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Il martirio di Gialluca
La fattura La Guerra del ponte

IL MARTIRIO DI GIALLUCA.



Il trabaccolo Trinità, carico di fromento, salpò alla volta della Dalmazia, verso sera. Navigò lungo il fiume tranquillo, fra le paranze di Ortona ancorate in fila, mentre su la riva si accendevano fuochi e i marinai reduci cantavano. Passando quindi pianamente la foce angusta, uscì nel mare.

Il tempo era benigno. Nel cielo di ottobre, quasi a fior delle acque, la luna piena pendeva come una dolce lampada rosea. Le montagne e le colline, dietro, avevano forma di donne adagiate. In alto, passavano le oche selvatiche, senza gridare, e si dileguavano.

I sei uomini e il mozzo prima manovrarono d’accordo per prendere il vento. Poi come le vele si gonfiarono nell’aria tutte colorate in rosso e segnate di figure rudi, i sei uomini si misero a sedere e cominciarono a fumare tranquillamente. Il mozzo prese a cantarellare una canzone della patria, a cavalcioni su la prua.

Disse Talamonte maggiore, gittando un lungo sprazzo di saliva su l’acqua e rimettendosi in bocca la pipa gloriosa:

‟Lu tembe n’ n ze mandéne.”

Alla profezia, tutti guardarono verso il largo; e non parlarono, Erano marinai forti e indurati alle vicende del mare. Avevano altre volte navigato alle isole dalmate, a Zara, a Trieste, a Spálatro; e sapevano la via. Alcuni anche rammentavano con dolcezza il vino di Dignano, che ha il profumo delle rose, e i frutti delle isole.

Comandava il trabaccolo Ferrante La Selvi. I due fratelli Talamonte, Cirù, Massacese e Gialluca formavano l’equipaggio, tutti nativi di Pescara. Nazareno era il mozzo.

Essendo il plenilunio, indugiarono su ’l ponte. Il mare era sparso di paranze che pescavano. Ogni tanto una coppia di paranze passava a canto al trabaccolo; e i marinai si scambiavano voci, familiarmente. La pesca pareva fortunata. Quando le barche si allontanarono e le acque ridivennero deserte, Ferrante e i Talamonte discesero sotto coperta per riposare. Massacese e Gialluca, poi ch’ebbero finito di fumare, seguirono l’esempio. Cirù rimase di guardia.

Prima di scendere, Gialluca, mostrando al compagno una parte del collo, disse:

‟Guarda che tenghe a qua.”

Massacese guardò e disse:

‟’Na cosa da niente. N’ n ce penzà.”

C’era un rossore simile a quello che produce la puntura di un insetto, e in mezzo al rossore un piccolo nodo.

Gialluca soggiunse:

‟Me dole.”

Nella notte si mutò il vento; e il mare cominciò ad ingrossare. Il trabaccolo si mise a ballare sopra le onde, trascinato a levante, perdendo cammino. Gialluca, nella manovra, gittava ogni tanto un piccolo grido, perchè ad ogni movimento brusco del capo sentiva dolore.

Ferrante La Selvi gli domandò:

‟Che tieni?”

Gialluca, alla luce dell’alba, mostrò il suo male. Su la cute il rossore era cresciuto, ed un piccolo tumore aguzzo appariva nel mezzo.

Ferrante, dopo avere osservato, disse anche lui:

‟’Na cosa da niente. N’ n ce penzà.”

Gialluca prese un fazzoletto e si fasciò il collo. Poi si mise a fumare.

Il trabaccolo, scosso dai cavalloni e trascinato dal vento contrario, fuggiva ancora verso levante. Il romore del mare copriva le voci. Qualche ondata si spezzava sul ponte, ad intervalli, con un suono sordo.

Verso sera la burrasca si placò; e la luna emerse come una cupola di fuoco. Ma poichè il vento cadde, il trabaccolo rimase quasi fermo nella bonaccia; le vele si afflosciarono. Di tanto in tanto sopravveniva un soffio passeggiero.

Gialluca si lamentava del dolore. Nell’ozio, i compagni cominciarono ad occuparsi del suo male. Ciascuno suggeriva un rimedio differente. Cirù, ch’era il più anziano, si fece innanzi e suggerì un empiastro di mele e di farina. Egli aveva qualche vaga cognizione medica, perchè la moglie sua in terra esercitava la medicina insieme con l’arte magica e guariva i mali con i farmachi e con le cabale. Ma la farina e le mele mancavano. La galletta non poteva essere efficace.

