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San Làimo navigatore
Turlendana ebro

SAN LÀIMO NAVIGATORE.



In un giorno di sole un pescatore discese alla riva del mare con le nasse; e camminò così verso austro, a piedi nudi, su l’arena ove il fiore salino qua e là biancheggiava simile a un cristallo puro e raggiante. Il silenzio era grande nell’ora, e le acque a pena fluttuavano. Come l’uomo giunse al punto in cui un ramo di fiume metteva foce nel mare, si fermò per succingersi, poichè l’alveo qua e là scoperto rendeva facile il guado. Un altro ramo affluiva più lungi; e il paradiso del delta, pingue d’alluvioni, in mezzo prosperava di piante e di animali.

Volarono sopra il capo del guadante molti uccelli ordinati in triangolo, giocondi al cantare, e discesero tra li alberi. Onde l’uomo, allettato da quella melodiosa delizia di richiami, sostò su l’altra sponda; e piacevolmente poi andò premendo la freschezza dell’erbe con le calcagna use alla sabbia torrida, mentre le sue pupille fastidite dal candor salino si riposavano nel verde.

Una dolce deità di pace ora felicitava la selva: da un albero all’altro saglienti si comunicavano i cantici, s’aprivano a piè dei tronchi famiglie di fiori versando aromi, e in alto tra li intervalli stellanti delle fronde fioriva anche il cielo. Tutte le creature in quel rifugio esercitavano liberalmente la vita. Il suono de’ passi tranquilli su i muschi meravigliava nell’animo l’uomo; il quale così procedendo per mezzo a quella mansuetudine di amori si sentiva come da una pia unzione di balsamo lenire la fatica delle membra e purificare.

Ma quando giunse egli al centro della selva; un miracolo gli si offerse alli occhi. Giaceva su la natural cuna dell’erbe un infante e sorrideva, teneramente luminoso, in una forma tra di essere umano candidissima e di fiore. Le carni si piegavano in anella rosee ai polsi, ai malleoli, alla nuca; e i piedi terminavano in quelle vaghe arborescenze di cui li antichi artefici ornarono le statue di Dafne cangiata in lauro. Li arbusti aromatici facevano in torno al nato una musica d’orezzo, soave come il murmure delle prime api nella stagione del miele.

Il pescatore, attonito, ristette. D’improvviso un vecchio con lunghe trecce di barba su ’l petto, con su ’l capo una mitra d’oro, simile in vista a un patriarca, sorse dalla terra.

‟Raccogli il fanciullo, e recalo al tuo signore. Tu vivrai lungamente in letizia, e i pesci riempiranno le tue reti.”

Disse il vecchio; e subito sparve come un’ombra nel sole.

Il buon pescatore si guardò in torno, stupefatto. Li alberi stormivano, e un branco di caprioli passava tra i frútici.

Egli riempì d’erbe uno de’ suoi cesti, e sopra vi adagiò l’infante. Rifece il cammino, a traverso la selva, portando su la testa il peso. E poichè al moto dei passi la culla di vimini ondeggiava, l’infante si addormentò placidamente, lungo la riva del mare.


Ora viveva nel suo gran palagio il signore delle terre marittime, su ’l declivio di un colle. Egli era benigno co’ i sudditi, come un padre co’ i figliuoli; prossimo al limitare della vecchiezza, egli era pacifico e saggio nel timore di Dio.

Vasti pomari, pieni di tutti li alberi fruttiferi e odoriferi, prosperavano dietro il palagio; mule e cavalli nobili oziavano dinanzi alle greppie carichi di fieni e di biade; l’olio empiva i pozzi nei sotterranei; tanta era la copia del fromento che immensi granai stavano sempre aperti al piacere di ognuno, liberal cibo anche alli uccelli del cielo, e tanta era la copia delle uve che in autunno, nella natività del vino, lunghe file di bestie da soma partivano a traverso i dominii, recando la divizia del liquore letificante.

Nell’interno i cortili marmorei, come li atrii di un re, erano giocondi d’acque vive, di aranci, di statue, di paggi e di cani. Corami preziosi incisi di chimere e di draghi, incrostature di agate e di diaspri, avori di liofanti e di liocorni ricoprivano le pareti delle stanze; le suppellettili materiate di legni, di metalli e di tessuti rari si riflettevano, come in lucidi specchi, ne’ pavimenti di musaico polito. Grandi logge sorrette da ordini di colonne in pietra numidica, coperte da tappeti di fiori e da cortinaggi di foglie, si prolungavano in fuga giù pe ’l declivio sino al limite della rada frequente di pesci. Sotto una delle logge erano le mude, governate da buoni maestri: ogni anno Candiotti, Sarmati e Sassoni le provvedevano di cinquecento girifalchi, e poi d’astori bianchi d’Africa, di sagri tartari, di pellegrini d’Irlanda, di tunisenghi germanici, di lanieri provenzani in grande abbondanza. Nel lato di settentrione spaziava il parco ricchissimo di selvaggina, ove tra li altri animali prolificavano diecimila cervi e sessantamila fagiani.

