá di core gentile e per lei necessitá di donna amata.

                               Amor che a cor gentil ratto s’apprende...
Amor ch’a nullo amato amar perdona...
Amor condusse noi ad una morte.

                         

In questi tre versi ammirabili c’è tutto l’eterno romanzo dell’amore, come comparisce alla donna, Questa Francesca è tanto gentile che, quando dee esprimere una cosa che dispiaccia e desti disdegno, dice il fatto nudo e breve senza qualificare, come:

                         
Caina attende chi in vita ci spense...
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse.

                         

Anche dicendo cose indifferenti, ci mette non so che molle e soave, che rivela animo nobile e delicato. Quest’effetto producono i celebri versi:

                              
     Siede la terra, dove nata fui,
Sulla marina dove ’l Po discende
Per aver pace co’ seguaci sui.
                              

In quest’anima gentile e innamorata è una cotal misura ingenita, quasi una verecondia e una castitá che tu senti quando ella o si arresti, o taccia, o accenni appena, o veli le nuditá del cuore. Indi la profonda impressione che ci recano alcune brevi frasi, in apparenza indifferenti. «Ancor non mi abbandona!» Qui sotto senti Ancor vivo, eternamente vivo, il fremito della voluttá, il «piacere». «Il modo ancor mi offende!» Frase oscura e perciò di poco effetto, ma dove è indicato tutto un episodio dell’anima nel momento che le fu tolta «la bella persona». E Francesca si arresta, e non può indursi a mostrare le nuditá della passione, i dolci sospiri, il dolce peccato, se non sforzatavi dall’affettuosa domanda di Dante, e tronca la storia, avvolgendosi nel suo manto e nascondendosi tutta in quella frase arcana:

                         

Quel giorno più non vi leggemmo avante.

                         

Hanno dunque anima d’uomo quei comentatori che torturano questa povera frase, e a modo di frati vogliono per forza che questa donna si confessi e dica quello che dal suo labbro non volle uscire? Veri e impotenti stupratori costoro, che s’industriano di dare un senso preciso a ciò che dee rimaner vago e dubbio e indefinito, cercando invano di alzare il denso velo e strappar all’anima vereconda i suoi misteri. Io mi sdegno quando vedo gente volgare, curiosa e pettegola gironzare intorno a cosí delicate concezioni.

Da questa misura, da questa verecondia e castitá di sentire nasce uno stile tutto cose, come direbbe Montaigne, ma cose pregne di sentimenti, d’impressioni e di misteri. Come i frammenti dell’antica Roma o di Pompei, che ti fanno chinare il capo e fantasticare, questo stile lapidario ti sforza, come Dante, a tenere il capo basso e a pensare. Non un lamento, non un rimprovero, non un rammarico, non disdegni, non movimenti patetici. Quando pur talora l’impressione dee uscir fuori, si mostra in una forma tranquilla e impersonale, come:

                               .     .     .     .     .     nessun maggior dolore,
Che ricordarsi del tempo felice
Nella miseria.
                         
Le impressioni restano chiuse e involute nelle cose, e con tanta più potenza se ne sviluppano e risuonano lungamente nell’anima del lettore.

Tale è Francesca; e chi è Paolo? Non l’uomo, il maschile che faccia antitesi e costituisca un dualismo. Francesca empie di sé tutta la scena. Paolo è l’espressione muta di Francesca; la corda che freme quello che la parola parla; il gesto che accompagna la voce; l’uno parla, l’altro piange; il pianto dell’uno è la parola dell’altro; sono due colombe portate dallo stesso volere, tal che al primo udirli non sai quale parli e quale taccia, ed in tanta simiglianza ti par quasi che la stessa voce parta da tutti e due, e puoi dire con Dante:

                          Queste parole da lor ci fur porte,
Da che io intesi quell’anime offense
                         

E perché il poeta ha resi indivisibili questi due cuori? perché di due ha fatto uno? perché, morta la speranza, vive ancora l’amore?

— Per una sublime inconseguenza di Dante, — risponde il mio amico Dall’Ongaro, e si cava d’impaccio. E il Foscolo narra di non so quali pietosi riguardi del poeta verso la famiglia di Francesca. E il Ginguené aggiunge che quei due «che insieme vanno» non sono propriamente dannati; che il loro non fu peccato, ma lieve fallo, uccisi prima che il desiderio divenisse azione; che Dante ha messo il peccato nell’ombra, e dato rilievo alle buone e amabili qualitá di Francesca. Cosí i migliori ingegni sofisticano quando cercano la spiegazione ne’ particolari, e non nell’insieme.