Allora Cirù prese una cipolla e un pugno di grano; pestò il grano, tagliuzzò la cipolla, e compose l’empiastro. Al contatto di quella materia, Gialluca sentì crescere il dolore. Dopo un’ora si strappò dal collo la fasciatura e gittò ogni cosa in mare, invaso da un’impazienza irosa. Per vincere il fastidio, si mise al timone e resse la sbarra lungo tempo. S’era levato il vento, e le vele palpitavano gioiosamente. Nella chiara notte un’isoletta, che doveva essere Pelagosa, apparve in lontananza come una nuvola posata su l’acqua.

Alla mattina Cirù, che omai aveva impreso a curare il male, volle osservare il tumore. La gonfiezza erasi dilatata occupando gran parte del collo ed aveva assunta una nuova forma ed un colore più cupo che su l’apice diveniva violetto.

‟E che è quesse?” egli esclamò, perplesso, con un suono di voce che fece trasalire l’infermo. E chiamò Ferrante, i due Talamonte, li altri.

Le opinioni furono varie. Ferrante imaginò un male terribile da cui Gialluca poteva rimanere soffocato. Gialluca, con li occhi aperti straordinariamente, un po’ pallido, ascoltava i prognostici. Come il cielo era coperto di vapori e il mare appariva cupo e stormi di gabbiani si precipitavano verso la costa gridando, una specie di terrore scese nell’animo di lui.

Alla fine Talamonte minore sentenziò:

‟È ’na fava maligna.”

Li altri assentirono:

‟Eh, po ésse’.”

Infatti, il giorno dopo, la cuticola del tumore fu sollevata da un siero sanguigno e si lacerò. E tutta la parte prese l’apparenza di un nido di vespe, d’onde sgorgavano materie purulente in abbondanza. L’infiammazione e la suppurazione si approfondivano e si estendevano rapidamente.

Gialluca, atterrito, invocò san Rocco che guarisce le piaghe. Promise dieci libbre di cera, venti libbre. Egli s’inginocchiava in mezzo al ponte, tendeva le braccia verso il cielo, faceva i voti con un gesto solenne, nominava il padre, la madre, la moglie, i figliuoli. D’in torno, i compagni si facevano il segno della croce, gravemente, ad ogni invocazione.

Ferrante La Selvi, che sentì giungere un gran colpo di vento, gridò con la voce rauca un comando, in mezzo al romorío del mare. Il trabaccolo si piegò tutto sopra un fianco. Massacese, i Talamonte, Cirù si gittarono alla manovra. Nazareno strisciò lungo un albero. Le vele in un momento furono ammainate: rimasero i due fiocchi. E il trabaccolo, barcollando da banda a banda, si mise a correre a precipizio su la cima dei flutti.

‟Sante Rocche! Sante Rocche!” gridava con più fervore Gialluca, eccitato anche dal tumulto circostante, curvo su le ginocchia e su le mani per resistere al rullío.

Di tratto in tratto un’ondata più forte si rovesciava su la prua: l’acqua salsa invadeva il ponte da un capo all’altro.

‟Va a basse!” gridò Ferrante a Gialluca.

Gialluca discese nella stiva. Egli sentiva un calore molesto e un’aridezza per tutta la pelle; e la paura del male gli chiudeva lo stomaco. Là sotto, nella luce fievole, le forme delle cose assumevano apparenze singolari. Si udivano i colpi profondi del flutto contro i fianchi del naviglio e li scricchiolii di tutta quanta la compagine.

Dopo mezz’ora, Gialluca riapparve su ’l ponte, smorto come se uscisse da un sepolcro. Egli amava meglio stare all’aperto, esporsi all’ondata, vedere li uomini, respirare il vento.

Ferrante, sorpreso da quel pallore, gli domandò:

‟E mo’ che tieni?”

Li altri marinai, dai loro posti, si misero a discutere i rimedi; ad alta voce, quasi gridando, per superare il fragore della burrasca. Si animavano. Ciascuno aveva un metodo suo. Ragionavano con sicurezza di dottori. Dimenticavano il pericolo, nella disputa. Massacese aveva visto, due anni avanti, un vero medico operare su ’l fianco di Giovanni Margadonna, in un caso simile. Il medico tagliò, poi strofinò con pezzi di legno intinti in un liquido fumante, bruciò così la piaga. Levò con una specie di cucchiaio la carne arsa che somigliava fondiglio di caffè. E Margadonna fu salvo.

