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Janin e Alfieri
Giulio Janin Janin e la «Mirra»

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JANIN E ALFIERI


Dunque Alfieri non porgeva ascolto ai maestri: corse l’Europa a passo di carica, et nil admiratus est, né Federico il Grande, né la gran Caterina, e nemmeno Parigi; si seccava di andare con mulattieri a passo a passo; a trent’anni non sapeva ancora l’italiano; fece tragedie per caso; tirava giú una tragedia con la stessa foga con cui ammazzava sotto di sé un cavallo; i suoi cavalli erano inglesi e le tragedie quasi francesi; tragedie? anzi tragi-commedie avvolte in cenci francesi; non amava che si rappresentassero, disprezzava gli applausi del pubblico, voleva un uditorio aristocratico; teneva in poco conto Petrarca e Metastasio. Che piú?— Signor Alfieri, voi siete un gentiluomo, non un poeta.— Conte Alfieri, voi siete poeta per caso, «inspiré du hasard», il vostro calore è fittizio, il vostro entusiasmo è di convenzione: voi non siete voi, ma ciascun altro, un riflesso. — Principe Alfieri, voi v’immaginate di aver letto Plutarco, e non avete letto che Cornelio Nipote; voi sapete a mente Petrarca e credete di aver studiato Platone; avete letto Elvezio, e vi fregate le mani come se aveste letto Machiavelli! — Monsignore, dove correte voi? Andate a Ferney, e forse avrete l’onore di vedere Voltaire. — Mastro Alfieri, voi siete un problema, mezzo romano, mezzo francese e mezzo italiano. — Signor Alfieri, voi siete appena annoverato tra’ poeti di questo mondo; si sa il vostro nome, nessuno vi legge: appena qualche rappresentazione di tempo in tempo, ecc. Che ha fatto Janin? Ha raccolti certi fattarelli, li ha tolti dal loro luogo, li ha collocati e cuciti a suo modo e li ha chiamati la «Vita d’Alfieri». Ci fosse un fatto solo ch’egli avesse compreso! Nessuno. Mostra un’ignoranza assoluta della nostra letteratura e dei tempi di Alfieri. È tutto ignoranza?

Spesso ho udito a dire: se avessi di che vivere, gitterei a mare tutti i libri. Si esce di scuola, abborrendo lo studio, e non si tosto l’universitá ti proclama dottore, tu ti affretti a sdottorarti e a gittar via dalla mente tutto quell’ingombro ficcatovisi a forza, che nelle scuole si chiama dottrina. Questo oggi, che pure qualche tenue miglioramento si è introdotto nelle scuole: e che diremo ne’ tempi di Alfieri? Bisogna leggere la vivace descrizione ch’egli fa de’ suoi primi studi. Mettere in mano ad un fanciullo di undici anni le regole di Portoreale; intrigarlo in una rete avviluppatissima di preteriti, gerundi e supini; ingombrargli la memoria di centinaia di versi latini; negargli ogni lettura di libri italiani; lasciare in una compiuta inerzia l’intelletto e la fantasia cioè tutta l’anima; andare a ritroso della natura, separarsi dal mondo vivente ed abitare come in un sepolcro, nella morta regione delle astrazioni; niente di concreto, in una etá in cui l’uomo è tutto occhi ed immaginazione; un cumulo di regole ed eccezioni, che dicesi grammatica; un cumulo di luoghi topici, etici, patetici, di tropi, di figure, che dicesi rettorica; un cumulo di quistioni, obbiezioni e dimostrazioni, che dicesi filosofia... Dio buono! se ci è oggi ancora alcuno, che sappia pensare tra noi, è un miracolo. Che ne avviene? I piú istupidiscono, e questo gregge muto e tranquillo è proposto ad esempio; altri piú vivaci reagiscono e sono gl’impertinenti ed i perditempo; alcuni sospinti da emulazione negli ingrati studi, vi si cacciano in mezzo logorandovi la memoria ed imbestiando la mente, con un ardore fattizio, che piú tardi si trasforma in abborrimento. Il povero Alfieri, quando i compagni entravano in gara, li vinceva tutti, e quando i compagni dormivano, dormiva anche lui; e quando