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Un dramma claustrale
L'Ugolino di Dante Ugo Foscolo

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UN DRAMMA CLAUSTRALE


Il benemerito Palermo ha pubblicato nel i860 due volumi col titolo: Manoscritti palatini ordinati ed esposti. E chi vede la copia e l’importanza di quei manoscritti, non può esser contento che rimangano ancora inediti. Sono ricchezze che l’Italia ha obbligato di trar fuori delle cave e mettere in circolazione.

Gli elenchi del Palermo sono accompagnati con lunghi estratti e giudiziose osservazioni: il che, se non basta a porgere un criterio letterario di quegli scritti, può almeno dare sicura notizia del loro concetto e della loro tendenza. Sicché quella pubblicazione non è stata in tutto sterile per la storia della nostra letteratura.

I tedeschi, che mettono in questi studii una grande serietá, fecero molto caso della raccolta del Palermo, e vi attinsero preziose notizie, dolenti che dovessero star contenti a quegli estratti e non avessero innanzi le intere opere. E come si suol fare colá, quando si vuol scrivere di queste cose, alcuni non hanno dubitato di venire di proposito a Firenze, seppellirsi nella Biblioteca nazionale e consultarvi quei manoscritti. Cosi fecero Ebert e Klein.

E fermarono l’attenzione sopra una rappresentazione, intitolata: D’uno monaco che andò a servizio di Dio. Parve loro, in tanta varietá di misteri, un individuo «sui generis», di cui nessuna letteratura aveva esempio, e lo battezzarono «Klosterspiel», rappresentazione o dramma claustrale, perchè attori e spettatori sono monaci. E se con questo criterio si debbono classificare i drammi, mente vieta che ci sieno anche i drammi di Corte, quando per avventura attori e spettatori sieno cortigiani.

I due dotti tedeschi nel discorrere di questo dramma si accordano in parecchi punti, ma dissentono nel punto sostanziale, moè nel concetto. Secondo Ebert, il concetto sarebbe questo, che «abito non fa monaco», cioè a dire che non basta esser monaco per salvarsi, ma si richiedono le buone opere. Or questo pare a Klein un concetto proprio de’ tempi della Riforma, conveniente forse a Geronimo Savonarola, ma impossibile in tempi piú schietti e ingenui, quando non si fa distinzioni tanto sottili tra l’apparenza e la sostanza. Oltreché non è nel dramma alcuna allusione, anche minima, a questa differenza. Klein dunque, rigettando l’interpretazione di Ebert come troppo soggettiva, sostiene il dramma esser non altro che l’apoteosi della vita monacale come via a salute.

Ognuno intende quanta importanza abbiano nella storia dell’arte questi concetti, che contengono il problema sostanziale dell’arte al Medio evo. Chi vuol comprendere quell’architettura e quei dipinti e quei bassirilievi e quelle laudi e quei poemi, dee domandarsi in che modo era allora compresa la vita nello scopo e ne’ mezzi, e se quel dramma risponde a questa domanda, sia il suo concetto quello di Ebert, o quello di Klein, esso è un documento importantissimo e degno di attirare l’attenzione e le discussioni dei critici.

Oltreché, questo dramma, se non è il piú antico dei misteri italiani, come pare a’ due critici stranieri, è certo antichissimo. E se ne persuaderá facilmente chi faccia attenzione alla grande semplicitá dell’ordito ed alla forma astratta e quasi ancora allegorica de’ personaggi, privi anche di nomi proprii, come il figlio, il padre, la madre, ecc. Sembra uno di quegli scheletri ovvero ossature di rappresentazioni sviluppate all’improvviso e a piacere degli attori, e ridotte e raffazzonate piú tardi da qualche letterato. Il dramma è stato probabilmente ritoccato e ripulito da qualche frate verso la fine del secolo decimoquarto.

Considerando l’antichitá di questo dramma, e l’importanza del suo concetto, ho voluto trarlo dal suo carcere cartaceo, dove si trova smarrito e confuso con altri quattro drammi, e pubblicarlo nella sua integritá, con lievi correzioni d’ortografia e di verso. In certi punti il senso è dubbio o guasto; ma non ho voluto metterci mano, non ho voluto guastare col mio intonaco la venerabile antichitá. L’autore istruisce co’ piú minuti particolari gli attori di quello abbiano a fare per esprimere con le attitudini e i gesti il carattere e gli affetti de’ personaggi. Alcune di queste istruzioni, come troppo insignificanti e volgari, ho lasciato, parendomi che quelle cosí frequenti e inutili interruzioni scemino l’interesse e stanchino l’attenzione.

Io metto senz’altro il dramma sotto l’occhio de’ lettori, e dopo esaminerò le opinioni di Ebert e di Klein, e vi aggiungerò alcune considerazioni.

Il dramma è in un codice della Biblioteca palatina, numero 445, e vi si trovano a modo d’introduzione alcune parole, che riferirò con la stessa ortografia:

Qui chomincia la rappresentazione d’uno santo padre e d’uno monacho, dove si dimostra quando il monacho andò al servigio di ddio chome ebbe molte tentatione, et era buono servo di ddio, intanto chel santo padre suo maestro chon chi stava, volendo intendere che luogho dovesse avere in cielo, fece oratione a ddio che gli rivelassi in che stato egli era, ecc.

Ecco ora il dramma:
                              

L’Angiolo

                         
                         

annunzia la festa e dice cosí:

   
                                                   
                                    O voi che avete mutato de fuore
L’abito per andar me’ per cammino
Che ci fu scorto dal pio Sanatore;
Cosi vogliate drento del divino
Amor vestirvi avendo umil core,
Credendo certamente che il destino
Dell’alto Iddio che ogni cosa provvede
È di far salvo chi il serve con fede.
                         
                                         Però vi fía per costor dimostrato
Un santo padre a cui l’angiol predisse
Che il suo buon servo sarebbe dannato;
Onde per questo a si ben far si misse,
Che meritò gli fosse rivelato
Essere salvo e che il ben far seguisse:
E però in silenzio state attenti,
E siate sempre di ben far contenti.
                         
                                                   
                         

La Madre

                         
                                                   
                                    Deh! perché stai, figliuol, cosí pensoso,
E tanto fuor dell’uso ti sgomenti?
Etti per caso alcun fatto cruccioso,
Oppure hai altro che non ti contenti?
Mancati nulla? Non tener nascoso,
Ma dimmi presto se non ben ti senti,
E non istar piú fermo in tanto tedio,
Ma se c’è male alcun, che sia rimedio.
                         