Que’ due vanno insieme e si amano in eterno, non perché ei non sono dannati; anzi perché sono dannati; perché in paradiso il terrestre è alzato a divino, laddove nell’inferno il terrestre rimane eterno ed immutato; perché i peccatori dell’inferno dantesco serbano le stesse passioni, e perciò sono impenitenti e dannati; perché Filippo Argenti è nell’inferno cosí bizzarro come fu in terra, e Capaneo bestemmia nell’inferno come faceva in terra; perché il dannato è l’uomo che porta nell’inferno tutte le sue qualità e passioni buone e cattive; perciò Francesca ha amato ed ama ed amerá e non può non amare; perciò l’infelice dannata non può staccarsi dal cuore questo Paolo, e lo ha sempre innanzi agli occhi: sentimento che il poeta ha rappresentato sensibilmente ponendole eternamente accanto il suo Paolo. Il qual concetto balenò innanzi a Silvio Pellico in uno dei luoghi meglio indovinati della sua tragedia, quando ispirato da Dante pone in bocca a’ morenti le ultime parole:

                                                        .     .     .     .     .     Eterno
Martir... sotterra... oime... ne aspetta!
                              
                              

Paolo

                              
                                                                                                          Eterno
Fia il nostro amore.
                              

Eternitá d’amore, eternitá di martirio. Il poeta ha voluto gittar nell’ombra il peccato! Ma voi scindete quello che è indivisibile; ma non vi è qui un minimo particolare sul quale non sia scritto «peccato». Francesca nel suo primo racconto lascia un’immensa lacuna: tra il suo innamoramento e la morte giace tutta una storia, la storia dell’amore e del peccato, e la vereconda giovane si arresta e tace. Ma Dante china il capo e rimane assorto, finché Virgilio gli dice: — «Che pense?» — ; né può rispondere subito, e quando può, risponde come trasognato e parlando a sé stesso, né può volgere la parola a Francesca senza lacrime. A che cosa pensava Dante? Ma era tutta questa istoria dell’amore e del peccato che gli si volgeva nella mente. Il peccato è il piú alto «pathos» della tragedia, perché questa contraddizione dell’amore non è posta fuori, ma nell’anima stessa degli amanti. L’amore senza contraddizione è prosa arcadica, poesia pastorale, è Dafni e Cloe. Quando la contraddizione esce da ostacoli accidentali, come esser plebeo o povero, divisioni di famiglie, odii politici, gli amanti hanno coscienza che la ragione è dal canto loro, e combattono contro ostacoli posti fuori della loro coscienza. Ma il peccato è un infinito al pari dell’amore, perché amendue coesistono nell’anima e non si possono distrugger l’un l’altro: distruggetemi la coscienza del peccato e mi avete annientata Francesca da Rimini. In lei è lotta senza termine, né può dire: — Io amo — , senza che una voce non le risponda: — È peccato — ; né può questa voce parlarle, senza che nel costante pensiero non le si affacci la male allontanata immagine. E che avviene allora? innanzi agli altri si studiano le parole e gli sguardi, si vorrebbe celare non che ad altri a sé stesso il mistero del cuore; ma nel silenzio della stanza, nel segreto dell’anima si accarezza quell’immagine, e si beve il dolce di quei pensieri, e si nutrono quei desiderii, insino a che d’improvviso e inconsapevole non si giunga al «doloroso passo», al momento dell’oblio e della colpa:

                                    Quanti dolci pensier, quanto disio
Menò costoro al doloroso passo!
                              

Questo è il fondo tragico della storia, la divina tragedia rimasta sulle labbra di Francesca, e che il «rêve» di Dante, immaginato in modo cosí commovente, cava fuori e mette in azione. E qual valore nelle parole di Francesca ha mai questa storia se ne togli il peccato?

                              

Soli eravamo e senza alcun sospetto.

                              
Chi mai fa quest’osservazione se non l’amore colpevole? Leggono una storia d’amore e non osano di guardarsi, e temono che i loro sguardi tradiscano quello che l’uno sa dell’altro el’uno nasconde all’altro; e quando in alcuni punti della lettura veggono un’allusione al loro stato, uno stesso pensiero fa violenza, sforza, «sospinge» i loro sguardi, e gli occhi immemori s’incontrano, né giá osano di sostenerli e li riabbassano, e la coscienza di essersi traditi e il fremito della carne si rivela nel volto che si scolora:
                                         Per più fiate gli occhi ci sospinse
Quella lettura, e scolorocci il viso.
                              
«Per più fiate»: la lotta si ripete, è un resistere, e poi un obliarsi, e poi un resistere ancora.
                                    Ma solo un punto fu quel che ci vinse.                               

E non è vero; è una naturale illusione piena di veritá in cui cade Francesca; essi furono vinti a poco a poco; ed il giovine cade quando innanzi alla infiammata fantasia si presenta l’obbietto desiato, «argomento di sogno e di sospiro», non la bocca, no, e neppure la bocca ridente, come i comentatori spiegano, ma il riso, che è l’espressione, la poesia, il sentimento della bocca, qualche cosa d’incorporale che si vede errar fra le labbra e come staccato da esse che tu puoi vedere, ma non puoi toccare.

