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Ugo Foscolo
Un dramma claustrale Giuseppe Parini

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Come uomo lungamente amato e desiderato che torna in patria, l’Italia rivede Ugo Foscolo. Il grande esule viene a prendere il suo posto accanto a Vittorio Alfieri, nel tempio de’ suoi Sepolcri, nella cittá delle sue Grazie. Nessun uomo ha avuto nemici cosí accaniti, anche oltre la tomba; pedanti politici e letterarii mescolavano il loro abbajare colle pie mormorazioni dell’ipocrita, e la sua immagine ingrandiva sempre. Il tempo cancellò dalla vita sua la parte aneddotica e terrestre, materia di accuse e di calunnie, e rimase la statua, adorata come un idolo dalle nuove generazioni. Anche oggi, se parli ai giovani di Foscolo, non odono ragionamenti, non ammettono discussioni, credono in Foscolo, amano Foscolo; e lo amano, perché lo amano, per una forza occulta, come si spiegava tutto una volta. È questo grido universale di simpatia, che pone oggi sul suo piedistallo il grand’uomo, affogando nell’immenso plauso le voci ostili e anche imparziali. Io stesso non mi sento libero, o, per dir meglio, m: sento attrarre da questa universale simpatia, e con riverenza di discepolo mi accosto al grand’uomo, e lo interrogo, cerco di comprenderlo, cerco di strappargli il segreto di una grandezza cosí popolare.

Io leggo: Bonaparte Liberatore, oda del liber’uomo Niccolò Ugo Foscolo. Aveva allora diciannove anni, presente ad una rivoluzione che si allargava all’Italia, grazie alle vittorie di Bonaparte, e che sembrava «l’aurora di perpetuo sole», si che il mondo ricominciava il suo corso e prendea data da quella, come giá a’ tempi del Cristo. Quell’ode era grido di esultanza che mandava tutta Italia al «giovine eroe», dal quale attendea la sua redenzione, esprimea comuni gioje e comuni speranze. Io mi fermo qui, e domando cosa era dunque questo giovine entusiasta, che si facea voce di Italia, e s’intitolava da sé «liber’uomo», e si facea chiamare «Niccolò Ugo», anzi anche «Ugone», quasi modello che posi, e dica: — Guardatemi — . Era ancora, come si direbbe oggi, un collegiale, e putiva di scuola: aveva ancora il cervello vagante, non aveva trovato sé stesso. Pure si tenea gii un grand’uomo, e aveva giá il suo cerchio di entusiasti, che lo gridavano tale. Una sua tragedia, il Tieste, era stata molto applaudita; una sua poesia per monaca correa per le mani di molti: poetava, amoreggiava, giocava, gittava frizzi ed epigrammi, declamava, «rabbuffato il crine, con rauca voce e fiammeggianti sguardi», come scrivea nella sua ammirazione uno de’ suoi adoratori. Chi erano costoro? Erano suoi compagni di scuola, di studii, di aspirazioni e di vita, i piú discepoli dell’abate Cesarotti, che riconoscevano la sua superioritá e si stringevano intorno a lui. Egli era il grand’uomo di quel piccolo mondo giovanile, ed era anche il suo Beniamino. Lo ammiravano e lo amavano, perché il grande uomo, se avanzava tutti d’ingegno e di studii, era uguale a tutti nella vita, in quella dissipata spensieratezza propria dei giovani, ora fragorosa e allegra, ora sentimentale e malinconica: era tutto amicizia, tutto tenerezza, tutto baci, mandava baci alla madre, a Laura, all’amico Olivi, e a Cesarotti. Facile all’entusiasmo e all’abbattimento, com’è di tutti i caratteri nervosi, ora si ritirava in solitudine, e petrarcheggiava, metteva in rima le sue malinconie, cantava la sua Laura, e deplorava la sua giovinezza giá passata:

                               Sul mattin della vita io non mirai
Pur anco il sole, e ornai son giunto a sera
Affaticato, e sol la notte aspetto;
               
ora ne’ crocchi alfiereggiava, tonando contro la tirannide, gonfie le gote di patria e di libertá. Era in miniatura l’immagine del secolo che giá volgeva alla fine, nella sua coltura e nelle sue tendenze. Greco di patria, avea familiari gli scrittori greci, come gl’italiani. Avea studiato il latino, che non era uscito ancora di moda. Le tragedie di Alfieri, il Giorno di Parini, l’Ossian, la Bassvilliana davano a questi studii gli ultimi contorni, l’aria moderna. Questa era la istruzione «officiale», ammessa o tollerata. Ma ci è l’istruzione segreta, gustata col sapore del frutto proibito, fatta tra pochi e confidata all’orecchio. La coltura europea era giá penetrata in Italia; la lingua francese vi era divenuta comune, e si traducevano dal francese molte opere inglesi e alcune anche tedesche. Il nostro Ugo si gittò su questa letteratura con aviditá, e l’aggiunse ai suoi studii classici. In quella prima febbre di lettura e di composizione, che prende tutti gli uomini di qualche ingegno, lo vedi tradurre gli Annali di Tacito e il Contratto sociale di Rousseau, tradurre Anacreonte e Catullo, e poi Milton e Gessner. Nella sua immaginazione coesistevano con pari diritto il Vangelo, il De Officiis, e Montesquieu, Tacito e Raynal, le Canzoni del Petrarca e le Lettere di Abelardo ed Eloisa, il Telemaco e la Nuova Eloisa, l’Orlando Furioso e il Don Chisciotte, Longino e Marmontel, Locke e Volfio. Sulla base solida de’ suoi studii classici s’alzava un edificio fragile, fatto in fretta e senza disegno, non bene armonizzato né in sé, né con quella base. La conclusione de’ suoi studii fu che in Italia era tutto a rifare, religione, governo, leggi, costumi, scienza e letteratura. Questo era sentito piú o meno chiaramente da tutti, e temuto o sperato secondo le passioni. Il mondo era vecchio e corrotto, e bisognava ringiovanirlo. Il rimedio era la libertá; il medico era la filosofia; e il nuovo stato sociale che dovea uscirne, era la democrazia. Si trattava di restituire all’uomo i suoi diritti, che la natura gli avea dati, e la societá gli avea tolti. Si voleva considerare le cose non nello stato di corruzione in cui erano, ma nel loro stato di origine, nella loro costituzione naturale. Alfieri avea dato un grande impulso a queste idee, e Beccaria le avea rese popolari anche nella scienza; né i principi le avevano in gran sospetto, perché sembravano indirizzate principalmente contro i preti e i nobili, loro antichi e non domi avversarii. Tutto, dunque, andava a seconda; Parini, Beccaria, Filangieri erano voci gradite anche in alte regioni; i governi si faceano essi stessi iniziatori di riforme giuridiche ed economiche, stringendo il freno al potere ecclesiastico. In questa classica terra dell’Arcadia anche la rivoluzione si concepiva arcadicamente, e parea possibile rinnovare il mondo senza violenze né esagerazioni, concordi principi e popoli, e tutti contenti, come nell’etá dell’oro. In quel moto rapido d’idee la riforma toccava anche la letteratura. Il Minzoni, il Rolli, il Frugoni, il Metastasio, furono giudicati poeti vuoti o molli, voci della vecchia Italia; tornò a galla Dante; si mirò alla forza, al sublime, al grandioso, al magnifico; si domandarono ispirazioni alla Bibbia e fino ai Celti. Indi la popolaritá degli abati Monti e Cesarotti, graditi piú che {AutoreCitato|Vittorio Alfieri|Alfieri}} a quell’etá ancora arcadica, urtata con troppa violenza dal fiero astigiano. Anche la prosa ebbe la sua piccola rivoluzione. Boccaccio cesse il posto a Machiavelli. Si voleva una maniera di scrivere piú corrente e naturale, meno lontana dal linguaggio parlato, e con un certo brio per entro, che le togliesse quell’aria di pedantesca gravitá. L’Algarotti, il Bettinelli, il Baretti accennavano a questa maniera che si andava sempre piú avvicinando alla prosa francese, maestro il Cesarotti. Beccaria e Galiani erano ammiratissimi non solo per le loro idee, ma per la forma del loro scrivere, che parea un perfetto esempio della nuova pi osa. Anche quelli che erano piú schivi d’imitazione straniera, come Alfieri, lasciate le forme rotonde e rigirate del cinquecento, si accostarono al fare piú spigliato e semplice de’ trecentisti. E tra la licenza degli uni e il rigorismo degli altri, tra l’abate Cesarotti e l’abate Cesari si andava formando una prosa meno intricata ne’ suoi giri e piú conforme all’andamento logico e al discorso naturale. Né il moto si arrestò alle forme letterarie. Si dicea che la letteratura non dovea essere più un vano suono, né un passatempo, né un giuoco d’immaginazione; mente ci voleva e cuore, onde venne poi il barbaro vocabolo: «cormentalismo»; dovea essere insieme filosofia ed eloquenza, dimostrare e persuadere. In quell’etá di filosofi e di filantropi si andò insinuando nella prosa un certo entusiasmo filosofico penetrato di sensibilitá: ciò che poi fu detto filosofismo e sentimentalismo. Ci era in quello scrivere non so che di Dante, ma di un Dante nervoso, divenuto elegiaco e petrarchesco, tipo Rousseau. Questa mescolanza di una energia un po’ rettorica e di una tenerezza un po’ arcadica, questi furori lacrimosi, questi entusiasmi malinconici rivelavano quello stato morboso dello spirito, che precorre alie grandi rivoluzioni, quando l’odio del passato, il desiderio di un mondo migliore, le piú care aspirazioni del tuo cuore si trovano contraddette da uno stato di cose ferreo, che non sai come o quando possa cessare. Si comprende adunque perché Rousseau fu cosí popolare, e perché ebbe tanto potere sopra le immaginazioni. La nuova generazione sentiva in lui la profonda scissura tra quel mondo d’idee e quel mondo de’ fatti. Ma in Italia la sensibilitá non aveva presa ancora quella forma cosí accentuata. Le nuove idee si applaudivano in teatro nei versi di Alfieri e di Monti, ma non avevano ancora influenza nella vita pratica. La vita era ancora piú letteraria che politica, piú intorno alla forma che al contenuto, piacevano quelle tirate contro i tiranni, quei sarcasmi verso preti o nobili, ma come bei pezzi di rettorica, ed anche come uno sfogo dell’opinione, senz’altra conseguenza. Alfieri stesso vagheggiava un’Italia futura, ed era certo un futuro molto rimoto, se dovea avere per base un «popol fatto». Non ci erano tra noi quelle resistenze che provocano le impazienze, non quei disordini e quegli scandali che offendono la coscienza pubblica, non quelle compressioni che rendono la vita intollerabile; anzi i principi facevano bocca da ridere e lasciavano dire, non schivi di novitá che non toccassero le loro prerogative: i governi si facevano chiamare illuminati e paterni. In questa superficialitá dello spirito la sensibilitá non era altro che sfogo filantropico, un ardente amore del bene raddolcito da facili illusioni, una compassione per gl’infelici, vittime de’ cattivi ordini sociali, un grande interesse per il miglioramento degli uomini, non senza un po’ di tinta rettorica, massime in Filangieri. L’idea che tutto quell’ordine di cose cosí antico e in apparenza cosí solido dovesse o potesse crollare tutto insieme, non era ancora entrata in nessuno, e tante belle cose che si leggevano ne’ libri nessuno pensava che potessero avere effettuazione né prossima, né lontana. Gl’italiani fin dal Concilio di Trento vivevano in uno stato cronico d’ipocrisia, si erano avvezzi a distinguere le massime de’ libri dalla pratica della vita; la scissura tra le idee e i fatti era per loro lo stato normale della coscienza. Appunto perché la loro letteratura non avea radice nella vita, fini arcadica e accademica. E un po’ di arcadico e di accademico era pure in questo movimento. Le nuove idee non erano piú che idee; pochi erano disposti a lavorare per la loro effettuazione, o a professarle con qualche pericolo; il cervello aveva progredito, ma non il carattere. Alfieri era tenuto una singolaritá, o, come oggi si direbbe, un eccentrico, e chi piú rendea il carattere nazionale, era Vincenzo Monti, magnifico nelle massime, povero ne’ fatti, divenuto oggi il capro espiatorio di tutti. Né parlo giá della plebe, distantissima anche ora dalle classi colte; parlo de’ piú eletti, de’ piú innanzi nelle idee, e non dissimili al volgo quanto alla dignitá della vita. Coraggio fisico ce n’era, come si mostrò poi; mancava il coraggio morale, ultimo a comparire, primo a perdersi. Quella gente declamava la rivoluzione ne’ saloni e nei teatri, in tutta innocenza, aliena da ogni pensiero che dovesse un giorno esser presa in sul serio. Ma ecco viene la rivoluzione americana, cantata da Alfieri. Ecco la presa della Bastiglia, cantata pure da Alfieri. Quelle famose massime, cosí ben declamate, si muovono d’in su’ libri, diventano discorsi politici, si trasformano in istituzioni. La rettorica impallidiva innanzi a quella realtá L’utopia piú audace era una timida riforma innanzi alla notte del 4 agosto o alla proclamazione dei diritti dell’uomo. Al ’93 Ugo Foscolo aveva quindici anni. Giá cantava Laura, declamava Dante, recitava poesie democratiche a quattr’occhi II suo eroe era Alfieri, «il primo degli italiani». I suoi autori prediletti erano Plutarco, Tacito, Machiavelli. Si educava all’eroica. Le idee nuove gli erano giunte attraverso i classici. La sua patria è Roma e Atene. La sua liberta è la repubblica. Lo scopo della vita è la gloria, il fare grandi cose, degne della posteritá. Roma vista da lontano prendeva le proporzioni colossali di una statua, e ingrandiva tutto intorno alla sua misura. L’uomo era Cesare o Catone. Vivere e morire romanamente, come un eroe di Plutarco, questo era il modello, dal quale erano usciti i Timoleoni, i Bruti e gli Aristodemi, applaudito sulla scena, e preso in sul serio nelle scuole. Il borghese comhattea il nobile e il prete, avvolgendosi della toga, con un’aria di «civis romanus sum». Questo era un po’ dappertutto, anche in America, anche in Francia, un involucro d’obbligo delle nuove idee; per noi era come una tradizione di famiglia, un ripigliare possesso di casa nostra. Alfieri continuava Dante, e il giovine Ugo prendea la posa di Alfieri, e si metteva in toga, e si faceva chiamare «Niccolò Ugone» e si proclamava il «liber’uomo». Il coniaste fra questa educazione alla Bruto e la mediocritá della vita reale produceva il ridicolo, e molti si spassavano alle spese di «Ugone» e del «liber’uomo». Agli uni sembrava una caricatura agli altri sembrava un grand’uomo. Ma Ugone ridiveniva Ugo, il tenero Ugo, nella vita familiare. Avea perduto il padre; era lontana la madre; vivea sottilmente; spesso si sentiva solo, cercava la solitudine, era tetto sentimento, gli veniva a malinconia. L’eroico si collegava al sentimentale. Petrarca, Rousseau, Young penetravano in quella natura dantesca, e la ammollivano, la disponevano alle dolci lacrime, alle tenere effusioni A sedici anni scrive ad un amico:

L’amore, quella divinitá piú benefica dell’uomo,... mi ha dettato quei versi che offro al mio sensibile amico, al compagno piú tenero de’ miei giorni perseguitati ed afflitti. Ei leggeralli con quell’entusiasmo che gli ecciterá l’affetto il piú sacro... Sarò felice,... se l’amicizia accoglierá i versi di un sensibil core.

A diciotto anni scrive:

Addio, buoni e sensibili amici; io mi trattengo con le vostre lettere, io parlo con voi, ed io sento un fascino che mi costringe ad amarvi... L’unico mio compagno, il solo che mi è restato fra le disgrazie, è il cuore.

Piú tardi scrive:

Pieno di pensieri patetici... con gli occhi bagnati... io mi rivolgo a’ miei teneri amici.

Ti par di sentire i singhiozzi del sensibile Ugo. In una sua elegia a Laura trova modo di ficcarci Young e Rousseau:
                                    Era l’istante che su squallide urne
Scapigliata la misera Eloisa
Invocava le afflitte ombre notturne;
     E sul libro del duolo, u’ stava incisa
Eternitate e Morte, a lamentarsi
Veniva Young sul corpo di Narcisa.
               

Queste pose dantesche, queste tenerezze petrarchesche erano il tono della scuola, vita di reminiscenze e d’imitazioni, riflesso de’ libri, impressioni fuggevoli ne’ piú, quando entrano nella vita reale, ma che lasciano vestigi profondi, dove trovano materia che vi risponda. Foscolo era ancora tutto reminiccenze. La sua sensibilitá non è senza ostentazione, e senti la rettorica nel suo entusiasmo. Bonaparte si affaccia dalle Alpi gridando libertá. Le sue vittorie esaltano le immaginazioni, i suoi proclami, le sue promesse svegliano le piú alte speranze: pare vicina l’etá dell’oro. Venezia dichiara la sua neutralitá. Foscolo se ne sdegna. L’onda democratica soverchia l’antica oligarchia. Si vede Foscolo ne’ comizi declamare il processo verbale. Lo si ode tonare nelle adunanze pubbliche, «forma ululati invece di parole». Il sensibile, il malinconico Foscolo entra nella vita pubblica con la posa di Alfieri e con l’accento di Dante. La scuola faceva la sua comparsa in piazza. Tra quell’entusiasmo di popolo, tra quelle care illusioni di una gioventú confidente il «liber’uomo Niccolò Ugo Foscolo» scioglieva un cantico «a Bonaparte Liberatore». E come vi si sente la scuola! Dee parlare di Bonaparte, e comincia dalla Dea Libertá fuggitiva da Roma, felice «all’ombra di sue sacre penne», e seguita nel suo pellegrinaggio dalle ombre risorte dei Bruti. Bonaparte ha le brune chiome cinte di fiorente alloro. I suoi cavalli sono sferzati da Pallade. Innanzi va la Gloria; dietro gli stanno Sorte, Vittoria e Fama. Per una finzione rettorica Foscolo, che a benissimo il perché, domanda alla Dea Libertá:

                               Or che fia dunque, o diva?
Onde tant’ira? e qual destin ti chiama
A trar tante armi da straniera riva
Su questa un di Reina, or nuda e schiava
Italia, ahi! solo all’abbominio viva,
Viva all’infamia che piangendo lava?
               

Tutto è su questo tuono. Il soglio de’ Papi, de’ «Re Sacerdoti», è fabbricato dall’Inganno, ha a destra l’orgoglio vestito di stola, e per sgabello «cataste d; frementi capi» e di «cadaveri innocenti... pel fulminar di pontificio labbro». Cesare a quel rumor d’armi si sveglia dalla tomba, e alza il brando e cala la vsiera... Ma Foscolo gli grida:

                               Ombra esecranda! torna
Sitibonda di soglio,
Ove lo stuol degli empi re soggiorna,
Oltre Acheronte a pascerti di orgoglio.
Eroe nel campo, di tiran corona
In premio avesti: or altro eroe ritorna;
Vien, vede e vince, e Libertá ridona.
               

Vi senti per entro dell’Alfieri, di Dante, del Petrarca, del Monti e del Cesarotti. La scuola non solo gli falsa l’espressione, ma il concepire. È come un mezzo artificiale posto tra lui e la natura, una lente che ingrandisce gli oggetti annebbiandoli e snaturandoli. Fra tanti epiteti ridondanti, fra tante sonore amplificazioni formano grottesco contrasto certe frasi del tempo, come la «tricolorata bandiera», e gli «antichi diritti dell’uomo», e «le sante leggi di natura infrante dal dispotismo».

