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[ 9 ]
GIULIO JANIN
Quando i fratelli Schlegel censurarono non senza asprezza i lavori drammatici francesi ed italiani, risposte piovvero da tutte parti. Quella disputa fu un momento importantissimo nella storia della critica; poiché non era contesa di persone, ma di dottrine. Gli Schlegel trovavano in quelli gli stessi difetti, e gl’involgevano nella stessa condanna. Ma eccoti Janin, che s’inginocchia innanzi a Racine, e sputa sul viso ad Alfieri. Alcuni italiani se ne sono commossi, ed hanno risposto insolenza per insolenza ed ironia per ironia. E bene sta. Chi ragiona deve essere confutato; chi ingiuria deve essere rimbeccato; e l’articolo di Janin, quanto povero di dottrina, tanto è tronfio d’ingiurie. Avendo letto dapprima alcune risposte, ho sentito anche io quelle ire; ma avendo letto dipoi l’articolo, non so come, ho sentito cader la mia collera; e invano mi ci sono sforzato; io non posso sdegnarmi con Giulio Janin. Chiami egli pure Alfieri un bandito, un insolente, uno stupido, uno sciocco; moltiplichi a posta sua i suoi «éclairs et foudres» per far qualche intaccatura sull’odiato piedistallo; Giulio Janin non ha virtú di turbarmi. In quella vece, a leggerlo, mi sento nascere una voglia che non posso frenare, una voglia di guardarlo in viso e dimandargli: — Chi sei tu?— È uno studio curioso, che farò senza ira e senza disprezzo, con l’intenzione che se ne cavi qualche utilitá per gli studii critici e con la speranza che, conosciutolo bene, sfumi la collera de’ miei concittadini.
Io non conosco la vita di quest’uomo, né ho letto alcuna cosa sua, tranne qualche pagina di un libro, che egli ha intitolato: Storia della Letteratura drammatica e poteva intitolare in mille altri modi. Ma che importa? In questo articolo vi è tutto lui, vi è il malato in tutto il suo parossismo: non hai che a tastargli il polso. Lo stile di Giulio Janin è cosí impresso del suo moi, che una sola pagina basta a persuaderti che tu lo conosci da lunga pezza, ed hai contratto con lui una antica amicizia. — Noi siamo vecchi amici, Giulio Janin! —
La prima cosa che tu puoi affermare sicuramente, letto l’articolo, è questa: Janin sa delle regole, ed ha innanzi de’ modelli; ma non conosce la critica come scienza, o, per dir meglio, il suo spirito non sa concepire la scienza, e non ci crede: il generale è per lui qualche cosa di vuoto, da cui egli abborre: abhorret a vacuo. La sua critica si può riassumere in due parole: fatti e impressioni. Né dico ciò a biasimo: fo un ritratto, non una satira; io voglio solo assegnare il suo posto a Giulio Janin. Non son io giá di quei critici esclusivi ed intolleranti, che non comprendono che una sola natura d’ingegno, un solo sistema, una sola specie di poesia: non rifiuto Alfieri, perché Alfieri non è Racine: io comprendo, o, per parlare piú modestamente, io mi sforzo di comprendere l’uno e l’altro. Dunque Janin non è un ingegno speculativo, né vi pretende, e forse se ne beffa secondo l’usanza antichissima: gli inferiori hanno a loro consolazione il diritto di far la parodia de’ loro superiori; la scimmia contraffá l’uomo, la commedia, come dice Victor Hugo, fa la caricatura alla tragedia; la plebe fa le fiche a chi sa leggere, e Janin alla estetica: — C’est de la métaphisique! — Lasciamo adunque da parte la metafisica e scendiamo piú giú.
