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Janin e la «Mirra»
Janin e Alfieri «Storia del secolo decimonono» di G. G. Gervinus

[ ii ]

JANIN E LA «MIRRA»


Nell’Ippolito di Euripide comparisce Fedra abbandonata della persona, col passo faticoso, il capo languente, macra, gli occhi cavi: ha tutte le apparenze di una malattia mortale. Che cosa è? È un Dio che si è gittato tutto in lei, che l’arde e la consuma, e tienla in un delirio e turbamento di sensi che dá pur talora luogo alla ragione: allora ella piange ed abbassa gli occhi per vergogna. È una delle piú pietose scene che ci abbia tramandata l’antichitá. Fedra ama il figliuolo del suo marito; ed il Coro che compiange i suoi mali, quando conosce ciò, manda un grido d’orrore. Ma notisi bene. Si abbonisce la cosa in sé, non Fedra — si teme la collera di Venere mostratasi in lei, invano ripugnante; tutti la chiamano sventurata; nessuno la dice empia, se non solo ella stessa, che non può scacciare da sé il nemico Iddio, e sente tutto l’orrore della sua passione, e la espia con la morte. L’influsso fatale di Venere e la passione rimasta a distanza, non incontrandosi mai sulla scena la matrigna e il figliastro, rendono tollerabile sul teatro la Fedra antica. In Racine, Venere è una parola rimasa per tradizione; il soprannaturale ci è per cerimonia; il fondo del dramma è lo svolgimento progressivo di una passione colpevole, ma non mostruosa. Qui non questione di teologia, ma di poesia. Un fatto viene rappresentato dal poeta secondo il giudizio che ne fanno i contemporanei e l’impressione che ne ricevono. Nella tragedia di Racine non ci è il sentimento di ciò che il fatto ha in sé di mostruoso e d’innaturale: non ci è né presso il poeta né presso gli spettatori. Quindi il poeta ha potuto alzare a Fedra il velo di cui l’ha ricoperta Euripide, e condurre il suo amore verso il figliastro fino ad una vera dichiarazione; ed il pubblico ha potuto non solo tollerare, ma applaudire questa scena, riboccante di bellezze poetiche. Mutate ora i nomi dei due personaggi, chiamate l’uno Mirra e l’altro Ciniro; sia la figlia che sveli il suo abbominevole amo; e verso del padre al padre; e a voi parrá che la terra vi tremi sotto i piedi e che la natura si capovolga. È impossibile! Ciò segna l’infinita distanza che separa la Fedra dalla Mirra. Questa finisce, dove comincia la prima. La scoperta della passione nella Fedra è il punto di partenza, nella Mirra è la catastrofe. Racine ha per campo tutta la storia di una passione colpevole in tutte le sue gradazioni dal punto ch’essa è conosciuta; Alfieri ha per campo la storia oscura e a lampi di una passione abbominevole fino al punto che sia conosciuta. Mi maraviglio come Janin abbia potuto confondere due concezioni cosí essenzialmente diverse, e come altri critici abbiano potuto accettare la quistione com’egli l’ha posta. «Après Phèdre, á quoi bon Myrrha?» Alfieri a giudizio di Janin non dovea osare di scriver la Mirra, quando vi era una Fedra. È una questione di modestia che lascio da parte: Alfieri ammirava Racine, ma non si sentiva da meno. La questione seria è questa: la Mirra è una copia della Fedra, «Phèdre amoindrie et découronnée?». In questo caso il lavoro di Alfieri è un’imitazione inutile per l’arte, poniamo sia pure bellissima. Ma ciò che costituisce il pregio della Mirra, è la sua originalitá; è la passione colta in uno de’ suoi momenti non rappresentati ancora dalla tragedia, un nuovo orizzonte aperto all’arte.

