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SANTA TERESA
Io mi sono innamorata di santa Teresa nove anni or sono, in un giorno di giugno. Sovra l’azzurro, profondo golfo di san Giovanni d’Acri ridea la beltà di un pomeriggio d’Oriente: ed il verde, florido, olezzante promontorio del Carmelo vi si avanzava, in curva dolce, eterna promessa di benedizione ai naviganti che gli tendono le braccia, dalle tolde, mentre per l’aer lieve risuona fievolmente l’Ave, maris stella. Avevo visitato, un po’ prima, quanto si può visitare di un bianco e maestoso convento, di carmelitani francesi, les pères Carmes, la cui primaria fatica mistica mi parve quella di fabbricare un’acqua di melissa, la rinomata eau de Melisse des Carmes, ottima contro i deliquii, le emicranie ed altri piccoli malesseri del corpo umano: la seconda loro fatica, non meno importante e pesante della prima, mi era parsa quella di vendere varie, molte, innumerevoli bottiglie e bottigliette dell’ottimo liquore a chiunque salisse nel loro monastero. Così, malgrado la magnificenza architettonica dell’edificio con le sue ampie terrazze di marmo, malgrado il giardino attraente per i fiori più belli, malgrado tutto il profumo della campagna intorno, coltivata ad erbe odorifere ed aromatiche, il mio spirito si era inaridito, la mia anima era diventata di pietra, al contatto di quel laboratorio chimico e di quell’andirivieni di bottigliette, dalle scansie alle mani dei pellegrini, previo il giusto pagamento. Volli andarmene: ma con la coscienza inflessibile del viaggiatore osservatore, che non è mai soddisfatta, chiesi se null’altro vi fosse da vedere. Mi dissero che vi era una chiesa sotterranea, una cripta scavata nella roccia, dove, forse, Elia aveva dimorato romitamente, rapito nelle estreme sue estasi di profeta: e che, in questa cripta, in questo piccolo tempio, sotterra, vi si conservasse un ritratto di santa Teresa. Un custode discese innanzi a me, nella chiesa deserta, per una ripida scaletta, egli tacendo, io tacendo; e, con atto macchinale, tirò un panno leggiero ed oscuro, una cortina, che celava il ritratto di Teresa de Cepeda.
La Grande Carmelitana, in quella antichissima opera d’arte, è dipinta in grandezza naturale, seduta in un seggiolone, presso una larga tavola. Le bianche bende nascondono il capo, metà della fronte, la gola, chiudendo il volto, come nell’involucro di una mandorla aperta: tutto l’abito cela la persona eretta e non rigida; solo una piccola mano bianca e chiusa appare dall’ampiezza di una manica, si poggia sul tavolo, tenendo fermo un manoscritto. Nel volto ovale, di linee perfette, sotto due fini sopracciglia nere, ardono due occhi bruni, fieri, pensosi: sovra la bocca chiusa, è il suggello della fierezza e del pensiero: e la mano ha l’attitudine della calma dominazione, non posata sul globo terrestre, come quella dei re, non sullo scettro, come quella delle regine, non sull’elsa della spada, come quella degli eroi, ma sovra una carta, sovra la regola del Carmelo, che ella ebbe ispirata da Dio, e che ella dette alla fede, alla religione, al mondo, avvincendovi, esaltandovi migliaia e migliaia di anime. Oh, gli occhi mirabili di quel ritratto, gli occhi che hanno letto nel Cielo e che hanno letto nella propria anima, i meravigliosi occhi di pensiero e di vita, di contemplazione e di desiderio, quale fluido possente, spirituale, emanavano, in quell’ora solinga, in una cripta muta, in un paese lontano e sconosciuto, ad una povera anima vagabonda, lontana, oscura, ignota! Oh, quella mano candida e serrata, quella mano che aveva pregato e che aveva scritto, quella mano che aveva operato, nel nome del Signore, che aveva comandato, nel nome del Signore, quella breve mano, quale forza