                                                   
                         

Il Figliuolo

                         
                                                   
                                    Se io ti pajo fuor d’uso turbato,
O dolce madre mia, non è cagione
Mal ch’io mi senta, né perch’io sia stato
Da altri offeso; ma l’affezione
Ch’io ti porto e ho sempre portato
Fa combatter col senso la ragione,
E perché ragion vince e il senso è vinto
Si mostra il viso di dolor dipinto.
     L’anima drento gode ed è contenta,
Dappoi che di ragion usa al governo
Il fragil senso di fuori ispaventa
Amando il ben caduco e non l’eterno,
Lusingandomi assai ch’io gli consenta;
E io che ben li suo’ inganni discerno,
Per la grazia di Dio non gli consento,
E se io lo fo mai, assai mi pento.
     E perché intenda meglio il mio parlare,
Per mia salute io ho fatto concetto
                         
                                    Il padre, te, la roba abbandonare
Per servir sempre a Dio con almo retto.
E mentre ch’io pensava questo lare.
Fu il cor per voi di gran dolor costretto,
li qual si partirá, pur che io senti
Che siate a quanto io ho detto contenti.
                    
                                              
                         

La Madre

                    
                                              
                                    Dolente lassa! io sento in questo punto
Stringere piú da grave doglia il core
Che se or fussi, o fígliuol mio, defunto.
Deh! dimmi un poco, è questo il grande amore
Col qual tu debbi a noi esser congiunto?
Or da’ ci tu ragion di tal dolore.
Non hai tu pietá alcuna di tuo padre,
O di me lassa, tua misera madre?
     È questo il premio o il ristoro o il merito
Della spesa e fatica e molta cura
Sempre ho avuto di te giá nel preterito?
Hai tu la mente tua si aspra e dura,
Che con tanta empietá paghi tal debito?
Certo ti mostri ingrato oltre misura.
Però, muta concetto e sii contento
Di non ci dare si acerbo tormento.
     Tu di che in te la ragion vince il senso,
Onde t’allegri; e questo in me non pare;
Perché quand’io ben riguardando penso
Che vogli padre e madre abbandonare,
Mi pare il tuo errore essere immenso:
Perché tenuto sei quegli onorare,
Come comanda Iddio, e tu gli offendi,
Si che il contrario del dovere intendi.
                    
                                              
                         

Il Padre

                    
                                              
                                    Buon di: che vuol dir questo? e che contesa
Avete voi che siete si turbati?
E tu, o donna mia, chi t’ha offesa,
Che hai del pianto i tuoi occhi bagnati?
                    
                                                   
                         

La Madre

                    
                                              
                                    Caro marito mio, molto mi pesa
Che sappi perché siamo sconsolati:
Perché molto dolor credo n’avrai.
Quando com’io il caso intenderai.
     Questo nostro figliuol che in tanti vezzi
Nutrito abbiam, cresciuto e allevato,
Benché fatto l’abbiam, par che non prezzi.
Ma come tristo, sconoscente e ingrato
Par che del tutto ci abbandoni e sprezzi,
Dicendo aver suo animo fermato
Servire a Dio; ma questa fantasia
Non mi par d’un fervor, ma di pazzia.
                    
                                              
                         

Il Padre

                    
                                              
                                    Figliuol, tu stai si cheto. È questo il vero?
Vuo’ ci tu dar questa malinconia?
È questo il ben che in mia vecchiezza spero
Aver di te? deh! lieva da te via
Questo pensiero. Manifesta il vero:
Se il cor tuo altro che questo disia,
Ben sai che c’è il modo a contentarti:
Deh! non volere a tanta viltá darti.
     Non vedi che siam vecchi e non abbiamo
Altro figliuol che te, che reda sia?
E sempre noi affaticati siamo,
Perché, mentre che vivi, bene stia?
E or che darti moglie pensavamo.
Tu c’esci fuor con questa tua pazzia!
E sai che il matrimonio è sacramento
E larga via che mena a salvamento.
                    
                                              
                         

Il Figliuolo

                    
                                              
                                    O padre e madre mia, io son ben certo
Che in ogni stato si può l’uom salvare.
Ma bisogna esser ben prudente e sperto
Chi sta nel mondo a non si maculare;
                    
                                    Però che il mal ci si fa si in aperto
Senza riguardo, che chi vuol ben fare
Dappoco è detto, stolto e gabbadeo,
E savio quel ch’è piú malvagio e reo.
     E dovreste esser oggi piú contenti
Che non foste giammai, veggendo ch’io
Vada a servire a Dio e buon diventi.
Mettendo il mondo e suo’ inganni in obblio;
Però finiscan li vostri lamenti,
Sendo concordi a quel che piace a Dio.
Prendete del mio ben consolazione,
E date a me vostra benedizione.
                    
                                              
                         

Il Compare

                    
                                              
                                    Dio v’ajuti: o tu piangi, compar mio!
To’ togli, anche piange la comare.
Se v’è incontro qualche caso rio.
Fate che il senta e vuoisi rimediare.
                    
                                              
                         

Il Padre

                    
                                              
                               Il tuo figlioccio per servire a Dio
Dice ci vuole in tutto abbandonare.
                    
                                              
                         

Il Compare

                    
                                              
                               Qualche ipocrito tristo l’ha sviato,
Che sempre a fin di ben fanno peccato.
     Son oggi mercatanti diventati,
E sott’ombra di loro religione
Vogliono esser tenuti e riguardati.
Stimando tutti gli altri in dannazione:
Sempre alle corti si trovano in piati
Per conducer guadagno alla magione;
Stanno in silenzio e mangian per digiuno
Tanto che giorni tre ne starebbe uno.
     E chi non ha gran ventre o buona bocca,
Inferma, o n’esce, o di morire aspetta;
                    