Massacese ripeteva, quasi esaltato, come un cerusico feroce:

‟S’ha da tajià! S’ha da tajià!”

E faceva l’atto del taglio, con la mano, verso l’infermo.

Cirù fu del parere di Massacese. I due Talamonte anche convennero. Ferrante La Selvi scoteva il capo.

Allora Cirù fece a Gialluca la proposta. Gialluca si rifiutò.

Cirù, in un impeto brutale ch’egli non potè trattenere, gridò:

‟Muòrete!”

Gialluca divenne più pallido e guardò il compagno con due larghi occhi pieni di terrore.

Cadeva la notte. Il mare nell’ombra pareva che urlasse più forte. Le onde luccicavano, passando nella luce gittata dal fanale di prua. La terra era lontana. I marinai stavano afferrati a una corda per resistere contro i marosi. Ferrante governando il timone, lanciando di tratto in tratto una voce nella tempesta:

‟Va a basse, Giallù!”

Gialluca, per una strana ripugnanza a trovarsi solo, non voleva discendere, quantunque il male lo travagliasse. Anch’egli si teneva alla corda, stringendo i denti nel dolore. Quando veniva una ondata, i marinai abbassavano la testa e mettevano un grido concorde, simile a quello con cui sogliono accompagnare un comune sforzo nella fatica.

Uscì la luna da una nuvola, diminuendo l’orrore. Ma il mare si mantenne grosso tutta la notte.

La mattina Gialluca, smarrito, disse ai compagni:

‟Tajiáte.”

I compagni prima s’accordarono, gravemente; tennero una specie di consulto decisivo. Poi osservarono il tumore ch’era eguale al pugno di un uomo. Tutte le aperture, che dianzi gli davano l’apparenza di un nido di vespe o di un crivello, ora ne formavano una sola.

Disse Massacese:

‟Curagge! Avande!”

Egli doveva essere il cerusico. Provò su l’unghia la tempra delle lame. Scelse infine il coltello di Talamonte maggiore, ch’era affilato di fresco. Ripetè:

‟Curagge! Avande!”

Quasi un fremito d’impazienza scoteva lui e li altri.

L’infermo ora pareva preso da uno stupidimento cupo. Teneva li occhi fissi su ’l coltello, senza dire niente, con la bocca semiaperta, con le mani penzoloni lungo i fianchi, come un idiota.

Cirù lo fece sedere, gli tolse la fasciatura, mettendo con le labbra quei suoni istintivi che indicano il ribrezzo. Un momento, tutti si chinarono su la piaga, in silenzio, a guardare. Massacese disse:

‟Cusì e cusì,” indicando con la punta del coltello la direzione dei tagli.

Allora, d’un tratto, Gialluca ruppe in un gran pianto. Tutto il suo corpo veniva scosso dai singhiozzi.

‟Curagge! Curagge!” gli ripetevano i marinai, prendendolo per le braccia.

Massacese incominciò l’opera. Al primo contatto della lama, Gialluca gittò un urlo; poi, stringendo i denti, metteva quasi un muggito soffocato.

Massacese tagliava lentamente, ma con sicurezza; tenendo fuori la punta della lingua, per una abitudine ch’egli aveva nel condur le cose con attenzione. Come il trabaccolo barcollava, il taglio riusciva ineguale; il coltello ora penetrava più, ora meno. Un colpo di mare fece affondare la lama dentro i tessuti sani. Gialluca gittò un altro urlo, dibattendosi, tutto sanguinante, come una bestia tra le mani dei beccai. Egli non voleva più sottomettersi.

‟No, no, no!”

‟Vien’a qua! Vien’a qua!” gli gridava Massacese, dietro, volendo seguitare la sua opera perchè temeva che il taglio interrotto fosse più pericoloso.

Il mare, ancora grosso, romoreggiava in torno, senza fine. Nuvole in forma di trombe sorgevano dall’ultimo termine ed abbracciavano il cielo deserto d’uccelli. Oramai, in mezzo a quel frastuono, sotto quella luce, una eccitazione singolare prendeva quelli uomini. Involontariamente, essi, nel lottare col ferito per tenerlo fermo, s’adiravano.

‟Vien’a qua!”

Massacese fece altre quattro o cinque incisioni, rapidamente, a caso. Sangue misto a materie biancastre sgorgava dalle aperture. Tutti n’erano macchiati, tranne Nazareno che stava a prua, tremante, sbigottito dinanzi all’atrocità della cosa.