esprimeva ancora, sempre, dopo quattrocento anni, ad una creatura debole e caduca, come sono tutte le creature umane, se non le sorregga un’alta energia spirituale! E un altro convento mi venne in mente, che avevo visto un mese avanti, nelle mie peregrinazioni; un convento sorgente sul monte degli Ulivi, di fronte al monte Sion; un convento di donne, di carmelitane scalze, il convento del Pater noster: cioè una casa bianchissima, tutta chiusa, dalle finestre sbarrate da graticci, tutta immersa in un silenzio che dura da diecine e diecine di anni, dove mai nessuno appare, dove si vaga nel cortile, nel chiostro, nella chiesa, senza mai incontrare alcuno; dove, sulle mura del chiostro tacito, ove risuonano, singolarmente, i passi degli estranei, dei curiosi, dei devoti, è scritto, nel marmo, il Pater noster, in quarantotto lingue. Quante monache vi sono dentro? Niuno lo sa. — In qual tempo vi entrarono? S’ignora. Quante ne morirono, quante ne sopravvivono? Nulla; non si conosce nulla. Due converse coltivano il giardino, all’alba, al tramonto, nettano i marmi del chiostro: poi, spariscono; e nessuno le incontra mai, nessuno le vede mai. Nel convento del Pater noster, sono le figlie di Teresa, le sue figlie più dilette: le carmelitane che si dànno all’assoluta clausura, sempre poche in un convento, immerse nella preghiera, senza contatti estranei, morte al mondo, il mondo finito per esse, viventi in una costante orazione: le carmelitane scalze, le esistenze gittate ai piedi di Dio, in una dedizione infinita, in un oblio infinito. Oh, è inutile tendere l’orecchio alle mura del convento del Pater! è inutile acuir gli occhi per le grate! è inutile chiedere o aspettare risposta! Sotto la mano bianca e chiusa di Teresa de Cepeda, è ferma la regola scritta, la regola austera, alta, suprema, che affascina le anime amorose e contemplative, che conquide i cuori pietosi ed eroici, e che innalza queste anime, questi cuori, sopra ogni debolezza, sovra ogni miseria, sovra ogni errore. Ah, distenda pure il custode, novellamente, la bruna cortina davanti al volto d’avorio della Santa spagnuola; e spariscano gli occhi ardenti che incendono il sangue ad estremi eroismi dello spirito; e sparisca la mano che tanto volle e che tanto operò; e il piroscafo salpi dalle acque infide di Soria; e fuggano i porti; e fugga il tempo; e sieno varie le venture: chi, in un momento di profonda comprensione, abbracciò e chiuse nel profondo intelletto la potenza di una vasta mente muliebre, chi ebbe, fulmineamente, la misura di una vita sublime e di un’opera magnifica, non dimenticherà giammai colei che impersonò tutte queste cose stupende, colei che è una delle glorie più splendide della Spagna, colei che è una delle glorie più fulgide dell’eterno femminile!
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Ma il mondo sonnecchia torpidamente, nell’ignoranza. Le opinioni ereditarie, i giudizi ed i pregiudizi tradizionali, le frasi fatte, convenzionali, tutto quello che tutti dicono e che tutti ripetono, comodamente e stupidamente, per non darsi la pena di trovare e di pronunciare qualche cosa di nuovo e di personale, questa mortale pigrizia e questa mortale volgarità, governano ed opprimono il pensiero della folla. Se chiedete ad un credente, sia egli tiepido o freddo nel suo spirito religioso, che pensi, che sappia di santa Teresa, egli assumerà subito un contegno di uomo esperto e vi risponderà, immancabilmente: Santa Teresa? Una passionale. Se, viceversa, ne parlate ad uno scettico, ad un miscredente, ad un indifferente, costui, a sua volta, prenderà un aspetto importantissimo e proclamerà: Santa Teresa? Una isterica. D’altronde, un antico artista, pieno di talento, pieno d’immaginazione, ma assai profano