                                    E se lor punto il naso mai si tocca,
Sempre per caritá ne fan vendetta:
Gente superba, sconoscente e sciocca,
Che mostran sempre agli altri la via stretta,
E se credessin fare un grande acquisto.
Un’altra volta ucciderebbon Cristo.
     Nel Vangelo di loro è dato indizio,
Dicendo: Guai a voi che circondate
La terra e il mare sol per fare un vizio,
Acciò che quando è fatto noi facciate:
Di noi piú degni d’eterno supplizio,
Uomini avari e pien d’ogni empietate;
Ché lor par proprio ire in paradiso.
Quando hanno il figlio dal padre diviso.
     Chi invola dieci fiorini, è impiccato,
E un figliuol che costa piú di cento,
Nulla ne va, s’egli è altrui rubato.
E tu, poltron, come hai tu ardimento
Di far tal cosa, tristo isciagurato?
Vanne pur lá: tu farai ancora stento.
Tu credi stare in agio e fuor d’affanno.
Vedrai che pentolin, passato l’anno.
     Credi tu sempre in quella voglia stare
Senza esser dal proposito mutato?
E se gli avvien che non possa durare,
Frate riesci sarai poi chiamato:
Tu se’ qui uso a ben bere e mangiare,
E vestir bene e stare bene agiato,
E spesso, dove vuoi andar, si stenta:
Si che fa’ in modo che poi non ti penta.
               
                                         
                         

Il Figliuolo

               
                                         
                                    Di quel che è pieno il cuor, la lingua spande,
O caro nonno mio; ma siate certo
Ch’io non vo drieto a agio né a vivande,
Ma voglio andar nell’eterno al deserto,
Ove si fa la penitenza grande:
E questi ancor che qui stanno al coperto,
               
                                    V’è buoni assai; pur se ve n’è alcun rio,
Si vuol lasciarlo giudicare a Dio.
     Voi siete troppo aperto nel parlare,
Né tutto quel si sia dir si conviene.
Piacciavi ornai, addio, non contrastare
Né volere sturbar questo mio bene.
Attendete piuttosto a confortare
Il padre e madre, e piú vi s’appartiene
Che dir mal d’altri. Orsú, siate contenti,
E ciaschedun ch’io vada or m’acconsenti.
                         
                                                   
                         

Il Padre

                         
                                                   
                               O figliuol mio, benché la tua partenza
Mi spiaccia molto e diemi gran dolore.
Nondimeno io non vo’ far resistenza
A quel che piace a Dio nostro Signore.
Però ti benedico e do licenza
Che vada e segua il tuo santo fervore,
E priego Dio che ti faccia costante
E sempre nel ben far perseverante.
                         
                                                   
                         

La Madre

                         
                                                   
                                    Omè, figliuol, ch’io non credetti mai
Che fussi si crudel che mi lasciassi,
Sendo noi vecchi, in tante pene e guai.
Né ti patisse il cor ci abbandonassi.
Ma poi che gli è cosí e pur ne vai,
Ci rimarremo isconsolati e lassi.
Sii benedetto! Or va; che Iddio ci dia
Grazia che nostra e tua salute sia.
                         
                                                   
                         

Il Figliuolo

                         

con riverenza si parta, e muti l’abito romitesco, e dia i suoi panni per Dio a uno povero, e vadane al deserto, ove, trovato un santo padre vecchio, grande amico di Dio, salutandolo gli dica cosí:

                                                   
                                         O padre santo, Jesu ti dia pace.
Io mi son ora dal secol fuggito
                         
                                    Sol per servire a Dio col cuor verace,
E intendo farmi tuo figliuol romito.
                    
                                              
                         

Il Santo Padre

                    
                                              
                                    Figliuol, ben venga: questo assai mi piace,
Che al ben fare sii si pronto e ardito.
Nondimeno ei si vuol considerare.
Se tu potrai a tal vita durare.
     Qui si bee acqua e mangiasi erbe e frutti.
Dormesi in terra, con ferma intenzione
Che tutt’i vizii sieno in noi distrutti.
Forti e costanti a ogni tentazione.
Pregando Iddio per salute di tutti,
Pronti e parati alla contemplazione.
E questo non si fa senza fervore.
Che ci dá Iddio per sua grazia e amore.
     Io ho quasi il mio tempo consumato
Con questa vita in questo aspro deserto.
E non mi pare aver tanto operato,
Che io sia ben di mia salute certo.
                    
                                              
                         

Il Giovane Monaco

                    
                                              
                               O padre, io sono in tal fede fermato,
Che avendo a Dio il mio potere offerto,
Se io mancassi per fragilitate.
Lui per me supplirá con sua bontá te.
                    
                                              
                         

Il Santo Padre

                    
                                              
                                    Dappoi che sei fermato in santa fede.
Mi dai piacere assai. Certo ispera
Che Dio aiuta assai chi ben gli crede.
Chiunque il serve con la mente intera
Perseverando sempre in ben procede
E infine trova in lui salute vera,
E se tu m’hai per questo in padre eletto,
E io come figliuolo, ora t’accetto.
                                                       (Parte)
                    
                                                   
                         

Il Giovane

                    
                                              
                                    Dappoi che Dio per sua bontá mi sciolse
Dal cieco mondo e per don singolare
A questa vita angelica mi volse,
Ben lo dovrei degnamente lodare,
Dappoi che il piú m’ha dato e il men mi tolse;
Ma non deggio la mia possa agguagliare
Alla sua somma e infinita potenzia.
Se non umile averlo in riverenzia,
     E preservar la santa continenza.
Con aspra vita la carne domare,
E per fuggir del mondo l’apparenza
Per lo spirito pover diventare,
Umile stando sempre a ubbidienza
Per potere il nemico superare,
E che tra lo mio core e il mio Signore
Altro non sia se non grazia e amore.
     Ma perché non si può pel parentado
Che l’alma ha colla carne pervenire
Senza debiti mezzi a tanto grado,
Vo’ drieto a’ passi di color seguire,
Che in tanto fondo mi scorgano il guado,
Però qui umile venni per servire
A questo uom santo con sollecitudine,
Perché mi guidi alla beatitudine.
                                                       (Parte)
                    
                                              
                         

Il Santo Padre

                    

per dimostrare che il servigio del suo monaco gli era da Dio mandato, e che lui l’avea grato, ed erane conoscente, dice:

                                                   
                                         Nessun si dee nel mondo gloriare
Che pe’ meriti suoi riceva bene.
Però che il frutto del nostro operare
Poco ci giova, se da Dio non viene:
Adunque lui quanto si può lodare
A noi in ciascun atto si appartiene.
Perché sendo da lui fatti e formati
Di tanto don non ci mostriamo ingrati.
                         
