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TURLENDANA EBRO.
Quando egli bevve l’ultimo bicchiere, all’orologio del Comune stavano per iscoccare due ore dopo la mezzanotte.
Disse Biagio Quaglia, con la voce intorbidata dal vino, come i tocchi squillarono nel silenzio della luna chiarissimi:
‟Mannaggia! Ce ne vulemo i’?”
Ciávola, quasi disteso sotto la panca, agitando di tratto in tratto le lunghe gambe corritrici, farneticava di cacce clandestine nelle bandite del marchese di Pescara, poichè il sapor selvatico della lepre gli risaliva su per la gola e il vento recava l’odor resinoso dei pini dalla boscaglia marittima.
Disse Biagio Quaglia, percotendo con i piedi il cacciatore biondo, e facendo atto di levarsi:
‟’Jamo, Purié.”
E Ciávola con molto sforzo si rizzò dondolandosi, smilzo e lungo come un cane levriere.
‟’Jamo; ca mo fanne lu passo,” rispose, levando la mano verso l’alto, quasi in atto di auspicio, poichè forse pensava a una qualche migrazione di uccelli.
Turlendana anche si mosse; e, vedendo dietro di sè la vinattiera Zarricante che aveva fresche le gote e acerbe le poma del petto, volle abbracciarla. Ma Zarricante gli sfuggì di tra le braccia, gridandogli una contumelia.
Su la porta, Turlendana chiese ai due amici un po’ di compagnia e di sostegno per un tratto di cammino. Ma Biagio Quaglia e Ciávola, che facevano un bel paio, gli volsero le spalle sghignazzando e si allontanarono sotto la luna.
Allora Turlendana si fermò a guardare la luna che era tonda e rossa come una bolla pontificia. I luoghi in torno tacevano. Le case biancicavano in fila. Un gatto miagolava alla notte di maggio, su i gradini della porta.
L’uomo, avendo nell’ebrietà una singolare inclinazione alla tenerezza, tese la mano pianamente per accarezzare l’animale. Ma l’animale, essendo di natura forastico, diede un balzo e disparve.
Vedendo un cane errante avvicinarsi, l’uomo tentò di versare su quello la piena della sua benevolenza amorevole. Ma il cane passò oltre, senza rispondere al richiamo, e si mise in un canto del trivio a rosicare certe ossa. Il romore dei denti laboriosi udivasi distintamente nel silenzio.
Come dopo poco la porta della cantina si chiuse, Turlendana rimase solo nel gran plenilunio popolato di ombre e di nuvole in viaggio. E la sua mente rimase colpita da quel rapido allontanarsi di tutti li esseri circostanti. Tutti dunque fuggivano? Che aveva egli fatto perchè tutti fuggissero?
Cominciò a muovere i passi incertamente, verso il fiume. Il pensiero di quella fuga universale, a mano a mano ch’egli andava innanzi, gli occupava con maggiore profondità il cervello alterato dai fumi bacchici. Avendo incontrato altri due cani spersi, si fermò presso di loro quasi per esperimentare e li chiamò. Le due bestie ignobili seguitarono a strisciarsi lungo i muri, con la coda fra le gambe; e scantonarono. Poi, quando furono più lontani, si misero a latrare; e subitamente da tutti i punti del paese, dal Bagno, da Sant’Agostino, dall’Arsenale, dalla Pescheria, da tutti i luoghi luridi e oscuri i cani erranti accorsero, come a un suon di battaglia. E il coro ostile di quella tribù di zingari famelici saliva fino alla luna.
Turlendana stupefatto, mentre una specie d’inquietudine gli si svegliava nell’animo vagamente, riprese il cammino con passi più spediti, di tratto in tratto incespicando su le asperità del terreno. Quando giunse al canto dei bottari, dove le ampie botti di Zazzetta formavano cumuli biancastri simili a monumenti, egli sentì un interrotto respirar bestiale. E, poichè il pensiero fisso dell’ostilità delle bestie omai lo teneva, egli si accostò da quella parte, con una ostinazione di ebro, per esperimentare di nuovo.