e forse sacrilego, il Bernini, ci ha lasciato in una chiesa di Roma, in santa Maria della Vittoria, una statua di santa Teresa in estasi, così singolarmente interpretata, da dar ragione ad ambedue le frasi convenzionali, tanto quella che dichiara santa Teresa una passionale, quanto quella che sostiene santa Teresa una isterica. E quale intelligenza, salvo quella di religiosi suoi illustratori, quasi tutti appartenenti al clero, si è presa la pena di mettere in una luce di verità la fanciulla d’Avila? E quali lettori devoti hanno scorso, per conoscere la verità su costei, questi libri? E chi, chi ha letto con curiosità, con interesse e, infine, con entusiasmo, i libri che ella ha scritti, onde risulta tutta la sua vita e tutta la sua opera? Chi ha mai tentato di popolarizzare, con la penna, una vita che ha percorso tutte le altezze morali e che creò tutto un novello mondo dello spirito, intorno a sè e dopo di sè? Quale storico, quale critico, quale poeta ha fatto per questa donna che fu in Ispagna, la rivale trionfante di Martin Lutero e che sbarrò dai Pirenei, il passo alle profonde e invadenti eresie; chi per lei ha fatto quello che cento simili scrittori fecero per san Francesco d’Assisi? Quello che Anatole France sta compiendo per Giovanna d’Arco, quello che Karl Huysmans ha compiuto per santa Lydvinne, chi vorrà compiere per santa Teresa di Gesù? II mondo si contenta di chiamarla una passionale, e basta. La passione! Noi abbiamo per la passione una profonda reverenza, non priva di curiosità, di sgomento e di sfiducia. La passione è una grande forza, bizzarra, impreveduta, incalcolabile, di forme sorprendenti e fatta per interrompere, spesso felicemente, spesso infelicemente, i piani matematici dell’esistenza; ma è anche una forza cieca ed oscura, di cui nulla può frenare l’irrompere, e questo irrompere è spesso un disastro morale, è uno sconvolgimento d’ogni bene sociale, è un naufragio irreparabile della coscienza. Come tutte le cose di questa terra, la passione ha in sé tutti i germi della vita, ma anche tutti i germi della morte: la passione non vive intensamente che a spese della propria vita, come il misterioso personaggio della Peau de chagrin di Onorato de Balzac; più essa è forte e più essa è breve; più è ardente e meno è tenace; più è clamorosa e meno è profonda; più è impulsiva e più è dissolvente. E le opere della passione portano in sè il suggello indelebile della forza larga, vasta, ma impetuosa e incomposta che le creò: sono opere belle e seducenti, affascinanti, anche perchè inaspettate, anche perchè svariate, anche perchè originali, ma di cui l’esistenza è breve, molto più breve se il grande alito di fuoco che, divampando, diede loro il segno di vita, viene a perire. La passione ha i suoi martiri ed i suoi eroi, degni di ammirazione profonda ed anche d’invidia, poichè seppero uscire dalle norme comuni, dalle leggi comuni, ed intravvidero e fecero intravvedere cento liberi voli nei firmamenti del pensiero e del sentimento: noi la consideriamo come una delle più possenti energie dell’anima umana, e la sentiamo necessaria, e l’orrore che essa c’inspira, talvolta, è mescolato al fascino con cui essa ci vince. Ma non diamo alla passione maggiori meriti e maggiori trionfi di quelli che essa annovera. Quello che Teresa d’Avila fece, non si fa solo per passione. Sentite, rapidamente, la sua vita. Ella nasce da una nobilissima famiglia spagnuola: ha dei buoni e pietosi genitori, il cui solo grande peccato, pare, è il peccato simpatico e perdonabile a tutta la Spagna, cioè l’orgoglio. Anche Teresa è orgogliosa, e lo sa, e di questa profonda tendenza della sua anima castigliana, per tutta la vita, si mortifica, si punisce, umiliando materialmente e moralmente