Uomini esperti in opera di canto e di stromenti armonici dilettavano l’animo del signore e della sua donna, serenavano le veglie, suscitavano gioia nei conviti. Un unguentario componeva profumi. Un monaco, che tra una gente d’Arabia aveva appreso ad usare le virtù dell’erbe, coltivava i semplici, e nei vegetali indigeni in vano cercava da tempo un succo che rompesse la sterilità della matrice.

La donna del signore, infeconda, traeva i giorni assorta in una nativa mestizia. I suoi occhi splendevano come puro elettro. Sotto la tunica si designavano le forme verginali giovenilmente. E quando ella saliva i gradini di porfiro, levata le mani verso l’altare, i capelli disciolti le inondavano la figura estatica, e le davano un’apparenza di deità.


Giunse al palagio l’infante, come un dono celeste. E per tutte le terre si sparse la novella; e tutte le genti soggette accorrevano.

Allora il sire magnifico bandì una luminaria conviviale. In segno di felicità, corsero giù per il colle fiumi di vino biondi e vermigli; si vuotarono vasi di miele fragrante di timo; si assaporarono frutta grosse come una testa d’uomo; mille giovenchi furono colpiti in un giorno, e fumigarono su le brage; furono sgozzati settecento porci enormi come rinoceronti ma di carni più tenere che la coscia d’un agnello; cacciagioni e pescagioni furono prodigate su vastissimi piatti d’oro, e dal ventre dei volatili e dei pesci uscirono gemme, anelli, gioielli, monete insieme con l’uva di Corinto, co’ i pistacchi d’Italia, con le noci, con le olive. Su ’l golfo arsero fuochi di legni odoriferi, e faci illuminanti per gran tratto il mare, così che galee veneziane e saettie di corsali barbareschi da lungi videro il rossore, e novellarono dell’incendio di una città favolosa. Il vapore delle gomme balsamiche salì al cielo in nembi; cantici di religione sonarono nell’aria, più dolci di ogni aroma; e tutte le fronti si cinsero di corone.


L’infante si chiamò Làimo. Adagiato in una cuna mirabile, fatta di una conchiglia rara che due tritoni sorreggevano, egli volgeva in torno li occhi aventi nel riso l’umido splendore argenteo della polpa d’un fiore. Vennero le nutrici, femmine plebee dal seno opimo, vermiglie di salute; ed egli ritrasse dal loro latte la bocca. Soltanto una cerva fulva lo nutricò. Questa mammifera mansueta restava a lungo presso il fanciullo, coricata a piè della cuna; si cibava di fogliami teneri, di funghi, di fromento, e beveva in un vaso di murra linfe pure. Al suo bramito tremulo e dolce, una gioia di movimenti vivaci animava le membra del poppante, e il piccolo anello delle labbra si schiudeva spontaneamente nel riso.

Con una prodigiosa rapidità ascese Làimo dall’infanzia alla puerizia. Egli ebbe la testa di un dioscuro tutta nera di ricci simili a grappoli di giacinti. Nel suo corpo rifulse la bellezza di un giovane Bacco, l’armonioso componimento di una statua fidiaca. Il torso era una viva opera di cesello, poichè le coste si palesavano sotto la forma nascente del torace; il gioco dei bicipiti nelle braccia perfette come quelle dell’Antinoo incideva su le spalle talune lievi cavità mobilissime; le reni si insertavano ai lombi con un’inflessione serpentina di gimnaste; le musculature delle gambe avevano la lunghezza agile di disegno d’un efebo ateniese; ai malleoli si collegavano piedi schietti e nervosi di atleta corridore, terminanti in dita simili a un gruppo di radici tenui; tutta la persona gioiva nell’equilibrio della grazia e della forza, con mollezze di cera ricoprenti fieri congegni di acciaio.

Così l’effigiò, in una lega di metalli nobili, un artefice del quale ignoriamo la patria e il nome.

Làimo non amò cavalli, nè falchi, nè cani. Egli fu esperto nel trar d’arco più che un saettatore parto; e pure giammai freccia d’argento della sua faretra ferì tra li alberi una preda. Ma i grandi combattimenti epici delli squali nel golfo, al tempo delli amori, l’attraevano. E come gli giungeva pe ’l silenzio meridiano il fragore, egli balzava di gioia; e, preso l’arco, pianamente, non visto da alcuno, scendeva giù per una corda di palmizio nel parco e attraversava la selva fino al promontorio.

Due querci, simili a monumenti titanici dell’epoca favolosa, componevano una porta di trionfo alta duecento piedi. Il sole illustrava di candori argentei le scorze centenarie; e di là dalla porta i laberinti della foresta si inabissavano nell’ombra.

Il fanciullo su ’l limitare sostava, rapito nella grandezza e nella dolcezza della solitudine. Poi, come il fragore lontano lo riscoteva, egli, con una agilità di veltro dietro un branco di lepri, insinuavasi tra fusto e fusto, strisciava tra le erbe altissime, saliva scalee fatte di radici, saltava ostacoli di arbusti, piegava sotto i rami pesanti. Il fragore del combattimento si faceva a mano a mano più vicino e più terribile. D’un tratto il mare chiuso in un vasto anfiteatro di granito appariva splendidissimo, e su le acque più di tremila squali battagliavano.