Mirra ama di un amore abbominevole e lo sa, e teme che una parola, uno sguardo, un gesto non la tradisca, e quanto piú si sforza e meno riesce ad occultare la fiamma: ella muore nel momento stesso che il segreto le fugge di bocca. La tragedia cosí è una lunga lotta interiore, una collisione straziante di cui solo Mirra ha coscienza, chiusa nella sua anima, e rivelantesi a quando a quando in un gesto, in uno sguardo. Abbiamo dunque innanzi una tragedia mimica in cui il gesto ha piú valore della parola. Spesso la parola nega e il gesto afferma; essendo i gesti atti involontarii, che denunziano inesorabilmente quello che abbiamo al di dentro anche a dispetto delle panie. Dapprima noi vediamo la nutrice, la madre, il padre, l’amante di Mirra inquieti del suo stato; Mirra esiste giá nelle loro panie e nella nostra immaginazione e non l’abbiamo ancor vista. Ci è innanzi in certo modo il ritratto prima che comparisca l’originale, ed il ritratto ce lo fa prima la nutrice e la madre, poi, l’amante ed il padre, sotto un aspetto diverso. Per uscire dal vago, il poeta ha colto due momenti altamente poetici: Mirra sola, nel silenzio della notte, abbandonata disperatamente al suo dolore, e Mirra in presenza dell’amante, trepida, pallida, gli occhi alla terra, impacciata ne’ gesti e nelle parole. Questo personaggio è cosí ben preparato, che quando comparisce in iscena tutti gli occhi si drizzano colá e si sta in una indicibile aspettazione. Che cosa fa Mirra? È lo stesso ritratto animato? una riproduzione? Vi sarebbe noja e languore. Ma la rapiditá è il maggior pregio d’Alfieri: ogni scena è un passo che fa l’azione. Mirra, stretta dall’amante a dirgli il vero, raccoglie tutte le sue forze a dissimulare il suo stato. Noi ci aspettiamo la Mirra che ci hanno ritratta; non è essa, se l’ascoltiamo, ma se la guardiamo, è pur dessa! Uditela: ella si scusa del suo dolore; ne assegna varie ragioni; si mostra pronta a compier le nozze. Ma non può padroneggiare i suoi gesti: e quando parla dello sposo da lei scelto, del suo «raro» sposo, vi è nella sua voce qualche cosa di gelido, nello sguardo qualche cosa d’incerto.

T’incresco, il veggo a espressi segni
dice mestamente Pereo. Quando, portata dal discorso, giunge a qualche cosa che tocchi la sua passione, non può vincersi, la sua immaginazione la soverchia e turbasi visibilmente. Le escono parole equivoche, in apparenza naturalissime, come il suo dolore di dover, maritandosi, abbandonare i genitori:
Non li vedrai mai più!...
Abbandonarli... e morir... di dolore;
eppure, guardando a’ suoi gesti e sguardi disperati, che oltrepassano qualsivoglia espressione consueta di filiale affetto, lo spettatore si vede balenare qualche orribile mistero e ne rifugge spaventato. Quanto al povero Pereo, lontano le mille miglia dalla vera cagione, non comprende altro se non che egli non è amato, e parte scontento ed agitato, con gran maraviglia della fanciulla, la quale non si avvede che è il suo volto, sono i suoi gesti che la tradiscono, e si domanda atterrita:
Oh ciel! che dissi?
Ormai ella non ha potuto vincer sé stessa e innanzi alla nutrice si abbandona alla disperazione e chiama la morte e vuole e disvuole, passando con una estrema volubilitá da un partito all’altro, ed uscendole di bocca nella piena del dolore parole sospette a cui ella dá con la sua costernazione maggior gravitá
               .  .  .  .  .  .  .  .  .  io spesso
Udia da te, come anteporre uom debba
All’infamia la morte. Oimè! che dico?...
Ma tu non m’odi?... Immobil.... muta... appena
Respiri! oh cielo!... Or, che ti dissi? Io cieca
Dal dolore... noi so: deh! mi perdona.
Le ultime sue parole annunziano un ultimo sforzo, ed il sipario cala al secondo atto con qualche speranza che ella si appigli al solo partito onorevole che le rimane: sposarsi e partire immediatamente.
Tu dèi far si, ch’io saldamente afferri Il partito, che solo orrevol resta.