Avete voi un lavoro da esaminare? Se avete un ingegno che si levi un poco dal comune, quel lavoro vi si denuderá innanzi di tutta la sua superficie, di tutto ciò che ha di accidentale e di comune: che ci resta? la sua personalitá, la sua anima, quello per il quale esso è sé e non un altro. Direi che qui è la «situazione» del lavoro, se non temessi di spaventare Janin con una parola che odora di metafisica. Ma si rassicuri. Si può ignorare la metafisica e l’estetica, e si può avere questa facoltá. È una specie di seconda vista, una potenza «spontanea» dell’anima, conceduta a pochi, senza di cui il critico, qual che si sia la sua dottrina, non è che un pedante. Ne darò un esempio. Saint-Victor, e son certo che non se ne offenderá, perché è uomo d’ingegno, parmi non si possa chiamare propriamente un pensatore: egli è povero d’idee generali, né sa allargare il suo orizzonte. Victor Hugo non ha avuto la pazienza di formarsi un concetto chiaro e compiuto della critica, che per lui è stata sempre un incidente, uno studio di occasione; scriveva un dramma ed immaginava una critica ad uso di quel dramma; ma come le quistioni gli si allargano innanzi! quanta limpidezza d’intuizione! in un insetto egli intuisce l’universo; ogni sua prefazione è una nuova estetica; sembra che nella sua testa sieno rinchiusi piú mondi, che ne scintillano fuori ad uno ad uno; tanta è la sua potenza di generalizzare! quantunque tutto ciò è opera piú di una viva fantasia, che di una severa intelligenza: e te ne accorgi al calore, all’impeto irresistibile, alla luce abbagliante della sua esposizione. Saint-Victor non è Victor Hugo, Ma Saint-Victor ha quell’acuto occhio critico, che gli fa cogliere di sotto alle simiglianze superficiali il caratteristico e l’intrinseco di un lavoro. Nel suo articolo sulla Mirra egli ha afferrato mirabilmente tutto ciò che ha di proprio l’argomento e che Alfieri aveva sentito con la sicurezza del suo istinto poetico; e, messo una volta sulla buona via, ha indovinato le piú delicate gradazioni di quella stupenda concezione. Peccato, che un po’ d’enfasi dia un’aria di rettorica ad un articolo cosí serio nel fondo! — Fate i ringraziamenti, mi ha detto qualcuno, a Saint-Victor in nome degl’Italiani. — Non credo. Disconoscerei il Principal pregio del suo articolo. Saint-Victor, ed esso solo, scrivendo della Mirra, non ha domandato la fede di nascita dell’autore, né la sua fede di battesimo. Egli non ha pensato di far cosa grata ad Alfieri o agl’Italiani. Sapeva bene che Alfieri è cosí alto locato, che un critico può ben studiarlo e comprenderlo, ma non crescergli o detrargli fama. Saint-Victor ha messo mano alla penna, caldo ancora della impressione che la rappresentazione gli aveva fatto, e si è chiuso nel suo argomento e vi si è obliato, senza guardare a dritta, né a manca, senza mettere fra sé e la Mirra il Misogallo, la Francia, e Racine e Ovidio. Dir bene d’Alfieri, che ha detto tanto male de’ Francesi, e che, guardate enormitá, ha trovato insoffribili le francesi! Trovare ammirabile la Mirra, quando ci è Fedra! Porre Alfieri allato a Racine! Voi siete un cattivo francese, e per giunta un Aristotele da caffè: Janin ve lo dice. — Fate un confronto, mi ha detto qualche altro, fra Saint-Victor e Janin. — Paragonare Saint-Victor e Janin! Ma è per lo meno cosí assurdo, come paragonare Fedra e Mirra. Non vi è differenza di gradi, ma di qualitá. Non istanno nella stessa linea. Per fare una visita a Janin bisogna scendere ancora piú giú.
A Janin gira la testa, se tu lo porti un po’ piú su del terreno, ove sta sdraiato superbamente: fatti e impressioni! Al di lá del fatto, silenzio e tenebre. Quando gli capita sotto le unghie il lavoro, eccolo tutto in faccende: ficca il naso dappertutto, spia i piú intimi secreti, raccoglie aneddoti e fatterelli, e poi... favete linguis: l’oracolo parla. E similmente, credete voi che egli senta il bisogno di darti una ragione, di addurti una regola per sentenziare, per condannare? La sua ragione è Ovidio, la sua regola è Racine: noi siamo tornati ai lampi beati dell’ipse dixit. Ecco gl’ingredienti della critica di Giulio Janin. Dimenticavo le citazioni.