Si era tanto declamato sulla scena contro i tiranni, si era tanto gridato libertá, che la rivoluzione, quando apparve, si poteva dire giá «scontata», e non ispirò nessuno. Era una rivoluzione improvvisata, venuta di fuori, come dal cielo, e per miracolo, senza opera di nessuno. Mancava quel flusso di azione e di resistenza, che genera la fede e la passione, quel contrasto della realtá, al cui attrito l’anima manda scintille. Avvenimenti cosí grandi non bastarono a rendere serii quegli uomini, perché non uscivano da loro Rimasero arcadi, poeti, filosofi, retori, Bruti e Catoni di carta. Doveva presto venire la prova del foco, voglio dire l’urto della realta, che gittava per terra i Monti e i Cesarotti, e scopriva le anime forti, i Cirillo e i Mario Pagano. Ma quando scriveva Foscolo, erano tutti Bruti, e lui per il primo.

Napoleone, mentre «alzato su sé medesimo, con libera cetra» il candido Ugo lo canta «liberatore», vendeva all’Austria Venezia. La catastrofe sopraggiungeva proprio in mezzo al trionfo. I democratici gridarono la resistenza ad ogni costo, sino all’ultimo sangue. Foscolo voleva cadere, ma con le armi in mano, romanamente, «con repubblicana energia». Di questo avviso non furono i piú, e tanto fragore di una libertá facilmente acquistata andò a finire con la stessa facilitá nel silenzio della servitú. I prudenti e i timidi, curvando la testa innanzi a’ forti, mostrarono coraggio contro i loro concittadini, di animo piú virile, e li proscrissero:

Voi in Brescia siete liberi, scrive Foscolo; io per vivere libero abbandonai patria, madre, sostanze. Venni nella Cispadana con la devozione di un democratico; passerò per la vostra rigenerata cittá colla sacra baldanza di repubblicano: potremo per la prima volta giunger le destre sciolte dalle catene dell’oligarchia. Avvertitene... Scevola. Salute. Aveva giá avuto le prime punture della realtá. Fidava in Napoleone, e lo trovava traditore. Fidava nei suoi concittadini, e li trovava vili. In cosí breve tempo acquistava e perdeva la patria come avesse fatto un sogno. Pure è giovine, pieno di confidenza in sé stesso, e conserva tutte le sue illusioni, e va in piú ampio teatro a spiegar le sue forze. Venezia è serva, ma l’Italia è libera: era allora «il primo anno della italica libertá». Innanzi alla sua immaginazione stanno cittá rigenerate, «devozione di democratici», «baldanza di repubblicani», «destre sciolte dalle catene», e si sottoscrive «il cittadino Niccolò Ugo», e fa avvertire del suo arrivo l’amico di Brescia, divenuto col nuovo battesimo Scevola. In quel primo caldo, con l’anima facile a tutte le impressioni, mendico, vagante, inseguito dalle caricature de’ veneti e dalle memorie della patria e della famiglia, la sua Laura, il suo idolo petrarchesco, prende realtá, lo infiamma di una viva e vera passione. Come la patria, cosí l’amore usciva dalla scuola ed entrava nella vita. Lasciava Venezia e trovava l’Italia. Lasciava Laura e trovava Isabella. Nuova patria, e nuovo amore, e nuovi disinganni. Il suo amore è una tragedia, di cui queste sono le ultime parole:

Fammi avere... il tuo ritratto... Quel giovine felice che ti ama te lo consentirá... Egli è riamato... Potrá vederti ed udirti, mentre io nelle fantastiche ore del mio cordoglio e delle mie passioni, annojato di tutto il mondo, diffidente di tutti, malinconico, ramingo, con un piè sulla fossa, mi conforterò sempre baciando di e notte la tua sagra immagine.

La sua patria è una farsa ignobile. Sognava Bruti e Scevoli, e trova uomini comuni, e, perché non sono eroi, li giudica pigmei. Osano proscrivere il latino! Osano condannare la Bassvilliana! E i giornalisti che vendono la penna! E i letterati che incensano a’ potenti! E i democratici che tiranneggiano, come un tiranno! Foscolo fremeva. E loro caricavano, e lo chiamavano per istrazio Catone e Ugone. Domandò un posto in qualche biblioteca «per consacrare i suoi giorni alla patria e alla filosofia»: e non l’ottenne. Si scrisse alla milizia, e soldato onorario passava gli ozi a Milano, in contrasto con sé e con gli altri irrequieto, scontento, ora tutto gioco e donne a quel modo che il contadino si ubbriaca «per dimenticare il suo stato», ora tutto solitudine e scrittojo, fantasticando, tra imprecazioni e disperazioni.

                                    E so invocare, e non darmi la morte,                
L’idea del suicidio gli balena avanti piú volte: ha venti anni e sente giá il vacuo dell’esistenza:
                                    Non son chi fui: peri di noi gran parte,
Questo che avanza è sol languore e pianto;
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
Del lauro, speme al giovenil mio canto.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .
     Figlio infelice e disperato amante,
E senza patria, a tutti aspro e a te stesso.
Giovane d’anni e rugoso in sembiante,
     Che stai? breve è la vita e lunga è l’arte:
A chi altamente oprar non è concesso.
Fama tentino almen libere carte.
               
L’intenzione era ottima: ma la volontá era difettiva. E spesso tra un sonetto e l’altro correvano delle giornate e delle notti male spese, tra piaceri scontenti e seguiti da rimorso:
                                    Di vizii ricco e di virtú, do lode
Alla ragion, ma corro ove al cor piace.
               

Ho citato de’ versi. Vedete giá la differenza, ove facciate il raffronto con l’ode. Ivi ridondanza, improprietá e generalitá. Qui una forma condensata e raccolta con certo studio di forza e di profonditá, con armonia severa, penetrata da un pensiero in travaglio. Sul fondo incolore della scuola si va designando una fisonomia.

Uomo di passione e d’immaginazione, Foscolo, percosso da avvenimenti tanto straordinarii in cosí breve tempo, in contraddizione con tutte le sue affezioni e con tutte le sue idee degli uomini e delle cose, non avea quella calma di giudizio, che bastasse a spiegarseli ed acconciarvisi, come fanno i piú. Il vero patriota, non che starsi in disparte coi denti ringhiosi, maledicendo tutta la societá, vi si mescola, e la il bene che può, pur rimanendo lui. Ma le illusioni erano state troppo vive, e il disinganno troppo violento, e la tempra dell’uomo non era comune. Foscolo aveva preso sul serio tutte quelle massime di dignitá, di virtú, di gloria, cose allora in quella loro idealitá da teatro e da scuola. I suoi contemporanei volevano pure quelle cose, ma fino a un certo punto, cioè secondo la possibilitá de’ tempi, e senza molto loro incomodo, anzi pescavano nel torbido posti e quattrini, ancorché vi dovessero lasciare una parte della loro dignitá personale e delle loro massime. Questo sembrava abbominevole a Foscolo: e all’urto di una realtá tanto disforme, quando tutti piegavano, lui dié indietro e si chiuse in sé. Rimase solo, accanto a Parini ed Alfieri. Ma Parini nella solitudine serbava quella sua calma di uno spirito sano e indulgente; la solitudine di Alfieri era orgoglio e disdegno, con uno sguardo dall’alto su di un mondo ignobile; erano le statue colossali del secolo decimottavo, irrigidite sul loro piedistallo. Foscolo era ancora in uno stato di formazione, cosí giovane, fra bisogni della vita cosí stringenti, in tanta veemenza di passioni, con tanto «furore di gloria», e non far nulla, e sentirsi solo, e sentire giá il peso della vita, e pensare al suicidio!

                                    Che se pur sorge di morir consiglio,
A mia fiera ragion chiudon le porte
Furor di gloria e caritá di figlio.
               
Situazione d’animo tesa, impossibile, poco durevole, ma che dá una base reale a quel suo sentimentalismo da scuola, sviluppando in lui sentimenti teneri e malinconici, per entro a’ quali senti scorrere il fresco alito della gioventú non doma, non so che virile nel pianto:
                                    Stanco m’appoggio or al troncon d’un pino,
Ed or prostrato ove strepitan l’onde
Con le speranze mie parlo e deliro.
               
In questi versi malinconici c’è qualche cosa che «strepita» come l’onda, una forza rósa da ozio, o, com’egli dice, uno spirito guerriero che gli rugge ai di dentro, e non trova sfogo. Questa forza, ora sdegnosa, ora trista, gl’ispira il sonetto all’Italia e il sonetto a Zacinto. Ecco versi nei quali suona giá, come presentimento, Giacomo Leopardi:
                                    Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra: a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
               
Questo «illacrimata» è pieno di lacrime. Morire, e nessuno ti piange. Ci è qui dentro il germe de’ Sepolcri. È una frase di suicida. La morte del padre e del fratello, la lontana madre la terra natia, la patria divisa e imbarbarita, la fuga del tempo e il «nulla eterno» e certa bella ombra che gli passa dinanzi fuggitiva, sono i frammenti lirici di questa storia interiore di uno spirito distratto, scontento, dissipato, centrifugo. È la storia di un giovine, che aveva appena passati i venti anni.

Da questa storia usciva Jacopo Ortis. Sotto a quel nome Foscolo scriveva sé stesso, a frammenti, secondo le impressioni e gli accidenti: poi a mente tranquilla fissò un disegno, stabili le proporzioni e venne fuori un romanzo, dove si sentono come diversi strati di formazione, mal dissimulati dal lavoro posteriore.

Ci era giá il Werther. Foscolo non l’avea letto. L’ebbe piú tardi, e mutò, rimutò, sotto a quella impressione. Il romanzo parve una imitazione, anzi un furto. Ma tutti lo leggevano. E il successo fu grande, massime tra’ giovani e le donne.