Quando Francesca è vinta, quando il peccato ch’era giá nell’anima si rivela, nel punto stesso del bacio, anzi prima ancora che il peccato le esca di bocca, tra «questi» e la «bocca mi baciò», tra l’amante e il peccato si gitta in mezzo l’inferno, e il «tempo felice» si congiunge con la «miseria», e quel momento d’oblio, il peccato, non si cancella più, diviene l’eternità.

                                    Questi, che mai da me non fia diviso,
     La bocca mi baciò    .    .    .    .    .    .
                              

Che cosa è questo? È gioia, è dolore? E gioia ed è dolore, è amore ed è peccato, è terra ed è inferno, è l’amarezza dell’amore che ha per dote l’inferno, è la voluttá dell’inferno che ha per soggiorno l’amore: è un sentimento complesso che non ha parola. È la contraddizione, è il cuore ne’ suoi misteri, è la vita ne’ suoi contrasti, è paradiso ed inferno, è angiolo e demonio: è l’uomo.

Di questa tragedia, sviluppata nei suoi lineamenti sostanziali e pregna di silenzii e di misteri, musa è la pietá, pura di ogni altro sentimento, corda unica e onnipotente, che fa vibrare l’anima fino al deliquio. E la musa è Dante, che dá principio al canto giá commosso; che usa le immagini piú delicate, quasi apparecchio alla scena; che al nome delle donne antiche e de’ cavalieri rimane vinto da pietá e «quasi smarrito»; che si sente giá impressionato alla sola vista di quei due «che insieme vanno»; che a renderne la figura trova un paragone cosí delicato e pieno d’immagini tanto gentili; che alle prime parole di Francesca rimane assorto in una fantasia piena di dolore e di dolcezza, e tardi si riscuote ed ha le lacrime negli occhi; e che nella fine «cade come corpo morto»; e non è la donna che parla, è l’uomo che piange che fa su luì l’ultima impressione. In questa graduata espressione di pietá è necessario un perché? Perché deve ricordarsi di un peccato simile da lui commesso! Questa grossolana spiegazione non ci rivela un uomo straniero nel chiostro ad ogni affetto umano e avvezzo a udir colpe nel confessionale? Dante è l’eco, il coro, l’impressione, è l’uomo vivo nel regno dei morti, che porta colá un cuore d’uomo e rende profondamente umana la poesia del sopraumano.

Tutta questa concezione è cosí viva e costante innanzi all’immaginazione, che non trovi qui la piú lieve dissonanza e il menomo indizio di raffreddamento. Virgilio è di troppo in questa trilogia, e scomparisce, non fa atto alcuno di presenza. Tutta la composizione sembra tirata di un fiato e in una sola volta, tanta è l’armonia e la perfezione tecnica nei piú piccoli particolari. Lo stesso verso ubbidisce alla possente volontá e risponde con la morbidezza musicale dei suoni alle più delicate intenzioni del poeta.

La parola che meglio rappresenta questa perfezione è genialitá. È il genio che crea e non forma e comunica intorno a sé la sua vita con la facilità e la spensieratezza di chi si trastulla.

In questa produzione geniale vivono i germi delle piú gentili creazioni della poesia moderna, centro la donna uscita dalle astrazioni e dal misticismo, e divenuta persona viva.

Quando io penso a Silvio Pellico, non so persuadermi come tante sfumature, tante finezze e delicatezze di sentimenti gli sieno potute sfuggire, e come gli sia uscita dalla penna una Francesca tutta un pezzo e di una fattura cosí grossolana. E penso pure che la poesia italiana è stata poco felice nella rappresentazione della donna, e che Francesca rimane unica e sola. Da tante liriche non è uscita una sola donna viva. Nell’Ariosto ti commovono i dolci lamenti di Olimpia e Isabella, schizzi superficiali; anzi che serii ritratti. Nel Tasso Armida è raffinata, Sofronia è astratta, Erminia è insignificante, Clorinda è chiusa e fredda. Le donne di Raffaello vivono nelle tele, ma invano ne cerchi i vestigi nelle nostre poesie. Noi abbiamo le donne «sparenti», in cui la vita balena in quel punto che sparisce: vivono nel momento della morte, come Clorinda, Ermengarda. Le donne del Leopardi sono creature iniziali, sparite prima ancora che fosse gustata la vita e l’amore: tale è Silvia o Nerina. Salvo queste poche creature fuggitive, ideali ondeggianti, e straniere alla vita, invano cerchiamo la donna. Dell’Alfieri nessuna donna è sopravvissuta. Manzoni stesso, cosi potente creatore d’individui, ha messo nella sua Lucia non so che artificiale e oltrepassato. Raggi divini di donna balenano in Beatrice e Laura, ma il sole manca. Se alcuna cosa trovar vogliamo comparabile a Francesca, dobbiamo cercarla in Shakespeare, in Byron, in Goethe, nelle letterature straniere, primo e immortale tipo Francesca.

[Nella «Nuova Antologia», gennaio i869, col titolo: F. da R. secondo i critici e secondo l’arte.]

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