Nel terzo atto grande è l’aspettazione. Ecco la figlia per la prima volta in presenza del padre e della madre. Quanta tenerezza verso la madre! con quale abbandono le parla! come i suoi sguardi cercano lei per tema d’incontrarsi in altri sguardi! È sul suo seno ch’ella inchina il capo, trangosciata e lacrimosa.

Ma che?... voi pur dell’orrendo mio stato
Piangete? Oh madre amata!... entro il tuo seno
Ch’io, suggendo tue lacrime, conceda
Un breve sfogo anche alle mie!...
Ma il padre! al primo vederlo rimane atterrita.
                         Oh ciel! che veggo?
Anco il padre!...

Né si risolve a parlargli, e sospira e tiene gli occhi a terra e impallidisce.

.  .  .  .  .  .  Signor...
ella dice esitando e si arresta.
                         Tu mal cominci; a te non sono
Signor; padre son io: puoi tu chiamarmi
Con altro nome, o figlia?
Ma tanta tenerezza l’empie di tremore, né mai è ch’ella si attenti di chiamarlo padre o di volger la parola a lui solo. Noi assistiamo all’ultima prova di Mirra. Descritto pietosamente il suo stato, ella ottiene da’ genitori che le nozze si stringano subito, che subito si parta; ed il terzo atto finisce in una falsa calma. Sono imminenti le nozze; Mirra empie di dolce speranza il suo sposo; ella serena, tutto il cielo si rasserena intorno, e lo spettatore con lei dimentica quasi la misteriosa tempesta che pur testé le si agitava nell’animo, e corre con la fantasia appresso a lei in altri paesi, fra nuovi mari e nuovi regni, lontano da’ consueti oggetti
                         .  .  .  .  .  .  a lungo stati
Testimon del suo pianto e cagion forse.
e la desidera felice. La scena terza dell’atto quarto in cui si celebra il sacro rito, è la crisi della tragedia. Mirra in questo lungo sforzo ha logore le sue forze; le sue parole sono vivaci e risolute; ma gli occhi brillano di un ardore febbrile; ella è piena di una esaltazione fattizia. Innanzi a’ sacerdoti, mentre il Coro invoca Venere e chiama le benedizioni celesti sugli sposi, gli spettatori guardano con terrore il sembiante trasformato di Mirra e convulso: la natura, quanto piú repressa, con tanto piú impeto prorompe al di fuori. Si precipita verso la catastrofe. La fanciulla non ode piú, non vede piú; Venere la possiede tutta.
Chi al sen mi stringe? ove son io? che dissi?
Son io giá sposa? Oimè!...
Stupefatti noi la veggiamo respingere la madre, fuggire dalle sue braccia, guardarla con occhi infocati; poi pentirsi e chiederle perdono; poi imprecare, maledirla, riempier d’orrore i circostanti, e poi di nuovo:
Deh! perdonami, deh!... non io favello:
Una incognita forza in me favella.
Il mistero s’intravvede, funerei lampi spesseggiano a chiarirci la vista, eppur noi temiamo la luce giá tanto desiderata e chiudiamo volontariamente gli occhi per non vedere, per non credere quello che giá si dipinge nell’ansietá di tutti i volti. Padre e figlia stannosi dirimpetto, soli. Il padre alterna sdegni e carezze. Stringe fra le braccia la figlia trepida, che fugge e ritorna e fugge ancora, ebbra, insana: miserabile lotta del corpo infiammato e dell’anima inorridita
                    .  .  .  .  .  .  Ornai per sempre
Perduto hai tu l’amor del padre,
esclama Ciniro corrucciato
               .  .  .  .  .  .  Da te morire io lungi?..
Oh madre mia felice!... almen concesso
A lei sará... di morire., al tuo fianco.
Queste parole sono illuminate dal gesto, dallo sguardo; l’orribile segreto scoppia fuori, e nel tempo stesso la fanciulla cade sul proprio sangue. Gli spettatori non han tempo di mandare un grido d’orrore che giá quel grido si trasforma in un lungo gemito. L’ira è congiunta con la pietá, lo spavento con l’orrore, e restiamo immobili. Padre e madre fuggono, straziati da opposti sensi.
— Empia!... o mia figlia!...—
Mirra muore sola nelle ultime convulsioni mostrando l’interna ribellione della natura alla sua volontá.