                                         Ond’è che avendo giá la carne stanca
Per la vecchiezza, e la mente si pronta
Che mai vorrei da tal peso esser franca,
Perché se l’una sai, l’altra dismonta,
L’alta grazia di Dio che mai non manca
A chiunque a essa volentier s’affronta
Diede in aiuto alla stanchezza mia
Costui che sol di servirmi desia.
     Io non posso si presto comandare,
Ch’ei non sia molto piú a ubbidire,
Né mai lo vidi in caso alcun crucciare,
Né solo una parola vana dire,
E sta si desto in quel che debbe fare
Che mai dir posso il vedessi fallire,
Onde di certo pel soccorso mio
Per sua bontá me l’ha mandato Iddio.
                         
                                                   
                         

Il Monaco

                         

come se venisse di fuora. va al Padre santo e dopo l’atto di riverenza dice cosí:

                                                        
                                    Deh! piacciavi oggi, o dolce padre caro,
In qualche opera buona esercitarmi,
Che tanto piú a ubbidirvi imparo.
Quanto piú pronto siete a comandarmi.
Orsú, che in ozio star m’è tanto amaro.
Che il far piú dolce è assai che il posarmi:
E il comandare spesso al servitore
Segno esser suol di buono e grande amore.
                         
                                                   
                         

Il Santo Padre

                         
                                                   
                                    Dolce figliuolo, il tuo servigio è stato
Si grato sempre a me nel mio cospetto,
Che ogni ora piú ne resto consolato.
Sii dunque, figlio, da me benedetto,
Va pure, e oggi come sei usato,
Metterai quanto bisogna in assetto.
Si che quando io tornerò da orare,
I’ posso un poco il corpo sostentare.
                         
                    

Il Monaco vada a córre radici d’erbe e frutte, e il Santo Padre vada a fare orazione e dica:

                                              
                                    Oh Signor mio, quando penso all’altezza
Della tua somma e infinita essenza,
E poi mi volto alla mia vii bassezza,
Io non ardisco venirti in presenza;
Ma pur quando contemplo la grandezza
Di tua bontá, piglio gran confidenza
Di poter grazia da te impetrare.
Per la qual degno io sia di te pregare.
     Signor, deh! guarda alla tua.inferma gregge,
Che bela errando e lascia i dolci paschi,
Guidata mal dal pastor che la regge.
Piuttosto fa’ signor che dal ciel naschi
Chi la rauni e rinformi tua legge,
Che sopra lor la tua degna ira caschi.
Deh! pio Signor, non la lasciar perire,
Poiché per lei ti fu grato il morire.
     E s’egli è tanto il pensier de’ mortali
Di crescer fama e cumular tesori,
E contentar gli appetiti bestiali.
Che fatti sien della tua grazia fuori:
Uomini sono e per la carne frali,
Però, Signor, mercé a’ peccatori,
Mercé, Signor; deh! tocca loro il cuore,
Si che sien volti sempre nel tuo amore.
     E ben ch’io creda che tua provvidenza
Intenda il fin di quel che è da venire,
Nondimen veggio per isperienza
Le opere spesso co’ mezzi finire.
Dunque di te pregare ho confidenza,
E sempre credo mi deggia esaudire,
Però che la intenzion del mio volere
Sempre è a far cosa che ti sia in piacere.
     Ma or nel fine della mia orazione
Di cosa grande ti vorrei pregare;
E se io userò presunzione,
Forza del puro amor mel fará fare,
               
                                    Perché veggendo in tante opere buone
Costui che m’hai mandato esercitare,
Vorrei saper, se non fosse peccato.
Che luogo su nel ciel gli è riservato.
                         
                                                   
                         

L’Angiolo

                         
                                                   
                                    L’alto Signor tuo umil priego accetta,
Ed è contento a qualunque gli crede
Misericordia usare e non vendetta.
Ma chiunque vuol fuggir quel che prevede
Occultamente a seguirlo si affretta,
Né il truova mai chi il cerca senza fede:
E tu che vai cercando il destinato.
Sappi che il servo tuo sará dannato.
                         
                                                   
                         

Il Santo Padre

                         

a tale esposta si leva su, r prendendo la sua presunzione, e a si stesso dice dolendosi

                                                        
                                    O uomo istolto, che vai tu cercando?
Quello che a te non si appartien sapere?
Pensi tu sempre qui bene operando
Di dover l’alta grazia possedere?
Non sa’ tu che tu hai di lassú bando
Per non saperti nel ben mantenere?
E questo vuol la tua ribellione
Che stii qui sempre in gran confusione.
     Se in Dio non esser giustizia dirai,
Dappoi che vuol chiunque ben fa dannare.
Cosi per contra arguir tu potrai,
Che voglia quei che mal fanno salvare,
E se per lui esser giusto vorrai,
La cagion perché il fa vorrai cercare,
E sarai fatto come chi non vede,
Perché dov’è ragion, manca la fede.
     Omè, ch’io non vorrei di tal novella
Per modo alcuno essergli ambasciadore;
                         
                                    Ma la pena del cor che mi martella
Ne dará vero testimon di fuore,
E la mia rotta e afflitta favella
Fia vero segno del mio gran dolore,
E ha cagion che voglia quel sapere
Ch’io non vo’ dirgli e non posso tacere.
                         
                    

Venga verso la stanza sua, e il Monaco, che intanto preparava «cibi, per non lasciare addietro la memoria d’Iddio e dell’anima, dica cosí cantando come rispetti.

                                                   
                                    L’anima sensitiva che s’inchina
Nel mondo a tutto quel che la diletta,
Apprezza poco la legge divina
E tien civil1 questa vita perfetta,
E cosí stolta nella gran ruina
Del baratro internai cader s’affretta;
Onde cosa peggiore esser non penso
Che nel regno dell’alma regga il senso.
     L’alma piena di fede e semplicetta
Spesso si leva pura a contemplare
Quel ben che veramente la diletta,
E quando a quel piú intenta esser le pare,
Allor dal grave corpo è si costretta.
Che giuso afflitta le convien tornare,
E umi.e e sdegnosa piange e dice:
Deh! chi mi sturba il mio esser felice?
     Quell’anima gentile è sempre viva
E vive Iddio in lei per unione,
Che ha si ben fatto nella vita attiva
Che ha vinto il mondo, la carne e il demone,
E tutta sta nella contemplativa
E gode tutta, e s’ella ha passione,
È per esser legata al corpo tristo.
Dal qual disia disciorsi e star con Cristo.
                    