Era un magnifico spettacolo. Dall’alto del promontorio il fanciullo seguiva con l’occhio tutte le vicende della strage illustrata pienamente dalla luce solare.

I pesci, enormi chimere d’acqua salsa, violacei e verdi nel dorso, biancastri nel ventre, armati di scudi ossei e d’un gran dente di narvalo, formavano cumuli mobilissimi emergenti crollanti risollevantisi con una rapidità indescrivibile. Il balenío delle lunghe spade d’avorio, il luccichío dei corpi oleosi, li sprazzi d’iride nelle scaglie delle code, lo spumeggiamento immenso dell’acque, tutto quel cieco furore di ferite, quell’odore acuto di grasso e di sangue eccitavano il fanciullo.

I cadaveri, galleggianti co ’l ventre riverso dentro cui l’avversario avea lasciato l’arma, erano sbattuti dall’onda contro le pareti di granito. Squali, con la mascella rotta e priva del dente, uscivano dal folto della zuffa e dibattendosi nelle scosse ultime della morte cangiavano i colori. Frammenti d’avorio nel cozzo erano lanciati a grandi altezze per l’aria. Avvenivano talvolta meravigliosi intrecciamenti su la vetta dei cumuli. Talvolta coppie di combattenti si distaccavano dalla falange e venivano a tenzone singolare, operando prodigi di ferocia. Larghe chiazze sanguigne si dilatavano in torno, dissipate poi dai colpi delle pinne e delle code; e il numero delli uccisi, crescendo rapidamente, avanzava quello dei superstiti.

Allora Làimo, dinanzi alla enormità dell’eccidio, invaso da un fiero impeto tendeva l’arco e cominciava a saettare. Le frecce acutissime penetravano sino alla cocca nelle carni molli e un istante vi oscillavano. Ma, poichè li squali non curando le nuove ferite persistevano nell’accanimento dell’ira, in breve tempo lo sterminio era completo. La sollevazione delle acque placandosi, le schiume si dissolvevano: la tenacità della vita in quei corpi aveva ancora qualche battito supremo di coda e di pinne, qualche debole sussulto nella fessura delle branchie. Poi, dall’ondeggiar supino di tutti i cadaveri si levava un intenso folgorío di squame, e per li scoscendimenti dell’anfiteatro lunghi colli nudi d’avoltori si tendevano su ’l pasto.


Così in Làimo li spiriti pugnaci si destarono; e un desiderio di avventure per le terre d’oltremare a lui crebbe nell’animo. Egli passava lunghe ore guardando la marea salire o le vele fuggire in distanza nella luminosità delle grandi acque.

Talvolta seduto ai piedi della signora, in fondo a una loggia, seguiva sopra uno stromento di tre corde le canzoni dei marinari. Molte catene di fiori pendevano giù per li intercolonnii: e dinanzi, nel golfo calmo e tiepido, le testuggini marine dormivano su ’l fiore dell’acqua dando al sole i larghi scudi raggianti come un’ambra pura.

Làimo, d’un tratto, gittava da sè lo strumento e scoppiava in lacrime, perchè avea visto apparire la prora di una galea nel lontano.

Il sire e la sua donna, ignorando la causa di tanta tristezza, per letiziarlo chiamarono alla corte i più famosi buffoni e danzatori della cristianità; bandirono per lui conviti ove i più rari cibi si mangiarono tra suoni d’arpe e cori di fanciulle; gli donarono cavalli coperti di bardature gemmanti e ricchissime armi cesellate da orefici di gran nome; aprirono nel parco una caccia in cui durante tre giorni mille cervi furono uccisi e dugento capri e novanta cinghiali.

Poi, quando Làimo alfine chiese un naviglio, il sire adunò artefici navali d’ogni patria, li provvide di legno di cedro, di lino d’Egitto e di metalli. L’opera fu compiuta in dieci mesi.

Era una galea con cinque ordini di remi. L’antenna maggiore, più diritta e più inflessibile che un pino del monte Ida, cerchiata di argento, coronata d’un gran gallo fiammeggiante come un faro, portava una gran vela quadrata e due vele triangolari. Su la prua, dipinta ad encausto, il corpo magnifico di una nereide torcendosi a seconda della curvatura attingeva con i piedi la carena e in un gesto atteggiato di grazia tendeva all’alto le mani. Su per il bordo stavano scolpiti agili putti bacchici che tutti insieme facevano componimento di una danza. Il cedro immarcescibile risplendeva ovunque tra li intarsi d’avorio e di sandalo; tende di tessuti asiatici ondeggiavano su ’l ponte ombrando letti di piume; e tutta la galea aveva apparenza di un naviglio su cui qualche bel re felice volesse goder l’amore delle sue spose.

Allora trassero molte genti dalle terre circonvicine, pe ’l giorno della prova; e Làimo era in vista luminoso di letizia, e il sire e la sua donna gioivano.