l’universitá lo ebbe gridato filosofo e dottore, mandò al diavolo dottorato e filosofia, pose da canto i libri ed avrebbe voluto perfino dimenticarsi di leggere. Cosí facciamo tutti: solo il bisogno ci tiene i libri in mano. Nobile e ricco. Alfieri non aveva bisogno, e gittò via i libri. Ricordiamoci. Chi sa usare la penna, ha dovuto disimparare, rifare gli studi, cominciar da capo, andare a tentoni, fallire, rinviarsi, maestro di sé stesso. Anche a questo venne Alfieri; ma dopo molti anni di ozio e dissipazione. Uscito di scuola dottore e filosofo, egli era un asino bello e buono, come tanti dottori e filosofi; parlava un gergo mezzo tra francese e piemontese; non capiva non dico il Petrarca, ma né il facilissimo Ariosto; nello scrivere, spropositi, non che altro, di ortografia; la lunga compressione aveva fatto scoppiar fuori con maggior forza quanto di violento e di brutale era nel suo carattere; le sue facoltá non educate si erano irrugginite e come intormentite; l’accademia e l’universitá non solo non l’aveva ammaestrato, ma lo aveva disgustato di ogni occupazione intellettuale: ecco che cosa la scuola aveva fatto d’Alfieri. Passionato fino alla violenza, risoluto fino all’ostinazione, impetuoso fino al furore, non potè sfogare tanta fiamma interiore, che nella vita materiale, sola rimasa intatta nelle scuole. Ma io dico male. Anche il corpo manomettono le scuole. Costretto ad una maniera di vita contraria alla natura. Alfieri vi era vivuto malaticcio e languente. Signore di sé, egli senti dapprima bisogno di rifare il corpo, e si abbandonò ai piaceri. I piaceri per quest’anima di fuoco furono delle passioni. La voglia delle donne fu amore frenetico; il cavalcare fu passione di cavalli; il viaggiare fu ebbrezza di moto, di mutar luogo, di rinfrescare impressioni. Ma vi era qualche cosa in lui che rimaneva inappagata, e di cui non aveva coscienza; onde il tedio, la taciturnitá, la malinconia, il sentirsi nel vuoto. Amò piú volte; comprò e comprò cavalli; corse e corse, fino a Pietroburgo: inutilmente! non trovava requie, vi era qualche cosa, che voleva e non sapeva. Gli uomini ignoranti e volgari sogliono in questi piaceri consumare ignobilmente la vita. Alfieri era un ignorante, ma non un uomo volgare, e non si appagava. Quando voleva andare ad un luogo, la fantasia glielo pingeva coi piú vaghi colori, e vi correva a tutta carriera fremendo d’impazienza: giuntovi, era ancora piú impaziente di andarsene. Né le conoscenze né le bellezze della natura e dell’arte valevano a fermarlo. Solitario e taciturno non istrinse mai altri legami che di amicizia; e furono saldissimi: conoscenti dispregiò, o non ebbe. La natura lasciava in lui fuggevoli impressioni: era un libro chiuso ch’egli non intese mai. Leggete la sua vita. Ha viaggiato tutta l’Europa, e non c’è una sola descrizione di luogo o di costumi. Parigi, Londra, Pietroburgo, Napoli, Roma, sono puri nomi, uno spazio ideale e fluttuante, in mezzo a cui un solo attore attrae la nostra attenzione, Alfieri, che riempie di sé tutto. Muti luogo a sua posta: troverá dovunque sé stesso, il suo vero nemico, che lo persegue sempre, che noi lascia mai posare. Che è dunque quel qualcosa, che vuol essere soddisfatto, e senza di cui si sente incompiuto? Vediamo un po’. Legge Plutarco, e le vite di Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone ed altre ei rilegge sino a quattro o cinque volte «con un tale trasporto di grida e di pianti e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirlo nella camera vicina, lo avrebbe preso per impazzato. All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, egli soggiunge, spesso io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano nel vedermi nato in Piemonte, ed in tempi e governi, ove