la sua esistenza, in tutte le forme, sino alla morte. A nove anni, già desiderosa di contemplazione e di solitudine, costruisce nel giardino di casa un romitorietto, come per giuoco infantile, e vi va a passare le sue ore; a undici anni, fugge di casa con un suo fratellino, allo scopo di andare a predicare la religione di Cristo, fra i mori miscredenti; e uno zio riporta a casa i due fanciulli, smarriti sulle rive di un fiume. Dopo i quindici anni lo spirito religioso si inaridisce nel suo cuore: ella è abbandonata dalla grazia e dalla fede: diventa mondana, vanitosa, frivola: si fa corteggiare, amoreggiare: è per perdersi; ma non si perde. Tanto che il padre, temendo per l’onore di sua figlia Teresa, da niuno custodito, poichè egli era diventato vedovo, e da molti insidiato, si decide di chiuderla in un monastero, a diciassette anni. Ella vi va, malvolentieri; le sue lotte interiori diventano gravi, poichè da una parte la vita monastica le fa orrore, dall’altra il suo spirito è già tocco dalle attrazioni della contemplazione; e il suo vividissimo ingegno già scorge tutta la larghezza di un’esistenza, dedicata solo alle elevazioni dell’anima. Dopo un anno e mezzo, esce dal convento, incerta, titubante, confusa ed ammalata: va in una villeggiatura, e, di lontano, il monastero comincia ad attirarla di nuovo, con tanta maggior forza, finchè ella si decide a farsi monaca. Ma la sua decisione non è assoluta: l’amore del mondo, l’amore dei parenti, le combattono nel cuore, ogni giorno, con la sua vocazione: alle lotte intime si uniscono le lotte esteriori della sua famiglia, che non vuole lasciarla monacare: il suo cuore è straziato, ma la sua volontà si fa sempre più ferma, fino a che ella vince, con una vittoria dolorosissima, ogni ostacolo, ed entra nel monastero delle carmelitane di Avila, all’età di diciannove anni. Ella scrive, nella sua Vita: «Ricordo benissimo, e con verità lo dico, che nell’uscire di casa di mio padre, provai siffatto dolore, che mi parve tutte le ossa mi si disgiungessero». Nè, sul principio della vita monastica, la sua vocazione si afferma profonda; l’amor di Dio è ancora troppo fievole; le tristezze di Teresa sono amarissime; ella è scontenta di ogni cosa, sovratutto di sè. Come vedete. Teresa d’Avila non è una passionale, quando si dà al Signore; non cade ai piedi del trono celeste, fulminata da amore divino; non è invasa; non è invasata; non è una frenetica; non è una isterica. È, viceversa, un’anima bella, sincera, salda, pensosa, osservatrice, che si lascia convincere a poco a poco; che si lascia conquistare a poco a poco; che si dà, oltre che col cuore, con la ragione; che si abbandona, non solo col sentimento, ma con la logica spirituale; che è vinta non da impressioni esteriori, ma da lunghe cogitazioni intellettuali. Non solamente i suoi occhi mortali sono abbagliati, ma le oscurità della sua anima hanno lasciato penetrare, lentamente, la luce divina: ed ella non ama come i grandi passionali, senza giudicare: ella ama, come tutti i grandi innamorati, dopo aver giudicato. E quando lo spirito religioso ha preso un possesso completo dell’animo di Teresa, abbastanza tardi, cioè cinque o sei anni dopo la sua vestizione, ella non si chiude nelle solinghe ed egoistiche contemplazioni della sua Divina Maestà, come ella chiama il Signore, ma sente il bisogno, con la parola scritta, di propagare il suo mistico segreto spirituale, di propalare l’altezza e la dolcezza di questa dedizione a Dio. Essa comincia a scrivere. Credete voi che nei volumi che la sua mano dettò, dai primi sino agli ultimi, dalla sua Vita alle Lettere, dalla Via della perfezione al Castello Interiore, vi sia la traccia di una follia, di una frenesia? In nessuno! Mentre la