Quando a forza di braccia la galea fu sospinta nel mare, un grido immenso di meraviglia eruppe dalla folla suscitando per tutto il golfo li echi. Il mattino splendeva come in una conca di cristallo e i fondi del mare trasparivano. Làimo dopo i teneri commiati salì su ’l ponte. Cinquanta remigatori ignudi, stropicciati d’olio di oliva e di polvere gialla, tutti vivi di muscoli, stretti d’una corda la testa a fin che nello sforzo le vene della fronte non scoppiassero, si curvarono su’ loro banchi; e la nave guizzò. Le genti dalla riva e dai paliscalmi salutavano. Ma un subito presentimento di sventura corse nell’animo del sire e della sua donna, tra il lungo clamore delle salutazioni.


La galea conquistava le lontananze, con una crescente celerità di remeggio, inseguita dalle torme dei delfini. Era il mare in calma; e i marinari, come sogliono per alloggiamento della lor fatica, a voce pari con la battuta dei remi cantavano. E Làimo, poichè si sentì ventar su ’l volto l’amarezza della salsuggine e ridere nell’animo a quei canti una forte gioia d’imprese, non lentò d’incitar con le voci e col gesto i remigatori. Egli dominava eretto su la sommità della prua: sotto di lui le schiene servili s’incurvavano come archi, i bicipiti delle cento braccia nel guizzo enorme parevano rompere la cute, le fronti si enfiavano di vene violacee, tutte le membra stillavano.

Si mise il vento; fu spiegata la vela quadra che un istante palpitò malsicura: li uomini, rotti dalla fatica, si accasciarono sotto i banchi all’ombra. E il pilota, ch’era un erculeo vecchio della terra di Natolia, chiomato come un barbaro, scorse tre fuste di corsali appressarsi dalla parte di levante, e disse, piegando i ginocchi davanti al fanciullo:

‟Volgiamo il timone al ritorno, mio signore.”

Làimo non udì il consiglio. I triangoli di lino di Egitto furono liberati; la galea fece impeto. E come dalla parte di levante le tre fuste venivano in contro a gran forza di remi e si vedevano già fuor de’ bordi le bieche figure dei corsali, un subito terrore invase la ciurma. Làimo, cinto da pochi valenti, su l’alto della prua, atteggiato d’ira aspettava che le fuste giungessero a un trar d’arco. Il fischio della prima freccia mise un gran moto di scompiglio tra i predatori: un d’essi precipitò nell’acqua, colpito a mezzo della fronte. Altri, nell’urto dell’investimento, precipitarono.

Allora avvenne una breve zuffa. I corsali di Cifalonia vestivano cotte di maglia, erano agili come gatti pardi, e gittavano urli rauchi vibrando i colpi. Molti caddero per opera di Làimo, prima che le loro mani toccassero la galea; molti si abbrancarono alle corde e conquistarono a palmo a palmo il ponte. Qual vilissimo bestiame, la ciurma dei servi dinanzi a quell’irrompere fuggiva o si prostrava, con gemiti. Così che Làimo, sopraffatto dal numero, senza più arme nel pugno, fu preso e vincolato.

Stettero i corsali lungamente poi a riguardarlo, attoniti in vista; e, sgombrando i cadaveri, di lui sommessi favellavano nel loro idioma.


In breve tempo l’eroe soggiogò li animi di quella gente predace. Un giorno nelle acque di Brandizio egli, salito d’un balzo su una cocca di Genovesi e separato per un colpo di mare dal legno corsaresco, si tenne saldo su ’l ponte nemico combattendo solo contro quaranta armati, uccidendone buon numero in fascio con prodigiose ferite, tenendo in distanza i rimanenti fin che non giunse il soccorso a compir la vittoria. Dopo quella gran prova, le ciurme di Cifalonia con furiose acclamazioni lo elessero duce, e tutta la notte al lume del fuoco greco banchettarono su la nave conquistata e bevvero vino di Cipro tra molti canti bacchici.

Rapidamente la fortuna di Làimo crebbe e fiorì. Tutti i corsali del Mediterraneo e del Mar Nero, attratti dalla sua fama, vennero a ingrossare la flotta. Egli divenne su i mari più potente dei re e delle repubbliche. Una terribile avidità di conflitti e di pericoli lo animava: per iattanza appiccò il fuoco alle galeazze del re di Spagna cariche d’oro e andò a gittar le sue frecce in Malamocco. Le ciurme gli obbedivano con impeti ciechi: per seguire il suo grido passavano a traverso gli incendi, si slanciavano contro selve di picche, si attaccavano con le mascelle ai parapetti delle galee, assaltavano mura sotto flutti d’olio bollente. Egli saccheggiò le isole dell’Arcipelago: predò mandre di bovi e di cavalli, camelli, tessuti, vini, fromenti, tesori di gemme e di metalli; nulla tenendo per sè, tutto prodigando ai seguaci.