niun’alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena si poteva ella forse sentire e pensare». La musica faceva in lui profondissima impressione, lasciandogli per cosí dire un solco d’armonia negli orecchi e nell’immaginativa ed agitandogli ogni piú interna fibra: dalla quale gli ridondava «un singolarissimo bollore d’idee fantastiche, dietro le quali avrebbe potuto far de’ versi ed esprimere de’ vivissimi affetti, se non fosse stato ignoto a stesso ed a chi diceva di educarlo». Dopo tanti viaggi, non sazio ancora, move per la Spagna: «l’andare era per lui il massimo dei piaceri, e lo stare il massimo degli sforzi, cosí volendo la sua irrequieta indole». Quasi tutta la strada la fa a piedi, e in quelle solitudini e moto continuato «infinite erano, egli dice, le riflessioni malinconiche e morali, come anche le immagini e terribili e liete e meste e pazze che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua... mi contentava di ruminar fra me stesso e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere». A che moltiplicare citazioni? Quest’uomo che non sa scrivere tre parole correttamente, ha un carattere nobilissimo, un desiderio ardentissimo di gloria, tutto un mondo interiore di pensiero o d’immagini che si solleva tutto intiero con estrema violenza ad ogni minima impressione. Siccome non c’è proporzione tra le lievi cagioni e gli effetti smisurati ch’elle producono in lui, dee parer pazzo, non che ad altri, a sé stesso. «Queste cose se non sono seguitate da scritto nessuno, sono tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano poesia e lo sono.» Alfieri aveva ragione: egli era poeta, e non sei sapeva. Era un mutolo che non potendo travasare al di fuori tutto ciò che gli bolliva nell’animo, manifestava la sua impotenza in gesti sconvolti, in contorcimenti, in grida, anzi mugghi: quella tempesta di pensieri e d’immagini che gli freme al di dentro, egli traduce in furori, in malinconie, in pazze corse, in passioni frenetiche, in una perpetua irrequietudine. Date la lingua a questo mutolo, e quello che prima ch’amavate «furore e pazzia», diventerá poesia. E quanti sforzi incredibili per acquistare questa lingua! I piú in quel tempo gallicizzavano di pensiero e di lingua; si parlava e si scriveva un italiano corrotto, francese di stile, di frasi, di vocaboli. Anche oggi, quanti giovani, usciti di mano ai pedanti, sentono il bisogno di rifarsi da capo a studiare la propria lingua! Quanti dottori e professori ed avvocati cinguettano ancora l’italiano, come faceva Alfieri prima dei suoi trent’anni! Egli si abbandonò a questo studio con un ardore ed una costanza da non poterglisi comparare che Demostene: la passione delle donne, dei cavalli, dei viaggi, si raccolse in una sola, la passione, anzi la rabbia dello studio; e da tanta mobilitá ed irrequietezza passò allo star chiuso in una camera e legato sopra una sedia. Che cosa vedo spingeva? La stessa coscienza che sospingeva Demostene, di avere un’anima nata a grandi cose. Demostene, schernito alla sua prima orazione, si senti oratore. Alfieri, applaudito al suo primo saggio, si sentí poeta: il pubblico per diversa via operò con pari efficacia sopra di loro. I facili applausi del Carignano, i quali avrebbero invanito un ingegno volgare, non valsero che a fargli misuiare l’infinita distanza in cui era da quell’alta immagine di poesia che aveva in mente, e gli ostacoli che aveva a vincere. Volle e li vinse: e per conoscere che cosa fu «volle» per Alfieri, basta dire che a quarant’anni volle sapere il greco, e lo seppe; e sapere l’italiano o il greco non significa per lui il solo conoscere la lingua, ma tutti gli scrittori, e leggerli, e studiarli, e postillarli. Acquistò quanto si può acquistare: al resto aveva pensato la natura. Due cose