Ho innanzi il Werther. E non vedo come siasi tanto disputato su questi due romanzi. Jacopo e Werther sono due individualitá nella loro somiglianza superficiale profondamente diverse, anzi antipatiche l’una all’altra. Jacopo non avrebbe mai amato Carlotta, e Werther non avrebbe saputo che farsene di quella Teresa. Goethe ti dá un lavoro finamente psicologico: Kant avea lasciata la sua orma in quel cervello. Il suicidio vi appare come conseguenza ultima e fatale di una serie di fatti interiori còlti nelle loro gradazioni piú intime e piú delicate. É lavoro di una ispirazione tranquilla e concorde, in un ambiente tutto moderno, con perfetta objettivitá, voglio dire con un sereno spirito di osservazione e di analisi. Goethe sembra Galileo che guarda col telescopio nell’anima e ne scopre tutti i segni. Perciò il suo romanzo è vera prosa, con tutti i contorni e la finitura del mondo reale. Ci si vede un popolo, il cui ideale si sviluppa in mezzo a tutte le condizioni della realtá.

Il lavoro di Foscolo è al contrarie poesia in prosa. É lui, quale natura ed educazione, quale illusioni e disinganni lo avevamo formato. C’è li dentro Venezia tradita, Isabella perduta e la memoria di Laura e della madre e degli amici, l’uomo senza patria, senza famiglia e senza Dio, col corpo e coll’anima errabonda nel vuoto di una vita contraddittoria e inutile: ci è tutta una tragedia nazionale in tutta una tragedia individuale. Ma la tragedia non è la materia del libro, è il suo antecedente. Siamo alla fine del quinto atto; la catastrofe è succeduta. pubblica e privata; al protagonista non resta che puntarsi la spada sul petto come Catone, o, come un personaggio di Alfieri, «cacciarsi un coltello nel cuore per versare... il sangue fra le ultime strida della patria». Qui comincia il libro; qui, dove cala il sipario, comincia ia rappresentazione. Jacopo ricomincia una vita nuova, al cui ingresso sta il suicidio, come una tentazione cacciata via. Vita nuova, perché l’antico Jacopo è morto e se n’è formato un altro. Patria, virtú, giustizia, libertá, scienza, gloria, «i raggi della sua mente», sono divenuti fantasmi e illusioni. Regna la forza: l’uomo è lupo all’uomo: pochi llustri ovrastano a tanti secoli e a tante genti, anzi, spogliati della magnificenza storica, gli eroi di Plutarco son come gli altri: antichi e moderni, tutti si valgono: «umana lazza!». £ la situazione del suicida. Quando Bruto disse: — «O virtú, tu non sei che un vano nome!» — il suicidio era giá compiuto nell’anima. Jacopo vive, e non sa che farsi della vita, vive come chi domani s’ucciderá. Ha tanto vigore d’intelletto, e fa vendere i suoi libri: a che serve la scienza? Ha tanto ardore di passione, tanta ambizione, tanta sete di gloria, tanto bisogno d’amare e di essere amato, è cosí giovane, quasi comincia ora a vivere: ma a che serve il vivere? Questo è il nuovo Jacopo, sorto sulle rovine dell’antico. Era tutto fede, credeva alla libertá, credeva alla scienza, credeva alla gloria: al primo urto della realtá rinnega e bestemmia tutto, anche sé stesso. La tragedia non ci è piú: ci è una situazione lirica nata dalla tragedia. È il suicidio in permanenza, sviato, interrotto, contrastato, indugiato, perché in quella forte natura è ancora freschezza e potenza di vita, che su’ disinganni ricrea nuovi inganni. Aggrappato sul «dirupo della vita», pronto a gittarsi giú, Jacopo ha innanzi un lume che lo lusinga, sempre vicino e sempre lontano. È la vita che non se ne vuole andare, e segue quel lume, che non raggiunge mai: «O Gloria, tu mi corri sempre dinnanzi, e cosí mi lusinghi a un viaggio, a cui le mie piante non reggono piú». Questa lotta tra la vita e la morte è una «consunzione dell’anima», che ti porta irrevocabilmente al suicidio. Jacopo fin dalle prime parole è giá un condannato a morte, ma resistente e che si aggrappa alla vita. Ama Teresa senza speranza, senza serietá di proposito; ama, perché l’amore gli rende cara la vita; accarezza le sue illusioni, perché le sue illusioni lo lusingano, lo incoraggiano a vivere. Appunto per questo senti che non può vivere. Ha la forza di crearsi delle illusioni, ma sa che sono illusioni e gli manca la forza di credere alla loro realtá e di operare per realizzarle. Tolta la fede e la volontá, quel barlume di vita che rimane è una consunzione interna, una vita che esaurisce sé stessa in riflessioni, in sentimenti, in immagini. Jacopo è come una canna in balia de’ flutti. Non ha iniziativa, non ha forza di resistenza; non ha il senso e il gusto della vita reale, e rimane passivo tra la folla de’ suoi fantasmi: ciò che è un lento suicidio. Quando il promesso sposo di Teresa arriva, pare giunto il momento del suicidio. E giá Jacopo si vuol gittare nelle onde del Po. Continua un resto di vita, che si concentra sempre piú nel cervello: fantastica meno e ragiona piú. A Firenze, a Milano, nella «prostituita» Italia trova peggio che a Venezia. Il cuore si agghiaccia, le illusioni se ne vanno; quel lume della sua vita manda «i suoi raggi piú languidi»; e il suicidio è giá avvenuto, quando risolve di uccidersi.

Che ci ha ora a fare il Werther? Questo è tutta la vita di Foscolo dopo la caduta di Venezia, è il riflesso e lo sviluppo di quella tragedia nella sua anima È una storia intima in una esaltazione costante dell’anima fino a spezzarla. Di che potea uscire un racconto di Byron o un canto di Leopardi, non una prosa, e tanto meno un modello di prosa naturale e semplice, come era l’intenzione.

Se Jacopo potea avere una storia, cioè tanta fede e attivitá interiore da poter prendere sul serio la vita e rituffarvisi, sarebbe guarito, sarebbe rinato alla vita. Il suo male è appunto che non può vivere; la sua vita interiore è sviluppatissima, perché non ha piú forza di spandersi al di fuori: perciò è condannato al suicidio. Questa vita ritirata al di dentro non per eccesso e soprabbondanza di forza, ma per impotenza non può produrre che sé stessa, caratteri ideali cosí’ perfetti e soprabbondanti nella loro idea, come incompiuti e manchevoli nella loro esistenza reale, essenze piú che individui. Tale è Teresa e tale è Jacopo; tali Odoardo, o Lauretta, o il padre di Teresa: ombre di uomini e di donne. Tutti i personaggi sono presi della stessa malattia: appariscono sulla scena, come i primi schizzi su di un cartone, disegni appena abbozzati e rimasti in idea. Teresa, in quanto è descritta, aduna in sé tutte le virtú di Beatrice e di Laura, ma, in quanto opera, questo sole di perfezione si abbuja a un tratto, e appena è se vedi qualche povero lampo fra cielo nuvoloso. Questo carattere a lampi lo chiamano muto. E sarebbe, se il lampo lasciasse intravedere ignote profonditá; ma qui intravedi una idealitá mancata, impotente a calare nella vita. Manca a lei la consacrazione della morte, e Gliceria nella sua fuggitiva apparizione è piú poetica che questa Teresa nelle braccia del prosaico Odoardo. Foscolo ha voluto rappresentare uno di quegli ideali, che, come il lume della vita, pare ti si avvicini ed è sempre lontano, quell’ideale pieno e concreto nella giovanezza de’ popoli e degli individui, ma nell’etá tarlata dalla riflessione non altro che illusione, una idea, profanata e contraddetta nella prosa della vita. Questa sua Teresa finita sotto i baci di Odoardo è come la Venezia della sua mente finita in braccio all’Austria, o l’Italia «prostituita, premio sempre della vittoria», nelle braccia del più forte. Anche Teresa è una Laura o Beatrice cavata dal paradiso, e profanata dalla realtá. La creatura di Dante diviene la creatura di Odoardo. Concezione profonda e nuova, che, se l’autore avesse avuto un senso piú sviluppato del reale, potea davvero generare una storia o un romanzo, divenire prosa. Ma, come Venezia e come Italia, cosí Teresa non ha virtú di resistenza e si rassegna gemendo, e innanzi al cadavere di Jacopo cade tramortita tra le braccia di Odoardo. Sono ideali morti, vivi solo nell’anima resistente di Foscolo, perciò còlti non in mezzo a quella loro profanazione, ma nella loro verginitá. Teresa non è qui la sposa di Odoardo, un ideale calato e modificato nelle particolaritá della vita com’è la Carlotta di Goethe: è un ideale gemente, destinato alla profanazione, conscio e rassegnato, a cui neppur le labbra di Jacopo possono comunicare il calore della resistenza. Ci è un fato superiore, quel complesso di convenienza e di usi e di violenze sociali, che dicesi la prosa, che profana Teresa e schiaccia Jacopo. Se Foscolo potesse guardare in questa realtá e rappresentarla, non sarebbe Jacopo, non sarebbe il suicida; ma chiude gli occhi, e ama meglio sognare, starsene con la sua immaginazione e foggiare Laura e Beatrice nella piena coscienza di una prosa invadente, ch’egli non osa guardare né in sé stessa, né nella sua contraddizione con quegl’ideali. Beatrice e Laura sono ideali pieni e concreti, perché chiudono in sé tutto il Medio evo; sono la donna in quel primo stato di formazione come apparisce a popoli giovani. Teresa è lo stesso ideale, spostato, collocato nel mondo moderno, di cui non ha l’intelligenza e il sentimento, perciò impotente ad entrarvi e rimasto ideale da scuola. Il centro di questa vita cosí raggiante nella sua idealitá, cosí povera nella sua realtá, è una reminiscenza di Francesca, galeotto il Petrarca. Come Teresa, cosí Jacopo è colto nella sua idealitá piú esaltata, dirimpetto ad un mondo che la nega. La differenza è questa, che Teresa entra in quel mondo gemente e rassegnata; Jacopo lo respinge da sé, e si chiude nella solitudine del suo pensiero, e in questa consunzione interna trova la morte. L’amata, l’amico, la madre, la bella natura, la patria, la gloria lo tirano talora dalla sua solitudine, lo invitano a vivere; ma non è se non per rigettarlo con piú violenza tra le sue riflessioni e i suoi fantasmi. Una situazione cosí esaltata nel suo lirismo non può troppo protrarsi senza che la diventi monotona e sazievole. Talora anche il lettore lascia il povero Jacopo tutto solo con le sue riflessioni, non può andare innanzi. Quella scala di lamenti, di maledizioni e di riflessioni gli pare non finisca mai, e quasi quasi desidera che poiché ha a morire faccia piú presto. Una situazione cosí tesa fin dal principio potea dar materia ad un canto, come è la Saffo; non se ne potea cavare un romanzo, se non stirandola e riempiendola di accessorii fortuiti, non generati intrinsecamente dal fatto Dove non è generazione, è stagnazione. Nel Werther c’è qualche cosa nell’anima che si move, si forma, si sviluppa, con un progresso fatale: c’è tutta una storia psicologica. Qui Jacopo è dal principio all’ultimo nella situazione esaltatissima del suicida, una specie di delirio con rari intervalli. Sicché sotto le apparenze piú concitate senti la palude, l’acqua morta. E piú si va innanzi, piú questo sentimento si aggrava.