Ferrante La Selvi, che vedeva la barca pericolare, diede un comando a squarciagola:

‟Molla le scòtteee! Butta ’l timone a l’ôrsa!”

I due Talamonte, Massacese, Cirù manovrarono. Il trabaccolo riprese a correre beccheggiando. Si scorgeva Lissa in lontananza. Lunghe zone di sole battevano su le acque, sfuggendo di tra le nuvole; e variavano secondo le vicende celesti.

Ferrante rimase alla sbarra. Li altri marinai tornarono a Gialluca. Bisognava nettare le aperture, bruciare, mettere le filacce.

Ora il ferito era in una prostrazione profonda. Pareva che non capisse più nulla. Guardava i compagni, con due occhi smorti, già torbidi come quelli delli animali che stanno per morire. Ripeteva, ad intervalli, quasi fra sè:

‟So’ morto! So’ morto!”

Cirù, con un po’ di stoppa grezza, cercava di pulire; ma aveva la mano rude, irritava la piaga. Massacese, volendo fino all’ultimo seguire l’esempio del cerusico di Margadonna, aguzzava certi pezzi di legno d’abete, con attenzione. I due Talamonte si occupavano del catrame, poichè il catrame bollente era stato scelto per bruciare la piaga. Ma era impossibile accendere il fuoco su ’l ponte che ad ogni momento veniva allagato. I due Talamonte discesero sotto coperta.

Massacese gridò a Cirù:

‟Lava nghe l’acqua de mare!”

Cirù seguì il consiglio. Gialluca si sottometteva a tutto, facendo un lagno continuo, battendo i denti. Il collo gli era diventato enorme, tutto rosso, in alcuni punti quasi violaceo. In torno alle incisioni cominciavano ad apparire alcune chiazze brunastre. L’infermo provava difficoltà a respirare, a inghiottire; e lo tormentava la sete.

‟Arcummánnete a sante Rocche,” gli disse Massacese che aveva finito di aguzzare i pezzi di legno e che aspettava il catrame.

Spinto dal vento, il trabaccolo ora deviava in su, verso Sebenico, perdendo di vista l’isola. Ma, quantunque le onde fossero ancora forti, la burrasca accennava a diminuire. Il sole era a mezzo del cielo, tra nuvole color di ruggine.

I due Talamonte vennero con un vaso di terra pieno di catrame fumante.

Gialluca s’inginocchiò, per rinnovare il voto al santo. Tutti si fecero il segno della croce.

‟Oh sante Rocche, sálveme! Te ’mprumette ’na lampa d’argente e l’uoglie pe’ tutte l’anne e trenta libbre de ciere. Oh sante Rocche, sálveme tu! Tenghe la mojie e li fijie.... Pietà! Misericordie, sante Rocche mi’!”

Gialluca teneva congiunte le mani; parlava con voce che pareva non fosse più la sua. Poi si rimise a sedere, dicendo semplicemente a Massacese:

‟Fa.”

Massacese avvolse in torno ai pezzi di legno un po’ di stoppa; e a mano a mano ne tuffava uno nel catrame bollente e con quello strofinava la piaga. Per rendere più efficace e profonda la bruciatura, versò anche il liquido nelle ferite. Gialluca non mosse un lamento. Li altri rabbrividivano, in conspetto di quello strazio.

Disse Ferrante La Selvi, dal suo posto, scotendo il capo:

‟L’avet’accise!”

Li altri portarono sotto coperta Gialluca semivivo; e l’adagiarono sopra una branda. Nazareno rimase a guardia, presso l’infermo. Si udivano di là le voci gutturali di Ferrante che comandava la manovra e i passi precipitati dei marinai. La Trinità virava, scricchiolando. A un tratto Nazareno si accorse d’una falla da cui entrava acqua; chiamò. I marinai discesero, in tumulto. Gridavano tutti insieme, provvedendo in furia a riparare. Pareva un naufragio. Gialluca, benchè prostrato di forze e d’animo, si rizzò su la branda, immaginando che la barca andasse a picco; e s’aggrappò disperatamente a uno dei Talamonte. Supplicava, come una femmina:

‟Nen me lasciate! Nen me lasciate!”

Lo calmarono; lo riadagiarono. Egli ora aveva paura; balbettava parole insensate; piangeva; non voleva morire. Poichè l’infiammazione crescendo gli occupava tutto tutto il collo e la cervice e si diffondeva anche pe ’l tronco a poco a poco, e la gonfiezza diveniva ancora più mostruosa, egli si sentiva strozzare. Spalancava ogni tanto la bocca per bevere l’aria.