È un genere di critica che ha pure la sua utilitá: serve a diffondere il gusto, e rendere accessibili ai piú i buoni principii, Parlate mezz’ora di matematica, nessuno vi. comprende: gli occhi vagano distratti; mostratemi una figura, gli occhi si fissano: la mente vi siegue. I fatti sono le figure de’principii: o, per dir meglio, sono piú che figure; sono i principii stessi animati e viventi,’ fatti uomini e cose. Perché dunque questa critica sia una veritá, i fatti debbono contenere in sé i principii, e non essere accidenti accozzati insieme. L’ingegno di Janin non è capace di considerare i principii nella loro astrattezza; è tale almeno che li sappia cogliere nei fatti? Vedete per esempio il Villemain. Questo critico, di un ingegno cosí delicato e di tanta finezza di gusto, non fa in apparenza che raccontare. Ma qual racconto! Non è una semplice storia; sono tante altre cose che voi imparate; il genere del lavoro che vuole esaminare, i principii che lo costituiscono, il criterio per giudicarlo, l’uomo che spiega lo scrittore, la societá che lo sospinge o gli si pone a traverso, che lo purifica o lo vizia: quell’aneddoto è un ragionamento, quel fatterello è un principio. Anche Janin studia allo stesso; ma non è dai suoi omeri. Per lo piú egli racconta per raccontare: vi si arresta, se ne compiace: sente che lá è la sua potenza. In effetti Janin racconta bene, con grazia e malizia: ora, di mezzo ai particolari abilmente aggruppati vedi sbucar fuori una circostanza che non ti attendevi e che ti sorprende; ora, t’intenerisce; ora, ti spaventa; ora, ti allegra: il suo stile è rapido e caldo; si corre difilato dal primo all’ultimo verso. Ma i fatti non sono che fatti; sono cifre che tu puoi disporre a tuo grado e cavarne i piú diversi risultamenti. Perché i fatti sieno un serio fondamento di critica, non me li hai a mutilare, me li hai a mettere in mezzo al mondo in cui vivono, e in cui hanno la loro spiegazione: mi hai a vedere nel fatto qualche cosa che l’oltrepassa e che lo illumina. Qui è il debole di Janin. La natura gli ha negato una buona vista; egli non vede tutto, né quello che vede, nella sua integritá: vede da un occhio, da un lato solo, massime quando egli ti snocciola quei fatti, con l’intenzione anticipata di cavarne questo e quello. Ora, quando tu mi guardi il fatto con l’occhio volgare, quando non vedi che esso solo e me lo scindi dall’anima che lo ha voluto e dal mondo in cui si è prodotto, tu non vedi che le sue conseguenze immediate e grossolane e giudichi come plebe. Prendiamo per esempio i fatti che Janin cita d’Alfieri, e cosí isolati, com’egli li ha riferiti: vediamo in che modo sono giudicati dal senso volgare.
Plebe. Brutto principio! Asino nacque Socrate, asino morirá.
Janin. Cavalli e femmine: ecco la sua giovinezza.
Plebe. Era un uomo perduto.
Janin. Viaggiò tutta l’Europa, e non gli piacque nulla: nessuna grandezza d’uomo, nessuna bellezza di cittá gli fece impressione.
Janin. Un giorno si doleva di dover viaggiare a passo d’asino ed in compagnia di un mulattiere.
Plebe. Brutto aristocratico!
Janin. Voleva parlare italiano, e parlava il francese di PonteNuovo!
Plebe. Che vergogna per un italiano!
Janin. A trent’anni non sapeva ancora l’italiano!
Plebe. Vedi che asino!
Janin. Come potè costui diventare un poeta? Innamorato di una duchessa, passò una notte a vegliarla, e, seccatosi, scrisse, scrisse tanto che ebbe carta, e ne usci una Cleopatra.
Plebe. Fu adunque poeta per un vero caso.
Janin. Leggeva le sue tragedie agli amici, mal pativa che fossero rappresentate, disprezzava gli applausi di un uditorio plebeo.
Plebe. Pare impossibile! Lo crediamo, perché lo dite voi. È aristocra- zia portata fino alla pazzia.
Janin. Disprezzava il Petrarca ed il Metastasio.
Plebe. E me lo chiamate poeta!
Le risposte della plebe sono giustissime: sono le conseguenze immediate di quei fatti, le stesse conseguenze che ne cava Giulio Janin. È una storia in maschera, fatta senza coscienza e senza serietá, senza alcuna conoscenza della nostra letteratura e de’ tempi di Alfieri, che dá a quei fatti un diverso significato.