Una volta inseguì una nave carica di trecento fanciulle tra le più belle della Grecia e della Georgia, comprate ed educate pe ’l Califfo da un mercante di Bagdad; la raggiunse nelle acque di Scio, e la predò. Poi, nella sera, dinanzi a un promontorio coperto di pini, egli bandì per la sua flotta un convivio. La selva di pini incendiata illuminò e profumò di resina la festa; i corsali, che nelle continue fazioni avevano sofferto castità, fecero allora una furibonda orgia di amore. I bellissimi corpi delle fanciulle passarono di braccia in braccia, tra le risa roche e le diverse favelle, versando il piacere; si bevve il vino dalle stesse bocche delli otri, si bevve nel concavo delli scudi e nei caschi di rame; scoppiarono tra la gioia molte contese mortali; l’alba vide le ultime insanie. E all’alba la nave del mercatante, poichè fu novamente carica delle trecento femmine, portò la non più vergine merce al Califfo di Bagdad.

Un’altra volta Làimo liberò una regina chiusa in una torre a cui le nubi cingevano la sommità. Tenne l’assedio per tre giorni e per tre notti, combattendo Saracini giganteschi armati di scimitarre lunate. Molti legni gli s’infransero contro le scogliere e molti uomini perirono prima che le porte di bronzo cedessero. Egli appiccò quei cani d’infedeli ai merli della torre e ricondusse la bella nel regno, in una città che aveva case con tetti d’oro e templi marmorei levantisi in alto come scale di fiori.

Grandi festeggiamenti furono dati in gloria dell’armata liberatrice e banchetti in cui quei truci corsali mangiarono sotto rami di mirto e di lauro, bevvero in crateri coronati di rose, si asciugarono le mani in chiome di schiave asiatiche, si distesero su tappeti magnifici a piè di fontane che li deliziarono di una pioggia d’acque miste d’aromi. La regina, presa d’amore, allettò Làimo con una lenta mollezza di blandizie: era tutta luminosa ed odorosa naturalmente, le narici rosee le palpitavano ad ogni minimo desío, la bocca le fioriva di porpora, e i capelli le cadevano giù per il collo simili a grappoli d’uve mature.

Ella provò tutti li incanti su ’l forte animo dell’eroe per trattenerlo: cieca, una notte gli offerse la gioia delle sue membra e all’alba rimase ebra tra i guanciali, con la testa pendula fuori della sponda, con li occhi spenti, le braccia morte. Ma poi, quando file di dromedari e di camelli con i lunghi colli carichi di musici e di danzatrici portando doni discesero dalla reggia al mare, le navi dell’eroe già dirigevano la prora per altri lidi.


Così Làimo divenne grande e famoso; e fu celebrato nei canti dei poeti per le corti e nelle leggende dei marinari. Una repubblica d’Italia gli inviò messaggi offrendogli il supremo imperio della flotta col governo di due province. Il Cristianissimo di Francia fece segrete pratiche per assoldarlo, promettendogli alti uffici ed onori. I Selgiucidi gli spedirono ambasciatori recanti su una picca tre code di cavallo e gli offerirono la sultanía di Rum, da Laodicea di Siria al Bosforo di Tracia e dalle fonti dell’Eufrate all’Arcipelago.

Egli oppose superbi rifiuti; andò in cerca di nuove terre, di nuovi pericoli, di nuovi conflitti. Navigò per mari tutti coperti di fuchi natanti, dove i remi s’impigliavano come in masse di gramigne tenaci. Traversò immensi spazi dove l’aria e l’acqua tacevano in una immobilità di sonno, in un calore umido e luminoso per mezzo a cui torme di uccelli ignoti passavano simili a meteore. Incontrò scogli deserti, lieti di piante vergini, cinti d’una candida corona di corallo. Approdò a una terra abitata da uomini scarni, co ’l ventre prominente, che si coprivano di fango per difendersi dalle punture delli insetti, si tingevano di cinabro i capelli, parlavano una lingua dolce e sonora, e nulla amavano più del ballo e delle canzoni. Vide paesi di cui li uomini, tutti dipinti co ’l frutto del genipo, ornati le labbra e li orecchi d’enormi dischi di legno, agilissimi, ferivano nell’acqua a colpi di frecce i pesci addormentati prima da succhi di radici velenose. Vide isolette piene di una gente infetta d’elefanzía, infingarda, che passava la vita fumando l’oppio, nutrendosi di riso, e prendendo diletto ai combattimenti dei galli e d’altri animali. Risalì correnti di fiumi dove scimmie innumerevoli tra le pacifiche forme delli ippopotami e delli elefanti schiamazzavano.

Tutti li indigeni dinanzi a lui si prostrarono, offerendo in dono canne di bambù colme d’olio di cocco, frutti dell’albero del pane, legno di sandalo, ambra grigia, ignami, cera, banane e canne di zucchero. Alcuni portavano alli orecchi bastoni dipinti, su la pelle avevano incise molte figure di uccelli, e tenevano in mano archi lunghi dodici piedi e scudi di cuoio di bufalo. Altri erano cinti d’un perizoma di scorza, avevano la bocca e i denti neri come l’ebano per l’uso delli aromi, i capelli intrecciati di piume, e percotevano stromenti composti di sei vasi di rame gradanti entro un legno concavo.