mancano ad Alfieri, che tolgono ch’egli possa essere annoverato fra i massimi poeti: una conoscenza compiuta della vita in tutte le sue gradazioni, ed il sentimento della natura: indi i difetti delle sue tragedie. I suoi personaggi non hanno d’uomo che un lato solo; è l’anima impoverita e ridotta ad una sola facoltá; l’estremo di un carattere o di un affetto, che si affaccia solitario, uccidendo tutto ciò che è intorno a sé; ciò che dicesi il principale di una tragedia, in Alfieri non solo è il principale, ma il tutto: ogni gradazione, ogni ricchezza e varietá della vita è annichilata. Aggiungi il silenzio della natura, tal che ti pare che l’azione avvenga all’oscuro senza cielo e senza sole: ed avrai il filo di tutti i difetti che si rimproverano ad Alfieri. Si dee da ciò inferire che le sue concezioni sieno delle astrazioni, senza vita, senza poesia, secondo l’opinione degli Schlegel, del Villemain, alla quale accenna pure Saint-Victor? Chiamate pure astratta la poesia di Alfieri; poco importano le parole; ciò che costituisce il sostanziale della sua tragedia è nudo di ogni colorito locale, è astratto da ogni accessorio storico e domestico: sta bene. Ma l’ideale che rimane, è un’astrazione, un lavoro puramente intellettuale, un concetto rimaso fuori della fantasia, una semplice personificazione? Come? Filippo, Egisto, Saul sarebbero delle astrazioni? Ma è affatto il contrario. Alfieri spoglia della vita tutto il mondo circostan’.e, perché la concentra tutta nel suo protagonista; il sangue si è ritirato dalle membra, si è raccolto nella testa: è un eccesso di vita cumulato in un punto solo, che trabocca in passioni vivacissime, in violentissime azioni. Egli non guarda che ad uno scopo unico. e vi corre lapidissimo e diritto, non vedendo nulla intorno fuori di quello. Quando la vista è aguzzata verso di un punto lontano, gli altri sensi rimangono come sospesi; ma l’unico senso che vi resta, non è perciò un’astrazione, anzi esso ha annichilato gli altri, perché ha raccolto in sé tutta la vita, tutte le forze dell’anima. La tragedia di Alfieri non è tutto l’uomo, ma ciò che vi è soprabbonda di poesia e di vita. È il suo ritratto. Nel suo spirito non entra mai che una cosa alla volta, sola essa e tutta essa: che scaccia ogni altra, che lo possiede e lo investe di sé, fatta passione concitatissima. Vi è un tempo in cui Alfieri è tutto donne; un tempo che è tutto cavalli; poi tutto studio; appresso tutto tragedie. Sta egli facendo la Mirra? In quelle due o tre settimane è tutto Mirra e solo Mirra, il rimanente dell’universo gli è fuggito dall’occhio; e se vuol caso che egli per poco si distragga e raffreddi, eccolo in bestia e prende il manoscritto e lo straccia. Questa vita adunata in un punto solo e condotta all’ultima potenza dá alle sue azioni un aspetto di stravaganza, e talora sei tentato di dire fra te e te: — È pazzo costui? — Hanno idee fisse o i pazzi o i grandi uomini: e il volgo non sa discernere. Colombo passava per le vie di Madrid facendo gesti e parlando seco, l’uomo del popolo lo indicava al suo compagno, ponendo la mano sulla fronte, con un atto che voleva dire: — Pover’uomo, è uscito pazzo! — Janin raccoglie tutte le esagerazioni di Alfieri, e va gridando: — È pazzo! è pazzo! «c’est la rage en personne!». — Nondimeno nella vita che Alfieri ha scritto di sé, ci ha due Alfieri, l’attore ed il giudice: l’Alfieri di cinquant’anni, che spiega calmo e severo il giovane Alfieri; l’Alfieri dotto e poeta che pone in caricatura l’Alfieri asino e presuntuoso. Janin ti dá il fatto senza il giudizio e la ragione che ce ne porge l’autore, e talora introducendovi accessorii e spiegazioni di suo capo; - confondendo le «epoche», falsando, mutilando: il che è piú che ignoranza. «Inattentif aux leçons