Dentro una stalla bassa i tre vecchi cavalli di Michelangelo ansavano faticosamente su la mangiatoia. Erano bestie decrepite che avevano logorata la vita trascinando su per la strada di Chieti due volte al giorno la gran carcassa d’una diligenza piena di mercanti e di mercanzie. Sotto i loro peli bruni, qua e là rasati dalle bardature, le coste sporgevano come tante canne secche di una tettoia in rovina; le gambe anteriori piegate non avevano quasi più ginocchia; la schiena era dentata come una sega; e il collo spelato, dove a pena rimaneva qualche vestigio della criniera, si curvava verso terra così che talvolta le froge senza più soffio toccavano quasi le ugne consunte.
Un cancello di legno, malfermo, sbarrava la porta.
Turlendana cominciò a fare; — Ush, ush, ush! Ush, ush, ush! —
I cavalli non si movevano; ma respiravano insieme, umanamente. E le forme dei loro corpi apparivano confuse nell’ombra turchiniccia; e il fetore dei loro aliti si mesceva al fetore dello strame.
— Ush, ush, ush! — seguitava Turlendana, in suono lamentevole, come quando spingeva Barbarà ad abbeverarsi.
I cavalli non si movevano.
— Ush, ush, ush! Ush, ush, ush! —
Uno dei cavalli si volse e venne a mettere la grossa testa deforme su ’l cancello, guardando dalli occhi che rilucevano alla luna come ripieni d’una acqua torbida. Il labbro inferiore gli penzolava simile a un lembo di pelle flaccida, scoprendo la gengiva. Le froge ad ogni soffio ripalpitavano nel tenerume umidiccio del muso, e si schiudevano talvolta con la stessa mollezza d’una bolla d’aria in una massa di lievito che fermenta, e si richiudevano.
Alla vista di quella testa senile, l’ebro si risovvenne. Perchè dunque s’era empito di vino, egli così sobrio per consuetudine? Un momento, in mezzo all’ebrietà obliosa, la forma di Barbarà moribondo gli ricomparve dinanzi, la forma del camello che giaceva su ’l terreno e teneva su la paglia il lungo collo inerte e tossiva come un uomo e si agitava debolmente di tratto in tratto mentre ad ogni moto il ventre gonfio produceva il romore d’un barile a metà pieno d’acqua.
Una gran tenerezza pietosa lo invase; e l’agonia del camello, con quelle scosse improvvise e quelli strani singhiozzi rauchi che facevano sussultare e vibrare sonoramente tutto l’enorme carcame semivivo, e con quelli sforzi affannosi del collo che si sollevava un istante per ricadere su la paglia dando un romor sordo e grave mentre le gambe si movevano quasi in atto di correre, e con quel tremore continuo delli orecchi e quell’immobilità del globo dell’occhio che pareva già spento prima d’ogni altra parte sensibile, l’agonia del camello gli ritornò nella memoria lucidamente in tutta la sua miseria umana. Ed egli, appoggiato al cancello, per un moto macchinale della bocca seguitava a fare verso il cavallo di Michelangelo:
— Ush, ush, ush! Ush, ush, ush! —
Con la persistenza inconscia delli ebri, con una ebetudine crescente, seguitava, seguitava; ed era una lamentazione monotona, accorante, quasi lugubre come il canto delli uccelli notturni.
— Ush, ush, ush! —
Allora Michelangelo, che dal suo letto udiva, d’improvviso si affacciò alla finestra soprastante; e in furia si diede a caricar di contumelie e di imprecazioni il disturbatore.
‟Fijie di.... vatt’a jettà a la Piscare! Vatténne da ecche! Vatténne, ca mo pijie na varre. Fijie di.... a turmendà li cristiani vuo’ venì? ’Mbriache ’vrette! Vatténne!”
Turlendana si rimise a camminare, verso il fiume, barcollando. Al trivio dei fruttaiuoli una torma di cani stava in conciliabolo amoroso. Come l’uomo si appressò, la torma si disperse correndo verso il Bagno. Dal vicolo di Gesidio un’altra torma sbucò e prese la via dei Bastioni. Tutto il paese di Pescara, nel dolce plenilunio primaverile, era pieno di amori e di combattimenti canini. Il mastino di Madrigale, incatenato a guardia d’un bove ucciso, di tratto in tratto faceva sentire la sua voce profonda che dominava tutte le altre voci. Di tratto in tratto, qualche cane sbandato passava di gran corsa, solo, dirigendosi al luogo della mischia. Nelle case, i cani prigionieri ululavano.