Il Monaco

avendo preparato i cibi, cioè barbe e radici e frutte e castagne e noci, apparecchia, e quando giunge il santo padre, veggendolo trasfigurato nel viso, dice:

                                                        
                                    O caro padre, che gli è preparato
Orsù, date conforto al corpo stanco.
                         
                                                   
                         

Il Santo Padre

                         
                                                   
                               Dolce fígliuolo, io son molto ansiato,
E parmi tutto quanto venir manco
                         
                                                   
                         

Il Monaco

                         
                                                   
                               Voi siete ben nella vista alterato,
E il color rosso è divenuto bianco.
                         
                                                   
                         

Il Santo Padre

                         
                                                   
                               Figliuol, questo non è senza cagione,
Ma è perché ho nel core gran passione.
                         
                                                   
                         

Il Monaco

                         
                                                   
                                    Se questa pena dal corpo procede,
O caro padre, ha per istanchezza;
Ma se pur l’alto Iddio l’alma vi chiede,
Darla dovete con molta allegrezza.
                         
                                                   
                         

Il Santo Padre

                         
                                                   
                               Caro figliuol, nell’alma è tanta fede,
Che pena o morte che venga non prezza,
Ma quando io ho di passion nel core
È sol perch’io ti porto troppo amore.
                         
                                                   
                         

Il Monaco

                         
                                                   
                                    Dolce mio padre, se io son cagione
Del mal che avete, il nostro amore è poco,
Che per levarvi tanta passione
Starei per voi bisognando nel foco.
                         
                                                        
                         

Il Santo Padre

                         
                                                   
                               Se solo il corpo tuo all’arsione
Dato io vedessi, mi parrebbe un gioco;
Ma che debba arder sempre la tua anima,
Questo è quel duol che mi confonde l’anima.
                         
                                                   
                         

Il Monaco

                         
                                                   
                                    Deh! padre mio parlate manifesto,
Non mi tenete nel pensier sospeso,
E s’io deggio aver mal, ditemel presto,
Si ch’io prepari il collo al grave peso.
                         
                                                   
                         

Il Santo Padre

                         
                                                   
                               Figliuol, benché mi sia dirlo molesto,
Sappi che in questo giorno io aggio inteso
Dall’angiolo di Dio nell’orazione
Che Iddio vuol che tu abbi dannazione.
                         
                                                   
                         

Il Monaco

                         
                                                   
                                    Ponete fine, o buon padre, al dolore,
Né prendete per questo alcun tormento;
Che però voglio con piú amore
Al servizio di Dio essere intento,
E se gli piace a lui sommo Signore,
Io che son servo, voglio esser contento;
Ché sol nella mia mente si disia
Di star dovunque a lui piace ch’io sia.
     Io giá non vo’ né debbo contrappormi.
Né potrei ancora al suo sommo volere:
E però voglio ancor vie piú dispormi
Di servir lui con tutto il mio potere.
                         
                                                   
                         

Il Santo Padre

                         
                                                   
                               Dolce figliuol, di poi che ti conformi
Col suo voler, me ne dai gran piacere,
E sol per questo io prendo certo indizio
Che Iddio sará nel salvarti propizio.
                         
                    

Dopo questa il Santo Padre si conforta e piglia de’ cibi preparati, e poi si riposa come se passasse in mezzo alcun tempo. Infine, come se si levasse la mattina, si volta inverso il monaco e gli dice:

                                              
                                    Figliuol, se mai ferventemente orai,
Oggi di farlo son deliberato.
E tu ancor qui umil ti starai,
Divotamente orando inginocchiato,
Ch’io son disposto non restar giammai
Fin che il mio cuor ferito sia sanato,
E tu orando credi fermamente
Che Dio è giusto, pio, magno e potente.
                                                  (Va all’orazione)
               
                                                   
                         

Il Monaco

                         
                                                   
                                    Posto che l’uom per natura appetisca
Il sommo bene, e fermo desidèro
Di possederlo in lui sempre fiorisca,
Nondimeno io che di fruirlo spero,
Che deggio far, se Iddio vuol ch’io perisca.
Se non pregarlo ch’io sia si severo
A conformarmi con sua santa voglia,
Che nulla mai dal suo amor mi scioglia?
                         
                                                   
                         

Il Demonio

                         

venga qui sotto forma e abito del compare, e sotto ombra di caritá e di bene per ingannarlo dica:

                                                        
                                    Buon di, figlioccio mio: io son venuto,
Che avem sentito che tu stavi male,
E poi che giunsi qui, io ho saputo
Che il tuo servir a Dio poco ti vale.
Perché tu sei dannato, e questo è suto,
Perché guastasti l’amor naturale,
Abbandonando i tuoi cari parenti.
Onde sei degno di eterni tormenti.
     Ma se tu vuoi scampar di tal periglio,
Vientene meco e tornerai a loro
E viverai con lor come buon figlio.
Rendendo lor del tuo mal far ristoro,
                         
                                    E buon per te se farai il mio consiglio.
Orsú, andianne, e non far qui dimoro,
Ché forse questa fía tal penitenzia.
Che Iddio per te muterá sua sentenzia.
               
                                                   
                         

Il Monaco

                         
                                        

credendo fosse il compare, dice:

                                                        
                                    Ben venga il nonno mio che sempre mai
Cerca mia pace e mio bene sturbare:
E se Iddio vuol ch’io abbi eterni guai,
Non vo’ per questo l’anima mutare.
                         
     
     

Il Diavolo per impaurirlo gli si fa incontro per pigliarlo; il Monaco lo conosce e dice

                                                        
                               Va via, demon, che tu non mi corrai.
Che si ben mi sapevi lusingare:
Dio ti confonda e da te mi difenda,
E fogliati il poter che non mi offenda.
                         
                              

Il Monaco si faccia piú volte il segno della croce e dica: «Ave Maria, Intra verbum charo factum est», e altre orazioni, e il Demonio con atto spaventevole scoprendosi si fugga via: potrebbesi far qualche scoppietto 0 baleno di fuoco o altro che figurasse lo spavento diabolico.