Se da una situazione cosí lirica non potea uscire un romanzo, potea tanto meno uscirne una prosa e quella prosa naturale e semplice che Foscolo vagheggiava. Perché a essere vera prosa semplice e naturale non basta sciogliere i periodi, sopprimere i legami, tagliare le idee medie, cacciar via le parentesi, gittar giú tufo il peran^e bagaglio della prosa letteraria. Questo non che lavoro nega ivo. A quella prosa boccaccevole e pedantesca Foscolo ha sostituita una prosa poetica, che nel suo andamento asmatico e saltellante manca di tono e di gradazione, perché manca di analisi, e riesce povera e monotona fra tanta esagerazione di colorito. Niente è piú lontano dal semplice e dal naturale che questa prosa sintetica e scultoria che è non la vita in atto, ma un formulario della vita e presso che non dissi la sua astrazione rettorica. Perché Foscolo, volendo combattere la rettorica, non può fuggire alle sue strette, rappresentando sentimenti cosí esaltati e cosí protratti. Situazioni cosí ideali, cosí superiori alla vita comune, vogliono il verso per loro espressione. Mettetemi la storia di Lauretta o di Gliceria in verso, con quelle stesse immagini, e ne uscirá una storia eterna, come Ofelia o Nerina. La prosa non può rendere ciò che di aereo e di fuggitivo si stacca da queste fragili creature, se non per virtú di analisi, individuando e realizzando, come è in quella immortale Cecilia del Manzoni. Ma è appunto l’analisi che manca a Foscolo, la pienezza e la varietá della vita reale. Senti una sola corda; manca l’orchestra; manca soprattutto la grazia, la delicatezza, la soavitá, quella certa interna misura e pacatezza, dov’è il segreto della vita. E non mi maraviglio che, comprendendo cosí finamente Omero, lo abbia reso cosí infelicemente.

Questo mondo di Foscolo, cosí com’è, rimane una vuota idealitá, a cui manca il naturale nutrimento della vita reale, e che si nutre di sé fino alla consunzione. Questa vuota idealitá giá la senti in Alfieri, che si edifica essa il suo mondo e se lo figura e atteggia a sua guisa, senza trovarvi riposo o soddisfazione, perché quel mondo è sempre lei, e piú vi si dimena e grida, piú scopre la sua generalitá. Gli è che Alfieri non riassume un mondo, come Omero, o Dante, ma sta all’ingresso di un mondo da venire. La realtá che vagheggia, è ancora vuota idealitá, ma vogliosa, impaziente, credula confidente, che, non potendo ancora avere un corpo, se ne forma uno di sé stessa, e concepisce la vita come un suo vapore. Questo carattere di generalitá vuota era giá la malattia della letteratura italiana, ed esprimeva meglio che ogni altra cosa quell’assoluta separazione della idea dalla vita, che era la fisonomia di una societá arcadica. L’idea ci stava come idea, in piena soddisfazione di sé; era Cesare e Catone nelle ariette di Metastasio, con tante belle massime sulla bocca fragorosa mente applaudite. L’idea di Alfieri si sente manchevole: qui è il progresso. Vuole vivere; vuol essere cosa seria e non da teatro o da accademia, e prende l’aspetto austero e risoluto della serietá. Questa prima vita non è che la sua stessa ombra; è la sposa non vista ancora, ancora in balia della sua immaginazione. Questo che è la tua creatura, tu la chiami realtá. Illusione facile de’ tempi nuovi, quando l’avvenire si affaccia inviluppato da’ vapori della tua immaginazione. Illusione seguita presto dal disinganno, alla prima esperienza. Che avviene allora? In luogo di accusare la tua credulitá, tu accusi la realtá che non ci ha colpa, e la getti da te e ti ritiri in te stesso, inconscio che il tuo male è appunto questo vivere in te e di te, questa tua impotenza ad uscirne. Tu non comprendi che questa tua riflessione in te stesso è appunto la tua morte, il suicidio, e che, se vuoi salvarti, se vuoi vivere, devi dimenticarti in quella realtá che trovi tanto diversa dalla creatura, alla quale avevi dato il suo nome; devi quella studiare, in quella vivere, in quella cercare e trovare te stesso: tu non comprendi che la tua idea solo passando attraverso alle contraddizioni e a’ dolori dell’esistenza può realizzare sé stessa. Tu noi comprendi e noi puoi ancora comprendere perché sei troppo giovane, e sei appena alla prima esperienza. Questo è il primo fenomeno del disinganno. L’idea, urtata dalla realtá, non ha la forza di penetrarvi, e si ritira in sé, maledicendola. Foscolo rappresenta questo primo momento dello spirito. Il mondo di Jacopo è il suo riflesso, la sua creatura; e quando lo trova resistente, e proprio il contrario di sé, si ritira tra’ suoi ideali, inseguito da questa coscienza, che essi non sono che ombre e apparenze del suo spirito, e questa coscienza è il disinganno, questa l’uccide. Il tarlo che lo rode è appunto questo, di esser costretto a chiamare illusioni le piú care sue idee, la patria, la virtú, la gloria, l’amore. «Ma se l’inganno ti nuoce: che monta? se il disinganno mi uccide?». L’inganno lo fa «divino», lo rituffa nelle fresche onde della vita, ma in fondo rimane questo pensiero omicida, che è un inganno. Alfieri è l’illusione. Foscolo è il disinganno. E tutti e due sono la vuota idealitá del loro secolo. L’uno non ne ha coscienza, anzi ha l’orgoglio e la fiducia di chi si sente nella vita; l’altro ne ha una coscienza che l’uccide. L’uno ha tutta l’energia dell’illusione, quella energia che ispira i grandi pensieri e i grandi fatti. L’altro ha tutte le disperazioni del disinganno, quelle disperazioni, da cui escono le nuove illusioni e le nuove speranze. Senti il vuoto in cui si dibattono in quell’ingrandimento posticcio che hanno tutte le cose nella loro immaginazione. Quell’ingrandimento è la realtá ancora in idea, fuori del limite o della misura, non ancora nella mobilitá e varietá del suo divenire, ma fissata e cristallizzata, come è la vita nella sua astrazione, perciò monotona ed esagerata.

Questi fenomeni non sono dunque capricci individuali, sono necessitá psicologiche della storia. Alfieri e Foscolo sono la voce della nuova Italia in quella sua prima apparizione innanzi allo spirito; idea ancora vuota, ma non piú accademica, piena di energia e destinata a vivere. Perciò il libro di Foscolo, meno peifetto artisticamente che il Werther, ha molta piú importanza nella storia dello spirito. È il testamento di quel gran secolo, il suo grido di dolore innazi alla caduta di tutte le sue illusioni.

Il disinganno uccide Jacopo, ma non uccide Foscolo. Se fu sua intenzione di avvezzare con quell’esempio la gioventú al disprezzo della morte, scelse una via cattiva. Per giungere alla morte non era bisogno di far tanta strada, quanta ne fece Jacopo. Il vero è che il suicidio era tradizione classica, virtú romana, divenuta cantabile in Metastasio e rifatta tragica in Alfieri. In Foscolo ha ancora un significato piú moderno. È la tisi dell’anima, propria delle nature energiche, alle quali manchi l’alimento della realtá. È l’idea che attraversa il cervello di un giovane a venti anni, come era Foscolo, nel primo disinganno, e non ancora entrato nella serietá della vita.

L’esercizio della vita scampò Foscolo da quella consunzione. Nel suo sentimentalismo ci era sempre il tribuno che «ululava», lo spirito guerriero che gli ruggfa dentro. Il suo dolore ha la stessa forma; è furore, maledizione, ribellione; è forza pressa in forzato ozio, che vuol traboccare. E non mancò l’occasione. Combattè per l’Italia a Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. Ivi, in quell’ozio di caserma, troviamo giá un altro Foscolo, guarito e ringiovanito. La vita militare gli rinfresca le impressioni, gli rinnova l’aria. Stringe relazioni, loda e gli piace di esser lodato, si mette in comunicazione con illustri uomini, prende gusto a’ piccoli piaceri della vita, ha i suoi amori, i suoi duelli, le sue polemiche, ha insomma una vita comune, epilogata in quel verso:

                         

Amor, dadi, destrier, viaggi e Marte.

               

Nel i802, quando aveva giá ventiquattro anni, escono in luce i suoi sonetti malinconici, e insieme le sue odi A Luigia Pallavicini e All’amica Asinata, che attestano la sua guarigione. A quei sonetti lapidarli, dove la vita è come raccolta e stagnata al di dentro, succede la classica ode ne’ suoi ampi e flessuosi giri, dove l’anima si espande nella varietá della vita. In questo suo classicismo a colori vivi e nuovi senti la freschezza di una vita giovane guarita da quel sentimentalismo snervante, e risorta all’entusiasmo, incalorita dagli occhi negri e dal caro viso e dall’agile corpo e da’ molli contorni della beltá femminile, tra balli e canti e suoni d’arpa. In questo mondo musicale e voluttuoso l’anima si fa liquida, si raddolcisce, e spunta la grazia; le «corde eolie» si maritano all’«itala grave cetra»:

                                    Ebbi in quel mar la culla:
Ivi erra, ignudo spirito,
Di Faon la fanciulla;
E se il notturno zeffiro
Blando su’ flutti spira,
Suonano i liti un lamentar di lira!
     Ond’io pien del nativo
Aer sacro, sull’itala
Grave cetra derivo
Per te le corde eolie,
E avrai, divina, i voti,
Fra gl’inni miei, delle insubri nepoti.
               