Ora, essendo Làimo nelle acque di una terra selvosa, i naturali in gran numero gli vennero in contro sui paliscalmi con suoni e con cantici per offerirgli i doni che si offrono agli dèi e per adorarlo. Vigeva in quella terra la profezia di un antico nume: ‟Io tornerò un giorno sopra un’isola galleggiante che porterà cocchi, porci e cani.”

Quando Làimo ebbe attinto il lido, il re tra i figli si avanzò verso di lui, gli gittò su le spalle il manto, gli porse un elmo di piume, un ventaglio, e innanzi gli depose pezzi d’oro, diamanti e perle. Tutto il popolo mise alte grida; femmine quasi ignude, dipinte d’ocra vermiglia, recarono piccoli porci, noci e banane. Poi i grandi sacerdoti lentamente uscirono dal folto delli alberi, portando i loro idoli coperti di drappi rossi. Erano questi idoli una sorta di statue di vimini, enormi, con occhi composti da gusci di noce neri, attorniati di madreperle, con mascelle irte di molti denti di cane in due ordini. Mentre le forme orride e nuove ondeggiavano nell’aria tra li inni della religione, una turba di danzatrici irruppe in torno all’eroe, e danzò rapidamente al suono di un flauto, lungo cinque piedi, che cinque uomini insieme sonavano.


Làimo traversò tutta l’isola, in trionfo, come fosse un bel dio, tornante fra i suoi popoli. I re si inchinarono al passaggio, i sacerdoti prostrarono la fronte nella polvere; il seguito delli elefanti e dei cavalli carichi di doni si accrebbe a mano a mano lungo la via, divenne innumerabile, occupò la distesa di centosettanta miglia. Era la dovizia delle terre in torno meravigliosa: le foreste si erigevano ad eccelse altitudini, le urne dei fiori potevano in sè nascondere il corpo di un uomo, i profumi avevano la dolce forza letificante del vino e i colori la vivezza del fuoco.

Su ’l limite di una boscaglia fluviatile le tigri balzando dalle erbe si gittarono al ventre dei cavalieri. Làimo, fulmineo, tese l’arco e con tal rapidità le trafisse che quelle caddero prima d'aver raggiunta la preda, giacquero sulla schiena dibattendosi. Un subito grido di gioia e di stupore corse per le genti; e tutte lungo il cammino, cantando nel loro idioma, ripetevano una parola: — Mahadewa! Mahadewa!

Come il trionfo giunse alle rive del gran fiume, ove mille templi facevano un immenso adunamento di colonne e di statue, al novello dio i sacerdoti mostrarono una scala di porfido sagliente per una reggia, costruita di mattoni e di calce.

Era un edifizio quadrangolare, composto di tre piani con intervalli adorni di rilievi di pietra. I terrazzi, aventi una lunghezza di centocinquanta piedi, sostenuti da ventidue pilastri, portavano sculture di corpi umani, di tigri, di elefanti e di buoi. Ad ogni lato dell’edifizio stava confitta nel suolo una larga pietra in forma di testuggine: e alla sommità, in torno a un serbatoio di acque, si torcevano quattro tubi di bronzo in forma di serpi. Scale di porfido si slanciavano rapide a riunire le moli, discendevano, salivano, tra mille proboscidi zampillanti; le sale ricevevano il giorno dall’oro delle pareti; i giardini avevano fiori vermigli, larghi in giro più di otto piedi, che pesavano quindici libbre, e frutti di cui la polpa succulenta poteva far sazi tre schiavi.

Làimo visse colà, in riposo, cibandosi di un aroma restaurante, ungendosi di olii odoriferi, vestendosi di morbidi tessuti vegetali, e ad ogni tramonto di sole inebriando con la presenza del suo corpo radioso una gente estatica nei mille templi. A lui cantavano i sacerdoti: — Noi t’invochiamo, perchè tu sei il Signore degli dèi e delli uomini! —

Fanciulle di tredici anni, che avevano la pelle diafana e gialla come l’ambra e lunghe sino ai calcagni le chiome, erano a lui offerte dai padri; ed egli molto si dilettava dell’amore. Bufali eccitati con ortiche venefiche e tigri furiose combattevano dinanzi a lui, dentro gabbie di bambù ampie come circhi. Anche uomini contro uomini dinanzi a lui combattevano con alte grida e con fragore di stromenti percossi. Egli così deificato viveva nell’oblio di tutte le melancolie umane.


Ma un dì, mentre egli gioiva in diletti d’amore, discese sopra il suo capo la colomba del cielo; e un profondo fremito gli ricercò le viscere. Parvegli allora di destarsi dopo un lungo sogno: i suoi occhi si empirono di dolore, nelle sue forme perfette discese una scarna vecchiezza. Le fanciulle attonite lo riguardavano trascolorando, si coprivano le nudità con i capelli, poichè un’improvvisa vergogna le coglieva dinanzi a lui.

Come il tramonto del sole era vicino, sotto la reggia un immenso popolo tumultuando si fece ad invocare il dio: — Mahadewa! Mahadewa!

Il sole, simile a un gran timpano polito, gittava scintille su le vestimenta dei sacerdoti, invermigliava le statue e le colonne, passando a traverso i pilastri dei terrazzi incendiava tutto l’edifizio.