prosa dei suoi biografi e de’ suoi commendatori è, spesso, esagerata e fastidiosa; mentre bisogna cercare la figura vera di santa Teresa attraverso un gravame di trasfigurazioni rettoriche, ciò che è uscito dalla sua penna, giunto sino a noi, è di una chiarezza, di una nitidezza, di un equilibrio perfetto. Giammai, in un libro di donna ed in un libro di religione, io ho trovato un senso così giusto della misura; giammai una maggior semplicità nella profondità; giammai una nobiltà più grande nella umiltà dello spirito. Anche negli slanci tenerissimi verso Iddio, verso Gesù, verso la Madonna, anche quando la sua anima forte e pura freme di entusiasmo, ella non diventa mai leziosa; ella non si sdilinquisce, l’esaltazione del suo amore, ha qualche cosa di profondamente verace e serio. Le sue non sono parole accumulate, moltiplicate, per nascondere la parvità di un sentimento; ma è un sentimento vivido e leale, che trova la forma più efficace per esprimersi. Teresa non solo ha sentito intensamente quanto ha scritto, ma i moti naturali del suo animo sono passati attraverso il crogiuolo di un alto intelletto osservante e giudicante; ma la essenza sentimentale del suo cuore ha trovata la figurazione netta ed energica, nelle parole che meglio potevano renderla. È piaciuto a coloro che scrivono da orecchianti, inserendo una frase, ogni tanto, a proposito di Teresa, nelle loro scritture, di dipingerla come una pazza, balbettante motti incomposti ed incoerenti, ai piedi del Crocefisso: quale errore e quale tradimento! Teresa non è una foglia trasportata dal vento; Teresa non è un istrumento sonoro, ma vuoto, che renda solo l’armonia che ne trae una mano abile, Teresa è una forza personale, Teresa è una volontà libera, Teresa è una coscienza!
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E per questo la sua vita di preghiere e di contemplazioni finisce per non bastarle più; ella ha bisogno di effondere, oltre sè stessa, questo immenso amore del Divino; ella sente la necessità di comunicare il suo ardore ad anime tiepide e timide; ella vuole che tutte le creature realmente desiderose di una vita di solitudine e di orazione, trovino modo di compiere questo voto spirituale. L’ordine del Carmelo, a cui Teresa appartiene e che sant’Alberto aveva fondato, è diventato fiacco e inquinato da tutte le correnti mondane, dai costumi medesimi spagnuoli, di quel tempo: le monache sono troppe, in ogni monastero: pregano, è vero, ma pettegoleggiano; vanno a mattutino, ma ricevono visite; hanno fatto voto di umiltà, ma sono fierissime del loro nome, della parentela, delle loro aderenze; hanno fatto voto di povertà, ma vogliono vivere bene e lo pretendono, perchè hanno portato una ricca dote. Teresa d’Avila sogna, da anni, la riforma del Carmelo: sogna dei piccoli monasteri, in città piccole e tranquille, in sobborghi deserti e silenziosi, in campagne abitate solo da agricoltori; sogna, in questi monasteri, la riunione di poche monache, semplici, povere, volenterose di tutte le fatiche, anche più servili e di tutte le mortificazioni della superbia; sogna una regola austera, ma soave, veramente lontana dal mondo, veramente distaccata da ogni contatto estraneo, veramente passata in orazione interiore ed esterna. Ella comincia ad agire, ed i più terribili ostacoli le si frappongono. Tutto il Carmelo mitigato insorge contro essa: ad ogni piè sospinto ella è accusata di superbia, di malefizio, d’ambizione: ella è denunziata all’Inquisizione, al Re, al Papa: e linea per linea, passo per passo, con la pazienza e con l’energia, con la tenacia e con la fiducia, Teresa tiene testa a tutti i suoi nemici, nel clero e nel secolo. Invano, i santi spagnuoli, suoi contemporanei, san Pietro di Alcantara, san