Ora, un turbamento più strano prendeva il cervello dell’ebro. Dinanzi a lui, dietro a lui, in torno a lui, la fuga imaginaria delle cose ricominciava più rapida. Egli si avanzava, e tutte le cose si allontanavano: le nuvole, li alberi, le pietre, le rive del fiume, le antenne delle barche, le case. Questa specie di repulsione e di reprobazione universale lo empì di terrore. Si fermò. Un gorgoglio prolungato gli moveva le viscere. Subito, nella mente scomposta, gli balenò un pensiero. — Il lepre! Anche il lepre di Ciávola non voleva più restare con lui! — Il terrore gli crebbe; un tremito gli prese le gambe e le braccia. Ma, incalzato, discese fra i salici teneri e le alte erbe su la riva.
La luna piena, radiante, spandeva per tutto il cielo una dolce serenità nivale. Li alberi s’inclinavano in attitudini pacifiche alla contemplazione delle acque fuggitive. Quasi un respiro lento e solenne emanava dal sonno del fiume sotto la luna. Le rane cantavano.
Turlendana stava quasi nascosto tra le piante. Le mani gli tremavano su i ginocchi. D’improvviso, egli sentì sotto di sè muoversi qualche cosa di vivo: una rana! Gittò un grido, si levò, si diede a correre traballando, per mezzo ai salici, in una corsa grottesca ed orrida. Pel disordine de’ suoi spiriti, egli era atterrito come da un fatto soprannaturale.
A un avvallamento del terreno cadde, bocconi, con la faccia su l’erba. Si rialzò a gran fatica, e stette un momento a riguardare in torno li alberi.
Le forme argentee dei pioppi sorgevano immobili nell’aria, taciturne; e parevano inalzarsi fino alla luna, per un prolungamento chimerico delle loro cime. Le rive del fiume si dileguavano indefinite, quasi immateriali, come le imagini dei paesi nei sogni. Su la parte destra li estuari risplendevano d’una bianchezza abbagliante, d’una bianchezza salina, su cui ad intervalli le ombre gittate dalle nuvole migratrici passavano mollemente come veli azzurri. Più lungi, la selva chiudeva l’orizzonte. Il profumo della selva e il profumo del mare si mescolavano.
‟Oh Turlendana! ooooh!” gridò una voce, chiarissima.
Turlendana, stupefatto, si volse.
‟Oh Turlendanaaaaa!”
E Binchi-Banche apparve, in compagnia di un finanziere, su ’l principio di un sentiero praticato dai marinai tra il folto dei salci.
‟Addó vai a ’st’ora? A piagne lu camelo?” chiese Binchi-Banche avvicinandosi.
Turlendana non rispose subito. Si reggeva con le mani le brache, teneva le ginocchia un po’ piegate innanzi; e nella faccia aveva una così strana espression di stupidezza e balbettava così miserevolmente che Binchi-Banche e il finanziere scoppiarono in grasse risa.
‟Va, va,” disse l’omiciattolo grinzoso, prendendo l’ebro per le spalle e incamminandolo verso la marina.
Turlendana andò innanzi. Binchi-Banche ed il finanziere seguitavano a distanza, ridendo e parlando a voce bassa.
Ora la verdura terminava e incominciavano le sabbie. Si udiva mormorare la maretta alla foce della Pescara.
In una specie di bassura arenosa, tra due dune, Turlendana sì incontrò con la carogna di Barbarà non ancora sepolta. Il gran corpo, tutto spellato, era sanguinolento; le masse adipose della schiena anche erano scoperte ed apparivano d’un colore giallognolo; su le gambe e su le cosce la pelle rimaneva con tutti i peli e i dischi callosi; nella bocca si vedevano i due denti enormi, angolosi, ricurvi della mandibola superiore e la lingua bianchiccia; il labbro di sotto era, chi sa perchè, reciso; e il collo somigliava ad un tronco di serpente.
Turlendana, in conspetto di quello strazio, si mise a gridare scotendo la testa. Faceva un verso singolare, che non pareva umano.
— Ahò! Ahò! Ahò! —
Poi, volendo chinarsi su ’l camello, stramazzò; si agitò invano per rialzarsi; e, vinto dal torpore del vino, rimase senza conoscenza.
Binchi-Banche e il finanziere, come lo videro cadere, sopraggiunsero. Lo presero, l’uno da capo e l’altro da piedi; lo sollevarono, e lo adagiarono lungo su ’l corpo di Barbarà, atteggiandolo a un abbracciamento d’amore. Sghignazzavano i due operando.
E così Turlendana giacque co ’l camello, sino all’aurora.