È una delle tragedie meglio concepite e piú profondamente pensate di Alfieri. Non ci è che un solo personaggio, che parla, di cui si parla: tutti vi stanno per porre in luce, per dar rilievo al protagonista. Nessuno, fuori di Mirra, ha carattere, una individualitá prominente; non vi è alcuna distrazione; Mirra, anche assente, empie di sé tutto. Il solo carattere che mi par vizioso è quello di Pereo, che si uccide quando sa di non essere amato. Ciò fa supporre in lui qualche cosa di eroico e un fervidissimo amore. Ben ci è nelle sue parole; egli dice spesso che ama, che si ammazzerá ecc., ma la sua passione è debolmente rappresentata, il suo carattere è appena abbozzato e riesce freddo e duretto. Alfieri ha temuto creare una individualitá possente che svolga la nostra attenzione da Mirra. La stessa azione non ha niente di serio; essa è uno stimolo esterno per far traboccare tutto ciò che ferve nel seno di Mirra. Cosi tutta la tragedia non è che una serie di manifestazioni sempre meno oscure secondo che la giovinetta è piú stretta ed incitata da’ fatti, insino a che il fatale mistero le esce di bocca. L’istrumento di queste manifestazioni sono gesti, sguardi, sospiri che contraddicono alle parole, e però la vera tragedia è non in quello che è espresso, ma in quello che è rappresentato. Il gesto non è qui semplice accompagnamento della parola, ma il rivale di essa che le si pone dirimpetto, ed ora la commenta, ora l’accusa e la smentisce. Gusterá questa tragedia un lettore di cosí viva immaginazione, che si componga nella mente una Mirra fantastica atteggiata in quella guisa che la vedeva il poeta.

L’essenza del dramma è la manifestazione dell’anima per mezzo della parola; il gesto, il colorito, la fisonomia è un sottinteso che non ha valore per sé solo ed è lasciato all’attore. Ma qui l’essenza della tragedia è il gesto, e la parte capitale è serbata all’attore. Nel che è il difetto inemendabile non dirò di Alfieri, ma della Mirra, considerata come soggetto o situazione tragica. Ne’ due primi atti il poeta descrive in diversi modi i gesti disperati di Mirra, e tutto ciò che non è azione, tutto ciò che è narrato o descritto, annoja sempre. Quando Mirra si manifesta meno oscuramente, quanto piú l’espressione del suo animo si accosta alla parola, tanto cresce piú l’interesse, che negli ultimi due atti si trasforma in una suprema commozione. Di qui l’ineguaglianza della tragedia, la gravezza e il vuoto de’ primi atti che si possono chiamar quasi una lunga esposizione, un lungo antecedente dell’azione, che si annoda veramente all’atto quarto.

Udite ora il critico francese: — Alfieri ha guasto e rifatto Euripide e Racine! La Mirra è la Fedra esagerata e perciò rimpicciolita! — Voltaire dice: — ciascun atto dee essere una provincia con la sua capitale. — Janin vede le provincie, ma non trova le capitali. Alfieri, a suo avviso, non ha saputo nemmeno imitare. Fedra per e empio comparisce dalla prima scena e Mirra non si vede che al secondo atto. Fedra manifesta la sua passione subito, Mirra non si dichiara che in ultimo. Tutto è in su questo andare. Janin non ha compreso la Mirra e mi fa dubitare che abbia compreso la Fedra. Ma mi sono annojato di tener piú dietro a tanta volgaritá e chiedo perdono ai lettori di aver risposto lungamente e seriamente. Pure in Francia si conoscono cosí poco le cose nostre, e se ne dánno giudizi cosí torti, che non avrò fatto opera al tutto vana.

[Nel «Piemonte», a. I, n. i9i, i4 agosto i855, e nello «Spettatore», n. 48.]

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