                              

Il Santo Padre

                         

avendo finito di orare secretamente, dice:

                                                        
                                    O Gesú santo, umile t’addimando
Misericordia pel tuo servidore.
Deh! non gli dar della tua cittá bando.
Vedi che t’ama con molto fervore.
Gesú, un poco or ti ricorda, quando
Morir volesti per lo nostro amore.
Deh! fa, Gesú, per tua grazia infinita,
Che scritto sia nel libro della vita.
                         
                                              
                         

L’Angiolo

                         
                                                   
                                    O tu che picchi sulla nostra porta
Tal che fin drento il tuo romor si stende,
                         
                                              
                               E se la tua intelligenza corta
De’ giudizi di Dio poco comprende,
Non ti doler, ma questo ti conforta,
Che il sommo Dio che ciò che vuole intende
Novellamente ci ha manifestato
Che il tuo buon servo debb’esser salvato.
               
                                         
                         

Il Santo Padre

               
                                         
                                    Gloria patri et fílio e spirito santo
Innanzi e ora e sempre, alto Signore,
Che sei inverso me benigno tanto
Che non che altro hai pietá al mio dolore,
E posto hai fine al mio acerbo pianto,
E consolato m’hai l’afflitto core.
E che poss’io per tante grazie darti
Se non per tutt’i secoli laudarti?
     O luce eterna somma inaccessibile,
Che fin quaggiú ti degni di risplendere.
Sicché or quasi n’è stato visibile
Quel che non puote ingegno alcun comprendere,
E se or l’alma mia cieca e sensibile
Piú che a lei non conviensi ha cerco intendere,
Benigna volgi a sua oscuritate
I raggi sol della tua gran pietate.
     O cuor che dal profondo del dolore
Salito sei al sommo d’allegrezza:
O mente oscura e non vota d’errore,
Or chiara e lieta e piena di dolcezza,
Cosi come voi deste giá di fuore
Nel viso i segni di vostra tristezza,
Cosi della letizia segno date,
E questo ch’io tant’amo, consolate.
               
                                         
                    

Si leva dall’orazione e torna al luogo usato, e dice al monaco

                                                        
                                    Rallegrati, figliuol, che l’alto Iddio
M’ha oggi mostra la tua salvazione:
Però ti cresca in servirlo il disio,
E sii fervente nelle opere buone,
               
                                    E puoi veder nel viso che il cor mio
Per questo è pien di gran consolazione
Perché l’angiol di Dio m’ha rivelato
Or nuovamente che sarai salvato.
               
                                                   
                         

Il Monaco

                         
                                                        
                                    Padre, ben che l’umana intelligenza
Gravata dal peccato intenda poco,
Nondimeno io non ebbi mai temenza
Facendo ben d’esser dannato al foco.
                         
                                                        
                         

Il Santo Padre

                         
                                                        
                               Dapoi che Iddio per sua somma clemenza
Ce l’ha dimostro, festa e gaudio e gioco
Ne dobbiam fare, il suo nome laudando,
Con canti, laude, salmi, inni cantando.
                         
     
     

Puossi cantare gualche cosa, come per esempio il Teddeo o qualche lauda appartenente a detta materia di gaudio.

                                                   
                         

Licenzia

                         
                                                        
                                    O anime gentil che desiate
Di farvi eredi dell’eterna vita,
Con tutto il vostro potere affrenate
La carne a noi con l’empio vizio unita,
Pronti e parati alle opre di pietate
Per soddisfare alla colpa infinita,
Sperando in Cristo, vostro Redentore,
Che fia di quel che manca pagatore.
     E questo brieve tempo che v’è dato
Perché acquistiate la vostra salute
Fate che invano non sia dispensato,
Ma sempre in opre degne e di virtute,
Fuggendo ogni malizia di peccato
E del falso demon la servitute,
E Dio ve la dará per sua clemenzia.
E qui sia fine, e abbiate licenzia.
                         
                                                        
                         

finis. amen.

                         
                                                        

Ora che l’abbiamo innanzi, siamo in grado di compiere i giudizii de’ due scrittori tedeschi e assegnare al dramma il suo posto nella storia dell’arte.

L’ordito è semplicissimo. Un giovane, volendo salvarsi l’anima, abbandona la famiglia e va al deserto e si fa a servire un romito. Colui, che lo vede cosí fervente nelle buone opere, chiede a Dio qual posto gli sia assegnato in paradiso. L’Angiolo risponde: — È dannato — . Rimane il buon romito stupefatto, pensando che le buone opere non bastano alla salute dell’anima, e si rammarica della sua presunzione a voler penetrare i secreti di Dio, e si addolora della triste sorte serbata al novizio. Ma costui rimane a quella notizia tranquillo, e non si pente de’ suoi buoni propositi, e caccia da sé le tentazioni del demonio, con invitta fede in Dio, e deliberato di fare in tutto il piacer suo, quando anche il piacer suo fosse di andare in inferno. Allora si ode un nuovo annunzio dell’Angiolo: — È salvato! — . S’intuona il Te Deum, e il dramma si conchiude con un fervorino al pubblico, perché imiti il novizio, dispensando il breve tempio che n’è dato «in opre degne e di virtute»

Come si vede, il concetto del dramma non è né quello che vuole Ebert, né quello che vuole Klein.

Ebert dice: — Il concetto è: abito non fa monaco. Non basta esser monaco o romito: bisogna operare virtuosamente — . Or di tutto questo, fuori che nell’esordio, non è sillaba nel dramma. Il novizio opera virtuosamente prima e dopo, e ciò che spaventa il romito, è questo: che il suo novizio mena una santa vita, e ciò non ostante è dannato, e che Dio contra ogni giustizia possa «voler dannare quelli che ben fanno», e per contrario: «salvare quelli che mal fanno». È la volontá di Dio sostituita alla giustizia: cosa che gitta in confusione la mente del romito, che per fuggire alle strette della logica ripudia la ragione e cerca un rifugio nella fede:

                               Perché dov’è ragion manca la fede.                