‟Portateme sopra! A qua me manghe l’arie; a qua me more....”

Ferrante richiamò li uomini sul ponte. Il trabaccolo ora bordeggiando cercava di acquistare cammino. La manovra era complicata. Ferrante spiava il vento e dava il comando utile, stando al timone. Come più il vespro si avvicinava, le onde si placavano.

Dopo qualche tempo, Nazareno venne sopra, tutto sbigottito, gridando:

‟Gialluca se more! Gialluca se more!”

I marinai corsero; e trovarono il compagno già morto su la branda, in un’attitudine scomposta, con li occhi aperti, con la faccia tumida, come un uomo strangolato.

Disse Talamonte maggiore:

‟È mo’?”

Li altri tacquero, un po’, smarriti, dinanzi al cadavere.

Risalirono su ’l ponte, in silenzio. Talamonte ripeteva:

‟È mo’?”

Il giorno si ritirava lentamente dalle acque. Nell’aria veniva la calma. Un’altra volta le vele si afflosciavano e il naviglio rimaneva senza avanzare. Si scorgeva l’isola di Solta.

I marinai, riuniti a poppa, ragionavano del fatto. Un’inquietudine viva occupava tutti li animi: Massacese era pallido e pensieroso. Egli osservò:

‟Avéssene da dice che l’avéme fatte murì nu áutre? Avasséme da passà guai?”

Questo timore già tormentava lo spirito di quelli uomini superstiziosi e diffidenti. Essi risposero:

‟È lu vere.”

Massacese incalzò:

‟Mbè? Che facéme?”

Talamonte maggiore disse, semplicemente:

‟È morte? Jettámele a lu mare. Facéme vedé ca l’avéme pirdute ’n mezz’a lu furtunale.... Certe, n’arrièsce.”

Li altri assentirono. Chiamarono Nazareno.

‟Oh, tu.... mute come nu pesce.”

E gli suggellarono il segreto nell’animo, con un segno minaccioso.

Poi discesero a prendere il cadavere. Già le carni del collo davano odore malsano; le materie della suppurazione gocciolavano, ad ogni scossa.

Massacese disse:

‟Mettémele dentr’a nu sacche.”

Presero un sacco; ma il cadavere ci entrava per metà. Legarono il sacco alle ginocchia, e le gambe rimasero fuori. Si guardavano d’in torno, istintivamente, facendo l’operazione mortuaria. Non si vedevano vele; il mare aveva un ondeggiamento largo e piano, dopo la burrasca; l’isola di Solta appariva tutt’azzurra, in fondo.

Massacese disse:

‟Mettémece pure ’na preta.”

Presero una pietra fra la zavorra, e la legarono ai piedi di Gialluca.

Massacese disse:

‟Avande!”

Sollevarono il cadavere fuori del bordo e lo lasciarono scivolare nel mare. L’acqua si richiuse gorgogliando; il corpo discese da prima con una oscillazione lenta; poi si dileguò.

I marinai tornarono a poppa, ed aspettarono il vento. Fumavano, senza parlare. Massacese ogni tanto faceva un gesto inconsciente, come fanno talora li uomini cogitabondi.

Il vento si levò. Le vele si gonfiarono, dopo avere palpitato un istante. La Trinità si mosse nella direzione di Solta. Dopo due ore di buona rotta, passò lo stretto.

La luna illuminava le rive. Il mare aveva quasi una tranquillità lacustre. Dal porto di Spálatro uscivano due navigli, e venivano incontro alla Trinità. Le due ciurme cantavano.

Udendo la canzone, Cirù disse:

‟Toh! So’ di Piscare.”

Vedendo le figure e le cifre delle vele, Ferrante disse:

‟So’ li trabaccule di Raimonde Callare.”

E gittò la voce.

I marinai paesani risposero con grandi clamori. Uno dei navigli era carico di fichi secchi, e l’altro di asinelli.

Come il secondo dei navigli passò a dieci metri dalla Trinità, vari saluti corsero. Una voce gridò:

‟Oh Giallù! Addò sta Gialluche?”

Massacese rispose:

‟L’avéme pirdute a mare, ’n mezz’a lu furtunale. Dicétele a la mamme.”

Alcune esclamazioni allora sorsero dal trabaccolo delli asinelli; poi li addii.

‟Addio! Addio! A Piscare! A Piscare!”

E allontanandosi le ciurme ripresero la canzone, sotto la luna.

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