Questa stessa maniera di considerare superficiale e secondo l’apparenza trovi nel suo giudizio sulla Mirra. Deve parlarmi di Mirra e mi parla di Fedra! Dee parlarmi di Alfieri e mi parla di Ovidio! La Mirra è una sciocchezza, «une pièce misérable», perché non è la Fedra. Alfieri ha guastato il racconto di Ovidio, perché lo ha rifatto di suo capo. Noi siamo tornati alla critica dei paralleli del decimosesto secolo, ed alla critica dei modelli. Io non conosco cosa piú misera ed assurda, che volermi dare il concetto di un lavoro col paragonarmelo ad un altro. Un lavoro può avere questa o quella somiglianza con altri, ma è innanzi tutto sé stesso. Un lavoro può proporsi il tale e tale esemplare, ma sopratutto deve essere esso il suo proprio modello. Alfieri è grande, perché non è né Ovidio, né Racine, ma è Alfieri, ricchissimo di sé stesso. La Mirra è una concezione ammirabile, perché il suo autore, avendo innanzi la Fedra, ha disprezzato quel modello, ed ha detto: — Mirra deve esser Mirra, e non Fedra, e deve esser la mia Mirra e non quella di Ovidio: la Mirra di Ovidio non è tragediabile. — E Janin si è incaponito con Ovidio e Racine; non ha l’occhio di Saint-Victor, non vede l’oggetto in sé stesso, ma alcuni lati superficiali di paragone, e vuol tirare pe’ capelli Alfieri colá dove egli non ha voluto andare.
Insomma Janin per virtú di mente è un critico di terz’ordine. Manca d’idee generali; non sa innalzarsi alla concezione di un lavoro; non sa cogliere i fatti nella loro integritá e nel loro significato; appartiene alla bassa scuola empirica. Nondimeno egli è molto popolare, e come giornalista ha pochi pari. Il lettore comune che legge per passatempo, non si cura gran fatto di logica e di dottrina; non cerca la veritá, cerca il divertimento; è ottimo chi meno l’annoia. E Janin è il fatto suo. Serrato, rapido, veemente, ingegnoso, nessuno meglio di lui sa dare spicco ad una trivialitá, imbellettare un luogo comune, sentenziare con piú sicurezza, dire insolenze con piú spirito. In Francia è noto meglio che tra noi.— Fammi ridere, trammi di noia, Janin — ; ecco ciò che dice il lettore, quando ha a mano una sua appendice; nessuno pensa a dire:— impariamo qualche cosa. — E quando la lettura è fatta, non si domanda giá: — Janin ha ragione? Janin ha ben ragionato?— ma invece: — mostra egli il solito spirito? fa ridere? ha fatto una bella appendice? — Pochi ingenui desiderano una buona appendice: a’ piú basta che la sia bella. E una bella appendice nel senso volgare significa un’appendice scritta con brio, con vivacitá, con passione. Janin se lo sa, e vi si è messo. Egli mira principalmente a fare effetto: vorrebbe che ciascun suo periodo fosse un colpo di pistola, che attirasse la gente a domandare: — chi è? che è? — È Janin. Per scuoterti non si contenta di alzar la voce: ti dice una carta di villanie. Per esempio, non ci è volta che nomini Alfieri, che non gli appicchi qualche leggiadro epiteto: «un fat prècoce», «un bandit», «un insolent», «un bellâtre», «un malvenu», «maitre Alfieri», «le comte Alfieri», «le prince Alfieri», «monseigneur», ecc., ecc. Montate voi in collera? Ohimè! Janin trionfa; a questo mirava. Un dramma si dice riuscito, quando riscuote applausi; l’appendice di Janin è riuscita, quando suscita una tempesta. Quello che voi chiamate insolenza, oibò! è una figura rettorica — c’est de l’esprit — un calore di penna, un mezzo di far impressione. Se in questo ci è nulla da biasimare, una parte, del biasimo dee cadere sul pubblico, che ne’ primi tempi, quando egli incerto ancora della via e portato dall’umore temeva di aver detto troppo, lo ha incoraggiato a far peggio, sul pubblico, che all’audacia delle affermazioni, a’ giudizii in grado superlativo senza riserbo e misura, alla mordacitá, alla malizia suole spesso batter le mani. E poiché il male è fatto, battiamo noi pure le mani a Giulio Janin.
[Nel «Piemonte», a. I, n. i67, i7 luglio i855, e nello «Spettatore» di Firenze, n. 42.].