Mahadewa!

Apparve finalmente Làimo. Egli era trasfigurato. Un manto di scorza tessuta lo ricopriva, e si vedevano le corde dei nervi nei solchi delle sue braccia. Come egli tese le mani verso la folla, una mite aura di pace aliò da quel gesto su tutte le fronti. Li invocanti stupefatti si prosternarono; e nel silenzio si udivano le fontane scrosciare sopra le scale di porfido.

‟O popoli del fiume,” gridò Làimo nel vivo idioma di quella terra. ‟Ascoltate la mia voce, poichè io vi reco una nuova legge.”

Un sussurro corse per tutte le genti, e nei dorsi fu come un sommovimento di porci. I sacerdoti sollevarono il capo.

‟I vostri idoli sono argento ed oro, opera di mani d’uomini; hanno bocca, e non parlano; hanno occhi, e non veggono; hanno orecchi, e non odono; ed anche non hanno fiato alcuno nella loro bocca. Simili ad essi sieno quelli che li fanno, chiunque in essi si confida....”

‟No, no, egli non è il nostro dio!” urlarono i sacerdoti al popolo, interrompendo il profeta di Gesù. E un gran tumulto agitò la folla: taluni balzarono in piedi, altri rimasero prosternati. La voce di Làimo crebbe, cadde dall’alto co ’l fragore del tuono, e li echi dei templi sonori la ripercossero.

‟Ascoltate la parola del vero Dio, uomini schernitori che signoreggiate questo popolo, razza di serpi, otri gonfiati, tamburi rimbombanti! Egli scenderà su voi simile ad un flagello, dilanierà le vostre carni, spargerà il vostro sangue su le pietre, spezzerà le vostre ossa come vasi d’argilla, come gusci di cocchi.

‟Li artefici delle sculture son tutti quanti vanità, e i loro idoli non giovano nulla; ed essi son testimoni a se stessi che quelli non veggono e non conoscono. Essi tagliano un tronco, ne prendono una parte, e se ne scaldano, ed anche ne accendono fuoco per cuocere il cibo; ed anche ne fanno un dio, e l’adorano; ne fanno una scultura, e le s’inchinano, e le volgono orazione, e dicono: — Liberami, perchè tu sei il mio dio. — Essi non hanno conoscimento alcuno: e i loro occhi sono incrostati per non vedere; e i loro cuori per non intendere....”

‟Taci! taci!” imprecarono i sacerdoti, con gesti d’ira, minacciosi nella faccia. Li idolatri ascoltavano; altri da lungi accorrevano: ad ogni tratto un clamor cupo si levava dalla turba, come un ribollimento di flutti nel mare.

Il profeta continuò. Egli diceva di un Dio vivente, di un Dio grande, giusto ed eterno.

‟La terra trema per la sua ira e le genti non possono sostenere il suo cruccio. Egli spande la sua ira sopra le genti che non lo conoscono, e sopra le nazioni che non invocano il suo nome. Ecco, il male passerà da un’isola all’altra, e un gran turbine si leverà dal fondo del mare; e in quel giorno li uccisi non saranno raccolti, nè seppelliti: saranno per letame sopra la faccia della terra.”

‟Taci! taci!” gridavano li idolatri, tendendo le mani, atterriti dalla profezia.

Ma la voce di Làimo divenne d’un tratto dolce come il suono d’uno stromento di corde, distesa come un canto di religione. Egli diceva d’una felicità senza fine, d’una giustizia imperante su tutte le genti, d’una grande letizia d’amore nel giardino dei cieli.

‟Scenderà il Dio, come pioggia sui campi di riso riarsi; farà ragione ai figliuoli del misero, ai poveri afflitti, e fiaccherà l’oppressore. Il giusto fiorirà; e vi sarà abbondanza di pace, fin che non vi sia più luna. Le correnti del fiume trarranno polvere d’oro; ruscelli d’acque vivificanti scorreranno per l’erbe; ciascun albero darà molte libbre di gomma odorifera e frutti; ciascun seme produrrà ricchezze; e le tigri saranno mansuete, i rettili non avranno più tossico, li elefanti e i bufali sosterranno le fatiche della coltivazione. Il Dio signoreggerà da un mare all’altro, e dal fiume fino alle estremità della terra. I re delle isole gli pagheranno tributo, tutte le nazioni gli daranno inni e incensi di belzuino; poichè egli libererà il bisognoso che grida, e il povero afflitto e colui che non ha alcuno aiutatore; egli riscoterà la vita delli schiavi da frode e da violenza, e il sangue loro sarà prezioso davanti a lui....”

Così parlava il profeta, quasi cantando.

Le turbe delli idolatri, soggiogate dal fáscino della voce, tacevano, con le fronti chine; e come la pacificazione della luna scendeva su le foreste, si spargeva per quelli animi un balsamo, una calma piena di freschezza e di profumi.

Ora discese Làimo alla riva; e le genti lo seguitarono. Ed egli camminava innanzi ammaestrando, e diceva di Gesù, del Dio novello che nacque da una vergine, e che accomunò li uomini in una legge d’amore.