Klein dice: — Il concetto del dramma è l’apoteosi della vita monacale o contemplativa — . Or questo non è il concetto del dramma, ma il suo antecedente, il suo sottinteso; non è il problema, è il «posto» o il «dato» del problema. Che la vita contemplativa sia di maggior perfezione che la vita attiva, e la miglior via a salute, questo è il luogo comune del Medio evo, il concetto fondamentale dell’arte a quel tempo, la base della Divina Commedia. E se questo fosse qui il concetto, dovrebbe finire il dramma quando il giovane, lasciati padre e madre, va al deserto e si fa romito. Ma qui appunto comincia l’intreccio, e Klein dovrebbe sempre spiegare perché il novizio, mentre celebra le lodi della vita contemplativa, è dannato, e perché poi si muta il decreto di Dio ed è salvato. Qui è il nodo della quistione, ed Ebert vi ha messo la mano, e non avendo innanzi che i brevi estratti del Palermo s’è sviato.

Ora chi legge con qualche attenzione la preghiera del romito e la risposta dell’Angiolo, gli apparirá subito il concetto. Il romito prega Dio a volergli rivelare qual luogo è riservato al novizio in paradiso. Ma non è ben sicuro del fatto suo, e teme che faccia atto di presunzione a voler cercare i secreti di Dio, e che sia peccato. E l’Angiolo glie ne fa rimprovero espresso:

                               E tu che vai cercando il destinato,
Sappi che il servo tuo sará dannato.
               

Dannato! Lui ch’egli vede esercitarsi «in tante opere buone»! Secondo la ragione umana, il romito dovrebbe reputare ingiusto questo atto della divina volontá; ma egli ha fede in Dio, non osa metterne in discussione i giudizii imperscrutabili, e adora il mistero che non comprende. Dopo la risposta dell’Angiolo il suo peccato gli si rivela chiaro innanzi alla coscienza. È il peccato di Adamo, ch’egli descrive con l’energia del sentimento:

                               O uomo istolto, che vai tu cercando?
Quello che a te non si appartien sapere?
               
                               Pensi tu sempre qui bene operando
Di dover l’alta grazia possedere?
Non sa’ tu che tu hai di lassú bando
Per non saperti nel ben mantenere?
E questo vuol la tua ribellione
Che stii qui sempre in gran confusione.
               

Se la sua mente è confusa, se non comprende il decreto di Dio, la cagione il romito la reca al suo atto di presunzione e di ribellione, perché, in luogo di star contento a fare il bene e non cercare altro, egli ha voluto sapere ciò che non gli si apparteneva.

Il concetto è dunque che l’uomo non dee investigare, ma credere, e che quanto piú vuole ragionare, piú gli manca la fede. «Cercare il destinato», gustare del frutto proibito dell’albero della scienza, questo è il peccato dell’intelletto.

Ma questo peccato ha origine in un vizio della volontá. Ed è quel voler fare il bene, non perché bene, ma perché te ne vene la ricompensa. Onde nasce che l’anima non s’acqueta nelle buone opere, ma rimane inquieta e curiosa, almanaccando intorno al suo avvenire.

Fare il bene per la ricompensa che te ne viene, o, come si diceva allora, pei salvarsi l’anima, è il concetto volgare, espresso nella licenza, dove si conchiude che dobbiamo operare virtuosamente e raffrenare la carne «per acquistare la nostra salute». E fu questo il motivo che spinse il giovane a lasciare i parenti e andare a servizio di Dio nel deserto. Il padre, volendo dargli maglie, dice:

                               E sai che il matrimonio è sacramento
E larga via che mena a salvamento.
               
                                                   
E figlio risponde: è certo che «in ogni stato si può l’uom salvare»:
                               Ma bisogna esser ben prudente e sperto
Chi sta nel mondo a non si maculare.
               
E perciò egli fugge il mondo e va ai deserto, come a via piú sicura e piú facile di salvazione.

Ciò che move il giovane è la salute dell’anima. Per questo resiste alle lagrime della madre, alle preghiere del padre, a’ sarcasmi del compare, alle privazioni del deserto.

Il sentimento piú elevato di una virtú pura da ogni desiderio di ricompensa, il sentimento del dovere, spogliato di ogni idea accessoria, non è penetrato ancora nella sua coscienza. E qui è la perfezione, nel fare il bene perché è bene, nell’amare Dio perché è Dio, e non perché ti possa ricompensare.

Quando si sente dannato, il demonio lo assale appunto in questo suo lato debole:

                               Che il tuo servire a Dio poco ti vale,
Perché tu sei dannato;...
               

e cerca gittare il dubbio nell’animo del giovane e turbar la sua fede:

                                                                       e questo è suto,
Perché guastasti l’amor naturale,
Abbandonando i tuoi cari parenti,
Onde se’ degno di eterni tormenti.
               

Qui è la crisi del dramma. Il giovane sta saldo. Il sentimento del dovere nella sua purezza si rivela alla sua coscienza. In luogo di almanaccare su’ motivi del decreto divino, come fa il romito tutto turbato, la sua fede nella giustizia di Dio è tranquilla e sicura:

                                    Padre, ben che l’umana intelligenza
Gravata dal peccato intende poco,
Nondimeno io non ebbi mai temenza
Facendo ben d’esser dannato al foco.
               

E non solo la sua fede rimane intatta, ma anche la sua volontá, disposto a servire Dio e fare quello che gli piace, dovesse anche andare nell’inferno:

                               Ché sol nella mia mente si disia
Di star dovunque a lui piace ch’io sia.
               

Questo concetto è ben piú interessante che non pensa Ebert e Klein. £ il carattere eroico del cristiano nella sua ultima esaltazione: l’annegamento dell’intelletto nella fede e della volontá nell’amore; uccidere sé non solo come carne, ma come ragione e come volontá, come anima; è non solo congiungimento dell’umano col divino, ma obblio dell’umano nel divino

Abbandonare i parenti, fuggire il mondo e «suoi inganni» far penitenza nel deserto, darsi alla vita contemplativa, è la storia volgare di tutt’i santi, è il concetto di Klein. Ma ciò che muove il dramma e gli dá un’azione e un intreccio, è un concetto piú elevato ed eroico, la purificazione e santificazione de’ motivi che c’inducono alle buone opere. Da un eroismo divenuto comune e volgare il dramma sale alle ultime altezze del misticismo, dove piú tardi entrarono in cosí fiera lotta Bossuet e Fénelon.