Giovanni della Croce, san Ludovico Bertrando, san Francesco Borgia, la sostengono, la difendono: invano, poichè sono anche essi travolti, nella lotta.... Due o tre volte, Teresa d’Avila è sottoposta al giudizio dell’Inquisizione: e si salva. Due o tre volte, ella è condannata a restare prigioniera nel proprio convento e, una volta, per quattro anni: e supera la pruova. Intanto, lentamente, la riforma del Carmelo si va imponendo: Teresa ha una tale forza di volontà e di intelletto, che smonta gli ostacoli più spaventosi. Ella vince l’Inquisizione, ella vince il Nunzio Apostolico, ella vince il Re, ella convince il Papa! In venti anni, gli ultimi venti anni della sua vita, ella fonda, nei paesi più lontani e più inaccessibili della Spagna, diciassette conventi di carmelitane scalze. Accanto alle grandi lotte, vinte contro tutti i poteri della terra, ella trova le miserie, le tristezze, le torture del dover creare, far costruire, organizzare le sue fondazioni: i disagi dei viaggi, l’ostilità dei nuovi paesi ove arrivava, la diffidenza dei sacerdoti, la mancanza di denaro, l’asprezza delle stagioni, l’invidia delle altre istituzioni, il fastidio che ella dava ai ricchi ed ai gaudenti. Questi venti anni sono, per Teresa, una lunga battaglia con le cose e con le persone, con gli elementi e con i fatti umani: i venti anni così agitati, così tormentati, e così proficui di ogni bene, che rappresentano la sua gloria terrestre più degna! Tutta l’Europa è agitata dai Luterani e dai Calvinisti: solo la Spagna ne resta incolume: solo nella Spagna nasce, fiorisce, diventa singolarmente possente, un ritorno delle anime alla Chiesa di Cristo, nella sua più perfetta forma: solo la Spagna realizza il sogno mistico di una novella regola cristiana e cattolica, che con la preghiera, con l’apostolato, con l’esempio, domini ed esalti le popolazioni. Questo fece Teresa d’Avila, più valorosa di un generale che abbia vinto dieci battaglie, più grande di un eroe, che abbia dato la vita per la salvezza e la grandezza della sua patria! Povera, già vecchia, malata, perseguitata, ella andava di paese in paese, con due o tre monache che l’accompagnavano: e aveva sempre pronta la mente, il cuore, la persona a vincere la dura guerra che ognuno cercava di muoverle; e trovava le case, trovava i denari, trovava le anime; e non voleva mai essere nominata priora di nessun suo convento; e, vissutavi un anno, vistolo messo sotto la benedizione e sotto la grazia del Signore, ne partiva, per andare altrove; e nei tempi che si tratteneva nelle sue fondazioni, si occupava a scrivere, con una rapidità, con una facilità, che ella, nella sua umiltà, attribuiva completamente all’ispirazione di Dio! Quando già ventuno case sono fondate di carmelitane scalze e di carmelitani scalzi, quando pare che la sua grande opera sia compiuta, a un tratto la sua riforma corre il massimo ed estremo pericolo e, sul finire della sua vita, ella è novellamente carcerata, è carcerato san Giovanni della Croce: i suoi monasteri debbono essere disciolti ed il suo ordine distrutto. Ebbene, è in quel periodo di tribolazioni, che ella, la donna invincibile, scrive quel Castello Interiore, quell’ammirabile libro di psicologia che cento vigorosi intelletti maschili non avrebbero saputo dettare, così vi si palesa una dottrina profonda ed elevata delle cose ascetiche; così il pensiero vi è sempre uno, armonioso, forte; così la forma letteraria ne è chiara, elegante, bellissima. Quando il Castello Interiore è finito, anche la riforma del Carmelo è scampata da ogni periglio; e, dopo due, tre anni, santa Teresa muore in Alba, nel monastero da lei fondato, e ove, malgrado la stanchezza e la infermità, si era recata, per obbedire a’ suoi superiori. Quando