La sua fama destava giá invidia; l’Italia era sempre la terra degli eruditi, e gli negavano dottrina pari all’ingegno; poi ci era Monti che l’offuscava col suo nome. Le preoccupazioni di Foscolo divennero principalmente letterarie; attese agli studii, e contesogli di far cose grandi, volle stabilire la sua fama con gli scritti. Al suo volgarizzamento della Chioma di Berenice appose un Comento, sfoggio di erudizione peregrina a confusione dei presuntuosi suoi invidi, ch’egli chiamava pedanti; e poi che Monti traduceva l’Iliade, tentò anche lui una traduzione che chiamò poi Sperimento. Convocati i Comizii a Lione, scrisse per commissione un’orazione che non fu recitata, senz’altro serio scopo che letterario. Vi trovi amare veritá intarsiate abilmente di lodi a Napoleone, con giavitá e altezza d’idee nella loro generalitá coraggiose senza pericolo, e con pompa e artificio di stile che scopre piú il letterate che l’uomo politico.

La societá cominciava dunque a domesticare questo uomo. Se non era «cortigiano in maschera di Catone», secondo la frase dispettosa di Monti, si acconciava alla necessitá della vita e agli usi e alle convenienze, pur borbottando, e con una certa mala grazia, come chi patisce violenza. L’idea della vita, quale natura ed educazione gli avevano formata, rimaneva intatta; voleva in quella sua febbre di gloria passare alla posteritá non solo per i suoi scritti, ma ancora per l’eroica integritá del carattere: sentimento vólto facilmente in ridicolo presso un popolo, nel quale da piú secoli il pensiero era separato dalla vita. E se era costretto a far gl’inchini d’uso e a stringer la mano a persone che in cuor suo pregiava poco, se aveva lasciata la posa tribunizia di Niccolò Ugone, se mostravasi meno intollerante in un mondo, nel quale gli era pur forza di vivere, non per questo faceva getto della sua dignitá personale; e nella sua povertá, fra gli acuti stimoli di una natura dissipata e rigogliosa, avida di piaceri, tirata al magnifico, quando con un po’ di rimessione e di «saper vivere» era cosí facile arricchire, volle rimaner sul suo piedistallo, come un eroe di Plutarco. Questa alterezza morale era rimprovero alla mediocritá, e non glie la sapevano perdonare, e l’imputavano a vanitá, e, non potendo piú chiamarlo Niccolò Ugone, Io chiamavano «ser Niccoletto». Certo, un po’ di ostentazione c’era in quel suo disdegno, un po’ di posa gli era rimasta, mancavagli quella divina semplicitá nella onestá, che rende meno aspro il contrasto con la vita volgare; ma io desidererei a molti questa, chiamisi pur vanitá, che produce nella vita tutti gli effetti della virtú piú rigida. Un mondo piú elevato e nobile viveva certo nell’anima di Foscolo, e, ciò che è molto, non smentito dalla vita. Da questo mondo escono le alte ispirazioni, com’è la bellissima epistola A Vincenzo Monti:

                               Non te desio propiziante all’ara
Della possanza in mio favor, né chiedo
Vino al mio desco, o i tuoi plausi al mio verso,
Ma cor, che il fuggitivo Ugo accompagni
Ove fortuna il mena aspra di guai.
               
Ed è da questo mondo solitario, custodito con tanta cura dentro di sé e diffuso di un’ombra di malinconia, che escono i Sepolcri.

In questo carme Foscolo sviluppa tutte le sue forze, e in quel grado di veritá e di misura che è proprio di un ingegno giá maturo. Quel suo sentimentalismo petrarchesco della prima giovinezza, quel suo fosco lezioso e caricato alla maniera di Rousseau o di Young, è appena un velo di mestizia sparso sopra il pensiero, che gli dá un raccoglimento e una solennitá quasi religiosa. Ti par di essere in un tempio, e che la tua anima si apra ai sentimenti piú elevati. Quella energia tribunizia, un po’ declamatoria, che senti nelle imprecazioni di Jacopo, qui acquista il tono pacato e di una forza sicura e misurata Quel suo filosofismo, malattia del secolo, e che è anche malattia di Jacopo, il quale prima di uccidersi ti dá una filosofia del suicidio, qui è altezza di meditazione profondata nelle piú intime regioni della moralitá umana. Quel suo classicismo di obbligo, una specie di abbellimento convenzionale, entro il quale la vita perde la puritá dei suoi lineamenti, qui lascia la sua faccia mitologica e diviene umano. Ilio e la Troade ci è cosí vicino, come Firenze e Santa Croce. Quella sua vasta erudizione, quel mondo del pensiere umano sigillato nella sua memoria, quei riti religiosi, quei costumi di popoli, quelle sentenze di oratori e di filosofi, quei frammenti poetici, qui gli ritornano avvivati nel foco della sua immaginazione, attratti nell’armonia del suo mondo, e gli galleggiano innanzi come natura vivente; fantasmi di tutte l’etá e di tutte le genti, penetrati e fusi da un solo spirito e divenuti contemporanei. Quella sua abilitá tecnica, che nelle Odi mostra ancora le sue punte e le sue reminiscenze, qui è l’eco immediata e armonica di un mondo superiore e in lontananza, di cui, non sai come, ti giungono i riflessi, le ombre e i susurri. Tutte queste forze sparpagliate, esitanti, che non avevano ancora trovato un centro, sono raccolte e riconciliate in questo mondo pieno e concreto, dove ciascuna trova nelle altre il suo limite o la sua misura. L’Italia non avea ancora visto niente di simile. La lirica, quale te la dava Monti o Cesarotti, era «cadenza melodrammatica», un prolungamento di Metastasio. Sotto forme dantesche il fondo rimaneva sempre arcadico, puramente letterario. La coscienza era estranea a quel lavoro dell’immaginazione: malattia dello spirito italiano da gran tempo. Quella vuota forma, dopo di aver per piú secoli esaurita sé stessa, finiva cantabile e musicabile, mera sonoritá. Quando la forma non era vuota, era falsa e ipocrita, esprimendo sentimenti non partecipati dall’anima, amori senza amore, e un patriottismo senza patria, una religione senza fede, e uno sfoggio di sentenze nobili e morali senza moralitá. Il mondo poetico era tutto superficie, un mondo esterno formato dall’immaginazione, senza alcuna eco di dentro: indi quel suo carattere convenzionale e rettorico. Bisognava rifare un mondo interiore, ricostituire la coscienza. Questo lavoro iniziato nelle lettere da Parini e Alfieri era continuato in Foscolo, non senza un po’ di orpello e di rettorica perché, anch’essi, si dimenavano nel vuoto; quel loro mondo, patria, libertá, scienza, virtú, gloria era ancora in idea, semplice aspirazione Ne’ Sepolcri apparisce per la prima volta nel suo carattere d’intimitá, come un prodotto della coscienza e del sentmento Questa prima voce della nuova lirica ha non so che di sacro, come un Inno: perché infine ricostituire la coscienza è ricostituire nell’anima una religione. La pietá verso i defunti, il culto delle tombe è prodotto da’ motivi piú elevati della natura umana, la patria, la famiglia, la gloria, l’infinito, l’immortalitá: tutto è collegato, tutto è una corda sola nel santuario della coscienza. Una poesia tale annunziava la risurrezione di un mondo interiore in un popolo oscillante tra l’ipocrisia e la negazione. Non è giá che Foscolo smentisca sé stesso. C’è sempre in lui del vecchio Jacopo. La sua filosofia è in aperta contraddizione col suo cuore. Jacopo diceva: — A che serve la scienza? a che serve la vita? — . Foscolo dice: — A che servono i sepolcri? «è forse men duro il sonno della morte all’ombra de’ cipressi e dentro le urne confortate di pianto?» — . Come la scienza e come la vita, cosí la pietá dei defunti non è che una illusione. Ma in Jacopo si sente l’amarezza del disinganno che gli fa rifiutare ogni consolazione e cacciar da sé tutte le sue illusioni. Foscolo si è riconciliato con la vita, e di quel sentimento amaro non gli rimane che un: pur troppo! «Vero è ben, Pindemonte!» E non respinge le sue illusioni, ma le cerca, le nutre, le difende in nome della natura umana contro la dura veritá. La nuova legge che contende il nome a’ morti e vuole in una fossa comune Parini e il ladro, offende in lui l’«homo sum», il suo sentimento di uomo. Sia pure un’illusione; anzi purtroppo è una illusione; ma, come Diogene, ha l’aria di dire a quei nuova legislatori: — «Lasciatemi libere le mie illusioni!»— . Il culto delle tombe era fondato sulla credenza dell’immortalitá dello spirito, della risurrezione dell’uomo in un altro mondo: ivi attinge Young le sue ispirazioni. Pur troppo questo non è: mancata è questa illusione. Ma potete voi distruggermi la natura umana? E nella natura umana cerca Foscolo la nuova poesia delle tombe. Il nulla eterne, quel pensiero che rode Jacopo e lo affretta alla morte, qui si riempie di calore e di luce; le urne gemono, le ossa fremono, i morti risorgono nell’affetto e nell’immaginazione dei vivi. — E tu perché lasci sulla terra una famiglia, una patria, la tua memoria, scendi consolato nella tomba, sicuro di sopravvivere. Quella tomba sei tu: e lá, cenere muto, vivi ancora, operi, hai un’azione sull’umanitá. Lá, tu parli ancora a’ tuoi, tu raccomandi a’ concittadini la santitá della vita, tu ispiri i fatti magnanimi; lá vengono a interrogarti i secoli, a evocarti i poeti e gli eroi; e tu produci ancora, tu generi di te i grandi uomini. — Su questa base generale della natura umana sorge la fraternitá de’ secoli e delle nazioni, e i fantasmi d’Ilio e di Maratona si confondono con le ombre di Galileo e di Alfieri: mitologia, antichitá, tempi moderni sono inviluppati in una stessa atmosfera, parlano la lingua universale delle tombe, e la pietá delle prime «umane belve» e la «pietosa insania» delle vergini britanne ti par contemporanea. Mondo delle ombre c delle illusioni, da cui esce rifatto il mondo interiore della coscienza, esce l’uomo restituito nella sua fede, ne’ suoi affetti e ne’ suoi sentimenti; perché solo chi ha viscere umane, chi ha coscienza d’uomo, può trovare ne’ sepolcri quelle ombre e quelle illusioni. I monumenti marmorei sono inutile pompa a quelli che non hanno vita interiore, e che ancor vivi sono giá uomini morti e seppelliti.