L’ideale piú alto a cui giunger possa l’eroismo cristiano è qui drammatizzato. Ciascuno ricorda la grande impressione che fa la voce dell’Angiolo nel Faust, quando dice di Margherita: — È salvata!— , mentre Mefistofele si affrettava a dire: — È mia — . La stessa impressione fa qui quel terribile: — È dannato! — , quando il romito domandava qual luogo gli era riservato in paradiso. Il dramma comincia veramente qui: tutto l’altro è antecedente. Il turbamento del romito, la confusione della sua mente, il suo dolore di essere stato forse egli cagione con la sua domanda indiscreta della perdizione del giovane, le insidie del demonio, la costanza e tranquillitá del giovane, le ardenti suppliche del romito a Dio sono il movimento e il processo del dramma, che si scioglie liricamente in una lauda, quando l’Angiolo annunzia: — È salvato! — .

Ma questo non è che uno scheletro di dramma, nella rozza semplicitá della prima concezione. Il frate raffazzonatore ha potuto ripulirlo, appiccarvi anche qualche scena, come è probabilmente la tirata del compare contro i frati e la preghiera del romito perché Dio riformi la sua legge guasta dal Pastore, ma non ha saputo mettervi sangue e polpa. I personaggi sono astrazioni; i fatti e le passioni appena indicate: pare un progetto di dramma, anzi che il dramma.

Sento qui dentro il frate, ma non vedo l’artista. E non c’è pure nessuna intenzione artistica.

Il frate ha voluto fare una rappresentazione nel convento, come si facevano nelle chiese e per le piazze. E cosí intuonando il novizio un canto alla vota contemplativa, il frate avverte che dee esser cantato come i rispetti, versi d’amore in bocca al popolo. Quest’uso d’introdurre ne’ chiostri le rappresentazioni e i canti popolari, voltando a fini religiosi le forme usate ne’ pubblici intrattenimenti, mi ricorda le commediole che i gesuiti componevano espressamente pe’ loro convittori. Il fine dell’autore è di ammaestrare i frati con una dilettevole rappresentazione. E n’è uscito il dramma claustrale.

Il fatto è pigliato da qualche antica leggenda, come la piú parte delle rappresentazioni. Non si sente un pensiero originale. Il frate non ha sentito, né compreso quale magnificenza di concetto aveva innanzi, e lascia cadere nel vuoto i piú interessanti contrasti drammatici. Ci è qua e lá qualche lampo d’affetto, come nell’addio della madre e nella scena del romito dopo il primo annunzio dell’angiolo, soprattutto quando tra dire e non dire si lascia uscir di bocca la terribile notizia. Tutto l’altro è insignificante. Manca al frate la chiara percezione del concetto che ha alle mani, e perciò divagasi e riesce in luoghi comuni. Il fatto di cui dá la rappresentazione non ha per lui altra importanza che di un esempio e di un ammaestramento, e spesso avverte che le parole del tale e tale personaggio servono a mostrare questo e questo. Perciò il fatto non ha valore proprio, non alletta la pigra immaginazione del frate, non gli scalda il cuore; il concetto rimane inerte. Li stesso protagonista è poco piú che una figura allegorica. Il romito è piú interessante, perché è piú uomo. Ma il giovane è astratto come una idea e rigido come una regola; ha la calma e l’immobilitá del puro divino. Cosi com’è concepito, sarebbe un personaggio non drammatico, ma lirico, con le sue estasi, le sue visioni, i suoi inni, le sue orazioni, cosí come sono le figure del beato Angelico; ma l’autore non ha caldezza di cuore, e i suoi canti e le sue orazioni mancano di unzione e di affetto.

Nondimeno cosí com’è questa rappresentazione claustrale è di non piccolo interesse nella storia della letteratura. Il gran problema al Medio evo è l’arte della santificazione, il modo di salvarsi l’anima: di che è uscita la Divina Commedia. Questo problema eterno della scienza e dell’arte, che con linguaggio moderno si direbbe dell’umana destinazione, è la base di questa rappresentazione. A prima vista il senso del dramma pare che sia: — Fa il bene e non cercare il destinato — . Ma il destinato è il centro dell’azione e dello sviluppo, è la gran quistione del dramma: il giovane sará dannato o salvato? La soluzione comune a tutta quell’epoca era questa, che la miglior via di salvazione era contrastare alla carne, fuggire il mondo, orare e contemplare. Ebbene, facendo cosí, il giovane ò dannato. Qui è l’interessante e il nuovo del concetto. La mistica del Medio evo è oltrepassata; non è solo la carne assorbita dallo spirito, ma è lo spirito assorbito da Dio.

Come storia de’ concetti umani nei loro cammino scientifico e artistico, questo dramma non è dunque senza importanza; né io ho fatto opera vana pubblicandolo.

Questo concetto veramente claustrale ed ultra spiritualista della santificazione può produrre una lauda, non può produrre un dramma. Il dramma c’è, ed è la battaglia prima tra il senso e la ragione, poi tra la ragione e Dio. Ma la prima battaglia è cessata, e il dramma comincia quando «la ragion vince, e il senso è vinto», vale a dire comincia il dramma quando è giá finito; il sipario s’alza quando dee giá calare. La seconda battaglia è tra la ragione e Dio: la ragione è il demonio tentatore sotto aspetto del compare, che con argomenti umani assale il giovane. Ma la battaglia rimane esterna e a parole; non penetra nella coscienza del giovane. Perciò il dramma riesce esterno e simbolico; l’anima tranquilla e monotona vi è estranea. Mettete la battaglia nell’anima, dividetela, straziatela, e avrete il carattere, la passione, la vera collisione interna, senza di cui non è dramma. Allora il terreno insegue il santo e si fa valere sino nel chiostro e nel deserto; lo spirito si pone di rincontro a Dio nella sua libertá e personalitá; nasce l’eterno due, la lotta tra l’umano e il divino, che va a finire in un: — Dannato! — o in un: — Salvato! — . Perciò Adelaide e Comingio, Abelardo ed Eloisa sono personaggi claustrali drammatici; il nostro giovane non è che un personaggio lirico. E chi si addentra in queste considerazioni, e nota quanta prevalenza ebbe a quel tempo in Italia questo misticismo astratto e simbolico, la cui formola te la dá questo dramma, ed è l’assorbimento dell’umano nel divino, vedrá perché l’Italia potè anche avere una lirica, potè anche avere la Divina Commedia, ma non potè avere il dramma.

[Nella «Nuova Antologia», marzo 1870.]

  1. Civil, mondana.
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