ella si spegne, dalle sue labbra estenuate potrebbe uscire il Nunc dimittis: ella ha realizzato tutto il suo sogno e ha dato forma viva a tutte le sue visioni. Ha vinto, non senza travaglio, prima sè stessa e poi la indifferenza e la crudeltà del mondo: la sua dedizione a Dio, non è stata un suo sterile piacere spirituale, ma un sentimento operoso ed efficace: i doni del suo intelletto, ella li ha fatti fruttificare per il bene altrui: la forza della sua volontà, ella la ha adoperata per il bene altrui; ella non ha voluto, solo essa, glorificare il Signore, ma ha voluto che migliaia d’anime lo glorificassero; ella non ha voluto salvarsi sola, ma che migliaie di anime con lei, dopo di lei, si salvassero. Il cinque di ottobre del 1582 Teresa d’Avila può morire contenta. Ella, come tutte le anime grandi, tentò di fare il suo dovere verso Dio e verso gli uomini, ed ha fatto oltre il suo dovere, e la sua opera ha sorpassato lo spazio ed il tempo.
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E voi che mi leggete, siete, forse, io lo spero, tutti credenti, credenti un poco, molto, o moltissimo, in un Dio di giustizia e di bontà: e fra voi tante, tanti, forse, avrebbero preferito una vita lontana dai rumori mondani, in soave contatto spirituale con l’Inconoscibile: e, senza forse, tante, tanti, fra voi, provarono, in un minuto della esistenza loro, il ribrezzo di tutte le cose orrende, e di tutte le cose mediocri che affliggono la umanità. Ma nessuno di voi, nessuno di noi, oramai, si murerebbe in un convento, solo per pregare. Tutto è cangiato: non la fede, ma la manifestazione esteriore della fede; non la religione, ma il modo di esercitarla; non l’amore del Signore, ma la maniera di praticarlo; non l’amore del prossimo, ma le sue tendenze novelle. Il sentimento dei nostri doveri umani, è diventato più rude e più pesante; le nostre responsabilità verso noi stessi, verso la famiglia, verso la società, si son fatte più austere e più rigorose; la solidarietà umana, nelle tristezze e nelle consolazioni, è diventata così vasta, che serra il mondo. Ah, non ci è più dato, e Dio non lo permette, forse, di fuggire i vani clamori della folla, di fuggire le tentazioni e le lusinghe, di fuggire le battaglie e le sconfitte, per chiuderci in un candido chiostro taciturno, sino alla morte! Dio non lo permette, e vuole che noi sopportiamo tatto quanto vi è di disperante, nei fatti umani, con gli occhi fissi in una divina speranza, verso cui camminiamo securamente; vuole che noi la combattiamo, tutta, la nostra guerra, senza disertare, saldi di un lungo coraggio, forti di una fiducia che non crolla; vuole che tutte le pruove che egli ci invia, nel suo alto volere, siano da noi subita, con spirito di umiltà, di rassegnazione, senza ribellione e senza abbattimenti; vuole che noi viviamo nella vita e non fuor della vita! Gli stessi ordini religiosi si sono profondamente ed organicamente trasformati, secondo i tempi; e se viene diminuendo il numero delle creature che si dedicano solo alla contemplazione e alla orazione, dovunque aumenta il numero delle monache che fanno della loro pietà, della loro fede, della loro carità, un esercizio quotidiano, in pro dei loro fratelli, dello loro sorelle. Non più le celle chiuse, ma i viaggi in missione, nei paesi più lontani del mondo, per portare la parola del Cristo a creature che la ignorano, che la ignorerebbero sempre; non più le celle chiuse, ma gli ospedali, le scuole, le case dei malati, i campi di battaglia, i tuguri dei poveri; non più le celle chiuse, ma dovunque sia malattia, guerra, sterminio, estrema miseria, estremo dolore; dovunque l’opera umana, nel nome di Dio, possa portare un lenimento, un conforto. Ed esse sono claustrate, ancora, le