Tale è questo mondo di Foscolo, il risorgimento delle illusioni, accanto al risorgimento della coscienza umana. L’immaginazione non ci sta per sé, e non lavora dal di fuori, come è in Vincenzo Monti; ma è il prodotto della coscienza, è fatta attiva da’ sentimenti piú delicati e piú virili della vita pubblica e privata. O piuttosto non è semplice immaginazione, è fantasia, che è nell’arte quello che nella vita è la coscienza, il centro universale e armonico dello spirito. Quei fantasmi che escono dalle tombe non sono i’ prodotto ozioso dell’immaginazione; sono le creature di tutta l’anima nella serietá delle sue credenze e dei suoi affetti, perciò forme, che hanno in sé le orme della loro origine, e, come direbbe Platone, ricordevoli, penetrate e improntate di quei pensieri e di quei sentimenti che le hanno create; anzi è qui, in questi pensieri e in questi sentimenti, che hanno la loro poesia. Il silenzio di mille secoli sarebbe stupido, se non avesse a fronte l’armonia delle Muse, animatrici del pensiero umano. E che sono quelle urne, se non vi aggiungi: «confortate di pianto»? Cassandra che guida nepoti alle tombe e intuona il carme funebre, mostrando in lontananza la risurrezione di Troja nei versi di Omero, è una concezione tra le piú originali, in quel suo carattere sacro di una pietá contenuta, che ti commove piú. La figliuola di Priamo, alzandosi nella contemplazione dei tempi lontani, acquista la imparzialitá di una voce della storia, quasi anima profetica dell’umanitá; ne nasce un sublime umanizzato. Le rimembranze della scuola, mera esterioritá, qui ritrovano la lor anima, sono ricreate in un mondo interiore, che riceve da quella lontananza di secoli un carattere di solennitá, come innanzi all’eterno. Le illusioni sono cosí vivaci, che le forme talora ti balzano innanzi per sola virtú dell’armonia; come sono i fantasmi di Maratona, appena abbozzati, che ti si compiono nell’orecchio. Centro di questo mondo funerario che si stende pe’ secoli è il Tempio di Santa Croce. Ti sfilano innanzi quei morti illustri, ciascuno con la sua scritta in fronte, quasi il poeta volesse cogliere quelle ombre a volo e fissarle con un tratto di pennello. L’immaginazione educata al culto di quei grandi gli fa trovare forme originali, che li ricrea quasi, ti dá di loro una nuova e piú profonda coscienza. La magnifica apoteosi, a cui serve di fondo il paesaggio di Firenze, non è tanto turbata dal dolore della bassezza presente, che taccia dissonanza o contrasto; il dolore è puro di amarezza, temperato da una certa rassegnazione alle alterne veci della storia, e l’animo rimane alzato, e guarda in lontananza nuove prospettive. Questa elevazione dell’animo in quella pace religiosa tiene in continuo sforzo la fantasia, la quale come popola gli avelli di fantasmi, cosí riempie le parole d’immagini, e li forma un mondo di una grandezza sepolcrale davvero, che esce piú dall’oscuro che dal chiaro, piú dall’ombra che dalla luce. In questo cumulo di ombre ti senti in presenza dell’infinito. Il Tempo che «traveste» le reliquie della terra e del cielo, una Forza che operosa affatica le cose di «moto in moto», il Tempo che con sue fredde ale spazza le rovine e gli avanzi che Natura «a sensi altri destina», queste e simili immagini gotiche ti iendono il vuoto, il silenzio, le tenebre di questo mondo della morte, non toccato ancora dall’uomo vivente. Ti senti come di notte e innanzi a un cimitero, con l’immaginazione percossa, e le proporzioni ti si confondono, e ti giunge non so quale senso di oscuro infinito tra il lugubre e il grottesco. Ma in questo mondo naturale penetra l’uomo e vi porta la luce e la misura, delicatezza, soavitá, grazia, tenerezza, vi porta la sua umanitá. Questo limite tra quelle tenebre, questa grazia tutta greca tra quel grottesco e quel gotico, questa fusione di pensieri, di sentimenti e di colori cosí diversi danno un carattere di originalitá a questo mondo, sono la sua personalitá. Cosi le cagne fameliche e la «immonda upupa» e il «mozzo capo» del ladro e il muggito de’ buoi sono un lugubre grottesco, mescolato con le immagini piú gentili del sentimento umano raccolte intorno alle profanate ossa di Parini. Il lugubre, il grottesco, il gotico, il tenebroso, l’indefinito, che piú tardi sotto nome di romanticismo invase l’arte, cominciava a venire a galla, e fu gran parte nel successo di questa poesia. Ma qui apparisce, come un mondo naturale, ancora biblico e primitivo, quasi uno strato inferiore di formazione, in riscontro di un mondo umano e civile, che se lo sottopone e se lo assimila. L’uomo penetra in quel mondo naturale col suo cuore e con la sua immaginazione, con tutte le sue illusioni, e lo illumina e lo infiora.

                               Rapian gli amici una favilla al sole
A illuminar la sotterranea notte.
Perché gli occhi dell’uom cercan morendo
Il sole, e tutti l’ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte, e a raccontar sue pene
A’ cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
               

Quella favilla rubata al sole, l’uomo che cerca morendo la luce, le acque che educano viole sulla «funebre zolla», i viventi che raccontano le loro pene a’ loro estinti, e insieme con questo il lezzo de’ cadaveri avvolto agl’incensi, e le cittá meste di effigiati scheletri, e le anime del purgatorio che chiedono gemendo il loro riscatto agli eredi, ti dá un chiaroscuro di un effetto irresistibile, che non solo c l’impronta naturale di questo mondo della morte popolato dalle illusioni de’ viventi ma è lo stesso genio di Foscolo, mescolanza di sentimentale e di energico, giunta ora ad una perfetta fusione, e divenuta l’unitá e la sostanza del suo mondo.

L’oscillazione che produsse questa creazione nel cervello di Foscolo fu cosí potente, che per lungo tempo gli tenne agitate le fibre, quasi armonia giá muta che si continua ancora nel tuo orecchio. E altri sepolcri vi fermentavano sotto altri nomi, e uscivano fuori a frammenti, come i versi della Sibilla, senza che gli fosse possibile venire ad una compiuta formazione. Rimasero progetti, come l’Alceo, l’Oceano, la Sventura. Di quei frammenti insieme connessi e aggiustati uscirono ultimamente le Grazie. Il concetto è quel medesimo che ne’ Sepolcri. È il mondo umano e civile che succede all’etá ferina. Ma nel cammino il concetto si è aggrandito, o ha preso l’aspetto di un poema. Non è il suono della coscienza umana innanzi alla tomba, che è una vera situazione lirica, cioè a dire l’anima in una condizione determinata, che le mette in moto il suo mondo interiore, ma è la storia e la metafisica di questo mondo interiore, una storia dell’arte ne’ suoi inizii, nel presente e nell’avvenire. Non è dunque piú una poesia, ma una lezione con accessorii poetici. Né è maraviglia che di questo Carme rimangano vivi alcuni accessorii interessanti, senza che tu abbia una idea ben chiara del dove o come sieno appiccati aa una totalitá artificiale e laboriosa. Peggio è che, per rendere poetica la sua storia, Foscolo l’ha fatta sotterranea, soprapponendovi una storia delle Grazie, come un involucro di quella, involucro denso e intricato, e che se talora ha qualche interesse, è meno per quello che significa, che per quello che esprime. Il mele è dolce a mangiare; ma quel mele di Vesta, gustato dall’Ariosto, quei favi che gli fura il Berni, e che sfuggono in parte al Tasso, sono un cibo insipido. li velo delle Grazie varrá bene il cinto di Venere; ma, se mi vuoi sferzare a guardarci sotto una storia, io l’odio e non lo guardo piú. Se è lecito comparale le piccole con le cose grandi, tra’ Sepolcri e le Grazie corre quella. dazione, che tra la Margherita e l’Elena, tra la prima e la seconda parte del Faust: con questa differenza, che nella seconda parte sono pure amabili finzioni, sotto alle quali si nascondono concetti degnissimi di essere scoperti e meditati, dove otto a questi veli, a queste are e a questi favi non si nasconde che una storia volgare. L’astrazione che è nel concetto si comunica anche alla forma, raggomitolata, incastonata, lucida e fredda come pietra preziosa.