des maîtres.» Questo fatto posto cosí nudo significa che Alfieri era uno sciocco o un poltrone. Eppure Alfieri ha speso cinque capitoli a comentarlo, e fa un ritratto ammirabile delle scuole di quel tempo e del modo d’insegnare e degli asini maestri e dei piú asini ripetitori e di quel professore di filosofía papaverica, che dormicchiando spiegava ad uditori addormentati, e toccava pure dell’ardore ond’egli spesso avanzava i suoi compagni, sospinto da emulazione. Queste circostanze cambiano interamente la natura ed il significato del fatto. «A trente ans il ne savait même pas l’italien!» Janin ignora che a quel tempo appena pochissimi conoscevano l’italiano; che i soli scrittori leggicchiati alquanto erano il Tasso e il Metastasio; e che Alfieri è stato tra i primi che abbia rimesso in onore lo studio della nostra lingua. «Vaniteux á ce point qu’un beau jour de printemps il se plaignait d’aller au pas dans la société des joyeux muletiers.» Alfieri dice: «il piacere di questo viaggio mi venne... amareggiato non poco dall’essere costretto di farlo coi vetturini a passo a passo, io che... prima aveva cosí rapidamente percorso quella via... e mi teneva molto avvilito di quella ignobile e gelida tardezza del passo d’asino, di cui si andava». Ciò che dunque amareggiava Alfieri era non la compagnia dei vetturini, che ivi stanno come un incidente dimenticato, per mostrare che andava in un calesse, ma la tarditá del passo: e veramente anche persone che non abbiano la malattia del correre e correre di Alfieri, sentono l’incomportabile noia di quel viaggiare a passo di mortorio. Ma Janin oibò! Alfieri dice: «co’ vetturini». Egli dice, allargando: «dans la société des joyeux muletiers», e poi traduce: «avec de simples voituriers», e scrive in corsivo per farlo ben notare quel simples che non è in Alfieri: piccole malizie! Alfieri dunque era un aristocratico che non degnava di andare in compagnia dei vetturini... «ah banditi ingrati insolenti» E qui noi lascia piú! Conte Alfieri, principe Alfieri, signore Alfieri! Se Alfieri s’indegna che la sua amata si lasci corteggiare da un palafreniere, aristocrazia! Se gli spiace che le sue tragedie sieno rappresentate, ciò non è per la cantilena e la sguaiataggine degli attori, com’egli dice, ma per aristocrazia, perché il pubblico teatrale è democrazia, ed Alfieri disprezza gli applausi democratici! Se ama la duchessa d’Albany, non è per le egregie qualitá di questa donna, com’egli crede, ma per aristocrazia, perché la era una duchessa e moglie di uno Stuart! «Il avait une épée, il la tirait volontiers, en vrai Turinois, on la lui rendait tordue en tirebouchon!» Janin dunque battezza Alfieri e i torinesi per guasconi, ed ha dimenticato che i guasconi sono francesi. «Il tirait volontiers son épée!» Una volta sola! ed udite in che termini ei ne parla: «Io sempre sono stato un pessimo schermidore...» «...egli non mi uccise perché non volle». Questo, per Janin, è linguaggio da guascone. Ma io non vo’ piú annoiar me ed il lettore a tenergli dietro. Posso però affermare che non vi è un fatto, non un fatto solo, che egli non adulteri grossolanamente, pronto alle prove, quando egli voglia, pronto a dirgli: — qui tacete; qui mutilate; qui mentite; qui il fatto è vero, ma guasto dal colore, dal tono, dall’espressione; questa spiegazione è falsa; questa insinuazione è una calunnia. — «Il n’admire, il n’estime que le prince de Theux, parce que c’est un évéque; il aime aussi l’évêque prince de Liège.» Ammirare, stimare, amare! Alfieri dice: «mi lasciai introdurre». Perché era un vescovo! Alfieri dice: «per condiscendenza e stranezza». «Il se moque de la grande Cathérine autant que du grand Frédéric.» «Se moquer» non è esatto. Alfieri non era beffardo, ma altero. Ma dite almeno