‟Egli è un Dio semplice e dolce: la sua faccia risplende come il sole, e i suoi vestimenti sono candidi come la luce. E tutto ciò che a lui verrà chiesto con preghiere, sarà fatto.”

‟Orsù,” gridò uno dei sacerdoti, ‟chiedi che questa lancia dia fiori.”

Prese Làimo, con un mite sorriso, la lancia dalle mani dell’uomo giallo, e la confisse dinanzi a sè nel terreno. Subitamente dal ferro sbocciarono fiori, per prodigio, e tutte le nari aspirarono l’effluvio. Confusi, li idolatri riguardavano. Uno di loro gridò:

‟Egli è protetto dai demoni! Egli ci farà morire!”

Altri incalzarono:

‟Parla, parla; giustifica il tuo potere!”

Un tumulto improvviso agitò di nuovo la turba. I lontani, che non aveano veduto il prodigio, fecero irruenza con grandi clamori; e i sacerdoti insinuandosi tra corpo e corpo andavano istigando le ire, ripetevano a gran voce:

‟Egli è protetto dai demoni! Sia gittato nel fiume!”

‟Parla! parla!”

Il profeta tentò salire su uno delli idoli di pietra, per dominare la tempesta. Ma la profanazione audace inasprì li idolatri. Uno d’essi trasse a terra il profeta; altri si gittarono su di lui percotendolo; altri gridarono:

‟Al fiume! al fiume! Sia dato in pasto ai gaviali!”

Làimo, lanciato nelle acque, riapparve incolume a mezzo della correntía; e le frecce cadevano innocue in torno a lui, come ramoscelli di belzuino.


Ed egli così all’albeggiare giunse alla foce; e sopra un tronco tutto ancora lieto di fogliame navigò pe ’l mare, fino ad un’isola dove i naturali erano uomini pieni di tumori e di gozzi, coperti di pelle squamosa, infetti d’una serpigine biancastra e d’una sorta d’elefanzía. Questa gente povera e pacifica non faceva uso del fuoco; e per lo più si nutriva di miele selvatico, di gomme, e dei nidi di certe rondini indigene che prolificavano nelle caverne.

Fu accolto Làimo con segni di gioia, e gli furono offerte patate dolci su foglie di palmizio. Ed egli, poi che per dono del Signore ebbe conoscenza di quell’idioma, parlava alli uomini e alle donne, come un apostolo, e pazientemente li ammaestrava in torno alle dottrine del Galileo. Milti infermi egli guarì per virtù di erbe e di fede; e a poco a poco andò liberando l’isola dal flagello della lebbra, purificò le scaturigini delle acque, diede insegnamenti su l’accensione del fuoco, su la coltivazione delle terre e su l’arte di edificare le case. Visse in grande umiltà e in grande sofferenza, espiando le antiche insanie, tormentato dai ricordi che per tutto gli facevano udire lamenti di feriti e di moribondi, vedere macchie di sangue su ’l suolo e ne ’l cielo.

Dopo lunga serie d’anni, quando i popoli dell’isola prosperavano nel lavoro e nel buon culto di Jesus, Làimo, che fuggiva la vita e che nulla alla vita omai chiedeva, fu preso d’un tratto da un infinito desiderio della patria. E poichè il buon Dio per segni manifestò d’esaudire la preghiera, egli salì su un tronco di banano ancora carico di frutti, e si affidò alle onde.

Dinanzi al debole sostegno si apriva il mare in calma; una torma di rondinelle indicava la via. E il vecchio santo veniva predicando ai pesci che tutti tenevano i capi fuori dell’acqua, e tutti in grandissima pace e mansuetudine e ordine lo seguivano. Diceva egli del Diluvio, e di Giona Profeta, e d’altri singolari misteri.

Come dopo cinquanta giorni apparve la patria, vide Làimo con molto dolore una deserta aridità aridità di arene su i luoghi anticamente ubertosi. Le rondini lo guidarono al paradiso del delta, ancora felice di piante e di animali.

Colà, su ’l fiore dell’erbe, egli si mise in ginocchio, per meditare, con le braccia levate al cielo e le palme supine; e tenendo quella divota attitudine, visse in un dolce rapimento d’estasi. Il tempo gli consumava su le ossa le carni; e le edere verdi gli si attorcigliavano per i fianchi, per il petto, per le braccia; lentamente i caprifogli lo abbracciavano, gli fiorivano in torno al collo, in torno ai polsi, in torno alle caviglie sottili. I capelli di lui bianchi cadevano; li occhi prendevano una durezza di pietra; nelli orecchi i ragni in pace tessevano la tela, e nella palma delle mani due rondinelle avevano fatto il nido.

Molte primavere così trascorsero; e il santo ancora viveva in estasi, poichè li uccelli pietosi scendevano dai rami a porgli le bacche selvagge nel cavo della bocca inaridita. Poi finalmente un giorno, su ’l vespero, l’anima volò al cielo tra i cantici delli angeli e il corpo si disfece in polvere come un’urna di creta.



Fine.

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