Concepisco Goethe, che comincia col Werther e giunge al Torquato Tasso. £ la calma superiore dell’artista, che dopo i giovanili tumulti dell’anima conquista nella realtá il suo equilibrio e la sua armonia. Anche nelle Grazie posa quello spirito guerriero, che ruggia nello antico Jacopo, e di cui senti le agitazioni in certe scene dell'Ajace e della Ricciarda. Nelle Grazie il concetto della vita è altro. È il vecchio concetto di Aristotele, la purgazione delle passioni, la tranquillitá dell’anima risanata dalle passioni, ciò che Foscolo chiama il sistema epicureo. E se questo concetto fosse nel suo cuore e nella sua vita, com’è nella mente, avremmo il nuovo poeta. Ma è un concetto, non è un sentimento, e non risponde alla sua vita turbolenta, scissa, con tante velleitá, fra tante contraddizioni. Quando io leggo quel suo paradiso delle Grazie, alte sugli uomini e sulle loro passioni, e leggo le sue lettere cosí appassionate, e lo accompagno nelle sue lotte contro pedanti e cortigiani e ne’ suoi disinganni politici e ne’ suoi amori e nelle sue strettezze e ne’ suoi furori apocalittici, e nelle amarezze dell’esilio, e nelle sue maledizioni agli avversari! che lo calunniavano e alla patria che l’obbliava; dico: — Povero Foscolo! tu dovevi portarti appresso fino all’ultimo di le tue illusioni e le tue passioni, e le Grazie non ti risero, e quella tranquillitá, che era il tuo paradiso, non la trovasti nell’arte, perché ti fu negata nella vita — Il nuovo concetto rimase in lui ozioso: rimase aristotelico o epicureo: non divenne Foscolo. E vien fuori con tutto l’apparato dell’erudizione, in una forma finita dell’ultima perfezione: ci si vede l’artista consumato; appena ci è piú il poeta.

Le Grazie segnano giá il passaggio alla critica. Non ci è piú l’ideale: ci è una metafisica dell’ideale. Foscolo aveva familiari i critici francesi; aveva studiato Winckelmann, Vico, Bianchini; era eruditissimo, ed era acuto nella sua erudizione. Nominato professore a Pavia, si mostra cosí nuovo nelle sue opinioni letterarie, come nelle sue poesie. Nella sua Prolusione tenta una storia della parola sulle orme di Vico, censurata da parecchi in questo o quel particolare, ma da’ piú ammirata, come nuova e profonda speculazione. Il suo valore, anzi che nelle sue idee, è nel suo spirito, perché non è infine che una calda requisitoria contro quella letteratura arcadica e accademica, combattuta da tutte le parti e resistente ancora, contro quella prosa vuota e parolaja, e contro quella poesia che suona e che non crea. E non solo egli cerca nella letteratura cose e non parole, in ciò preceduto dal suo maestro Cesarotti, ma vi cerca la serietá di un mondo morale, la sua concordia con la vita. Qui toccava il male nella sua radice. Mancava alla letteratura italiana la coscienza, e perciò mancava a’ letterati la dignitá, e continuavano l’oscena tradizione de’ loro ignobili antecessori, poeti, istoriografi e giornalisti di corte. Questo mercato dell’ingegno, che fa simile lo scrittore a pubblica meretrice, anzi a peggio che meretrice, la quale, se vende il corpo, serba libera l’anima, accendea la bile in Foscolo, e lo tenea in guerra con tutto quel volgo dotto in livrea. Or questa maniera accademica di considerare i piú precisi doveri della vita, questa vigliacca distinzione tra la teoria e la pratica, questo mondo della coscienza predicato in prosa e in verso con tanta enfasi e con fama pompa, e negato con tanta sfacciataggine nella vita, era il tarlo non solo della letteratura, ma della societá italiana, e non ci era e non ci è speranza di vero risorgimento nazionale, finché il sentimento del dovere e la serietá della coscienza non sia una virtú volgale, penetrata nella vita. Era la prima volta che si udiva dalla cattedra un concetto cosí elevato della letteratura, e da uomo che predicava con l’esempio. La stessa tendenza è manifesta negli scritti critici, coi quali, esule, illustrò la patria. La critica era tutta intorno alle forme e al meccanismo: tal letteratura, tal critica. Gravina, Cesarotti, Beccaria miravano ad una critica piú alta, la quale non era in sostanza che un meccanismo ragionato o filosofico. Nessuno sospettò che la vita, come nella natura, cosí nell’arte viene dal di dentro, e che ove non è mondo interiore, non è mondo esterno che viva, ancorché correttissimo e splendidissimo nel suo meccanismo. Foscolo è il primo tra’ critici italiani che considera un lavoro d’arte come un fenomeno psicologico, e ne cerca i motivi nell’anima dello scrittore e nell’ambiente del secolo in cui nacque. Quando Cesar’raccoglieva «le bellezze di Dante» e Giordani rettoricava sulla Psiche, Foscolo avea giá scritto il suo Discorso sul testo della Commedia di Dante e i suoi Saggi sul Petrarca. Critica psicologica, la cui importanza se pare oggi non molta per la superficialitá del contenuto, rimane pure grandissima per la sua tendenza, guardandovi quasi piú l’uomo che lo scrittore, piú le cose che le forme, e piú la vita interiore che l’esterno meccanismo. In questa reintegrazione della coscienza o di un mondo interiore accordavasi il poeta, il professore e il critico. Nessuno gli duo contrastare questa gloria. È il centro, ove convergono tutte le sue facoltá e gli dá una fisonomia.

Foscolo mori al i827. Il secolo decimonono lo investe nella sua ultima etá e gitta il disordine nella sua coscienza. Il suo scetticismo vacilla tra quell’onda religiosa che si solleva sulle rovine della Dea Ragione. La repubblica non gli apparisce piú come una forma sostanziale della libertá, e vagheggia una monarchia costituzionale. La fede nel suo classicismo si oscura in quell’atmosfera romantica di cui si avvolge la reazione. Discepolo di Locke, è incalzato nel suo materialismo da quella corrente di misticismo che sotto nome di restaurazione filosofica invade l’Europa. Pajon fuori i suoi dubbii, le sue oscillazioni. Mobile, vivace, appassionato, facile alle illusioni, sincero amico di Pellico, ammiratore di Manzoni, avrebbe forse avuto la forza di ricreare in sé l’uomo nuovo, se la sua educazione fosse stata piú moderna e meno classica. Ma lo spirito moderno era appena una vernice appiccicata sopra il vecchio classicismo. Commosso alquanto in quel rinnovamento letterario, impressionato da un indirizzo nuovo nelle idee e ne’ sentimenti e nelle forme, di cui non aveva una chiara coscienza, fini chiudendosi nella sua toga come Cesare, e mori sul suo scudo, uomo del secolo decimottavo.

Ma il secolo nuovo, svanite le prime illusioni e passata la luna di mèle, sotto la pressura di una reazione oramai sicura di sé e fatta cinica, che rinnegava tutto ciò che aveva adorato il passato secolo, patria, libertá, umanitá, in quel mondo dell’arbitrio e della forza senza ilcuna speranza di contrasto, senti rinascere in sé gli spiriti alteri di Alfieri e di Foscolo. I figli ritrovavano i sentimenti de’ padri, giunti a loro fra l’aureola del martirio, purificati e ingranditi dalla morte. Napoleone stesso parve un martire, e divenne sul suo sasso di sant’Elena istrumento di libertá. I disinganni de’ padri si mescolano con le nuove illusioni de’ figli e con i nuovi disinganni. Allora fu compreso Foscolo, e Jacopo Ortis divenne il libro della nuova generazione. La letteratura prese un’aria sentimentale sotto il peso di una vita vacua, senza scopo; le illusioni non si presentarono se non per preparare con piú effetto il disinganno, ed il giovane si avvezzò a piangere sulla sua perduta giovinezza. La contraddizione tra un mondo interiore fortificato dalla sventura e quella ferrea etá a cui non si vedeva rimedio, piú lamentata che scrutata da Jacopo, generava tutta una nuova letteratura. Byron e Leopardi discendevano da Foscolo. Nessuna immagine rispondeva meglio al carattere della gioventú italiana posta in quelle condizioni. Mobile d’immaginazione, tra entusiasmi e accasciamenti, tra illusioni e disinganni, espansiva e subitanea nelle sue impressioni, tormentata da ideali tanto piú elevati, quanto era minore la speranza di raggiungerli, si trovava come anticipata e presentita in quel mondo contraddittorio, mosso piú dalle impressioni e dalle passioni, che da una tranquilla intelligenza della vita e da logica serietá. Il pallore divenne interessante; la tisi fu una poesia; ciascuno si sentia consumare del mal di Jacopo. In quella reazione cosí generale, mancata ogni libertá di pensiero e di parola, lo spirito ripiegato e chiuso in sé fu costretto a vivere nel vuoto, abbracciato col suo ideale. Ci sentivamo morire di desiderii rientrati, che quasi per dispetto ingrandivano e si allontanavano ancora piú dal reale, e le illusioni menavano a’ disinganni, e da’ disinganni pullulavano le illusioni. In quella vuota idealitá, cosí energica e cosí impotente, incontrammo Foscolo, e fu il nostro uomo, e il suo libro fu il nostro libro. Come Venezia cadde, cosí cadde Italia, cosí cadde il secolo decimottavo. Quel libro ci s’ingradiva, era la nostra voce, vi aggiungevamo i nostri disinganni e le nostre impressioni. Foscolo fu come il nostro compagno di scuola, infelice al pari di noi, e che traduceva cosí bene i suoi e i nostri segreti: con tanto ingegno lo sentivamo cosí vicino a noi, cosí partecipe delle nostre debolezze e de’ nostri difetti. Noi ci contemplavamo in Foscolo, e gli ergemmo una statua nella nostra coscienza. Quella nuova generazione, cosí malata di desiderio, di misticismo, d’idealismo, siamo noi stessi, fatti ora uomini, che non malediciamo piú a quella realtá, la quale siamo giunti a conquistare e a possedere. Volgendo lo sguardo indietro sulla nostra tribolata giovanezza, vi troviamo il compagno delle nostre illusioni e delle nostre pene, e lo invitiamo a tornare anche lui nella sua patria di elezione, che nelle ultime ore della vita ha tanto maledetta, perché l’ha tanto amata. Possano i nostri figli contemplare in questa nuova statua che innalziamo un’ultima voce del passato, l’ultimo cavaliere errante de’ tempi moderni, e cercare la salute nella intelligenza della vita, nello studio del reale, attingendo nella scienza quel senso della misura, che è il vero fecondatore dell’idea, il grande produttore!

[Nella «Nuova Antologia», giugno i87i.]

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