il perché. Federico aveva trasformato la Prussia in una grande caserma. Caterina aveva assassinato il marito, e fallito alle promesse fatte a’ suoi popoli. «Infâme Métastase qui s’incline ainsi devant sa reine et sa bienfaitrice!» Il fatto è vero, il tono è esagerato. «Il révait une Italie libre au milieu de l’Europe esclave». Falso di pianta. Alfieri ammirava l’Inghilterra e l’Olanda, perché libere; disprezzava i Prussiani e i Russi, perché «armenti», disprezzo i Francesi sottoposti a re plebei, e li odiò, quando oppressero e manomisero l’Italia. «Il se frottait les mains comme s’il avait lu MachiavelPlutarco e Machiavelli non solo fi ha letti, ma postillati: sono stati dopo Dante gli scrittori che ha piú studiati. «Cadavres de tragicomédies enveloppés, c’est un mot d’Alfieri lui méme, dans un haillon français.» Janin fa credere che Alfieri stesso abbia qualificate le sue tragedie di cenci francesi. Egli dice questo delle composizioni informi de’ primi anni. Tragi-commedie! Vittorio Alfieri è trasformato in un aristocratico, e le sue tragedie in cadaveri di tragi-commedie. La composizione alfieriana è la tragedia ideale concepita con tanta severitá, che esclude ogni altro elemento: è la tragedia delle tragedie. I tragici sogliono lavorare sulla vita comune e nobilitarla e trasfigurarla, si che n’esca una tragedia; Alfieri lavora sulla tragedia che n’è uscita, e l’alza ancora piú e la spoglia inesorabilmente di tutto ciò che non è lei, e ti dá la tragedia nuda, di una semplicitá spesso arida, difetto che è proprio il contrario di quello che gl’imputa Janin. Ecco in che modo da tutti questi mezzi fatti e giudizi costui ha cavato un Alfieri di sua fattura che noi non riconosciamo.

Il nostro Alfieri è un uomo che al solo nominarlo ci sentiamo superbi di essere italiani. Le sue passioni stesse violentissime ed individuali ce lo rendono caro, perché ci mostrano in lontananza un’Italia futura, che egli vagheggiava nel suo pensiero. Ciascuna volta che l’Italia sorge a libertá, saluta con riverente entusiasmo Alfieri e si riconosce in lui. Nel ’99, il primo fatto dei repubblicani di Napoli fu di batter le mani ad Alfieri in teatro. Nella prima ebbrezza del ’48 ciascuno diceva fra sé: — Ecco l’Italia futura d’Alfieri! — Lo ricordo malinconicamente. L’Italia era ancora addormentata nella sua femminile mollezza, di cui ultima espressione fu il Metastasio, quando Alfieri le disse: — Svegliati e cammina. — Alfieri odiava i mezzi caratteri, i cerretani, i cortigiani, gli Janin: era un uomo serio, che voleva, ed il volere per lui è un appuntare tutte le facoltá in un oggetto; e noi sentiamo istintivamente che Alfieri aveva ragione, che in questo difetto di carattere è la nostra debolezza, — solo nostra? — che noi non «vogliamo» ancora la libertá. Schiettissimo e nobilissimo, l’energia del suo animo trasfuse ne’ suoi versi e rimise la poesia nella via di Dante. Fe’ guerra alla cantilena, a’ periodi, alle frasi, alle svenevolezze arcadiche: la nostra risorgente letteratura ha per padre Alfieri, come l’antica Dante, i due poeti che fanno piú battere un cuore italiano. Un generale francese, il cui nome sarebbe dimenticato, se Alfieri non si fosse degnato di farne menzione, s’inchinò rispettosamente innanzi al suo genio. Janin se ne morse le labbra: — «se fossi stato io, l’avrei arrestato!» — Lo credo. Colui era un generale della Francia repubblicana, cioè de’ tempi piú gloriosi che abbia avuti il popolo francese; e fu modesto come sono i prodi. E se la Francia d’oggi fosse simile a Janin, io le direi: — quanto hai perduto di libertá e di gloria, tanto hai guadagnato d’insolenza. —

[Nel «Piemonte», a. I, n. i79. 3i luglio i855, e nello «Spettatore», n. 44.]

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