monache moderne, ma si sono formate un chiostro, nella vita del loro spirito; ancora, esse sono povere, umili, distaccate dai piaceri, distaccate dalle gioie, ma esercitano queste virtù tra la folla, esempio di forza ed esempio di dolcezza; ancora esse pregano, ma esse agiscono; ancora esse sono le serve del Signore, ma il Signore disse loro di servire, con la presenza, con l’amore, i dolori del mondo; ancora esse sono le nostre sorelle, in Gesù, ma le nostre sorelle attive, operose, efficaci, inviate a noi nelle ore più dolenti, per bendare le ferite e per asciugare le lacrime, per rialzare il nostro coraggio e per riaffermare la nostra fede. E se Teresa de Cepeda rivivesse, in mezzo a noi, se ella riapparisse nelle sue vesti oscure e nelle sue bianche bende di Carmelitana, ella bacerebbe in fronte, per amore e per benedizione, tutte queste monache così diverse da essa, così simili ad essa, che patiscono, che muoiono, con un eroismo che pochi riconoscono, che solo Iddio premia. E se fra noi, profani, fra noi che non possiamo neppur questo fare, fra noi che chiediamo la parola che dà il vigore, poichè spesso le nostre anime sono smarrite e perdute; se fra noi, sofferenti, tristi, deboli, che ci aggiriamo senza luce e senza guida, nelle tenebre del dolore e dell’errore; se, fra noi, la grande Santa di Spagna ricomparisse, noi udremmo da lei la frase suprema, la frase che fiammeggia nella sua opera e nella sua vita, la frase che onora i suoi templi e che glorifica il suo ricordo: Aut pati, aut mori.
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O soffrire o morire. E noi non vogliamo più soffrire. Giammai la ricerca della felicità fu più ansiosa, più affannosa: giammai la gente si agitò tanto, in tutti i ceti sociali e in tutte le parti del mondo, per trovare questa felicità. Non vogliamo più soffrire. Gli studii degli scienziati, le scoperte degli inventori, le fatiche elette e le fatiche ignote, non tendono ad altro che a rendere la vita più gradita, più comoda, più piacevole: e oserei dire che persino le elucubrazioni dei filosofi sono dirette allo scopo di trovare, nel ciclo morale, un assetto ove la nostra anima insoddisfatta si quieti. Nessuno vuole più patire, nè dolori fisici, nè dolori morali: nè l’operaio, cui fu assegnato un posto oscuro nel mondo ed un lavoro penoso; nè la gran signora che deve mettere al mondo un figliuolo; nè il malato che deve subire un’operazione; nè il giovanotto che deve crearsi una via, nella esistenza; nè la giovanetta che deve lavorare per i suoi genitori; nè la giovane donna che fu destinata a povere nozze; nè il padre che ebbe una lunga progenitura; nè l’uomo politico cui tramontò la fortuna; nè lo scrittore cui toccarono i morsi della calunnia e della invidia: questi e altri, tutti quanti si lagnano, si lamentano, sono insofferenti, sono ribelli, perchè non vogliono patire. E sempre i termini si scambiano, stranamente, fatalmente: tutti costoro e tutti gli altri credono che la felicità consista nel piacere; credono che la felicità consista nell’appagamento di tutti i desiderii di gioie sensuali e di soddisfazioni personali, nell’appagamento di tutti i bisogni di vanità, d’ambizione, di lusso; credono che la felicità sia il trionfo quotidiano e tangibile di tutti i sensi; e poichè questo non è la felicità, e poichè tutto ciò non si raggiunge mai, o un sol minuto, e poichè niuno vuol farne senza, ricomincia questo affanno terribile, in cerca della reputazione, della ricchezza, della gloria. Nessuno vuol patire: e per non patire, quando il dolore giunge, i giovani, che dico, oh indicibile orrore, i ragazzi si suicidano; per non patire, si parte per lunghi viaggi, cancellando le proprie tracce; per non patire, i parenti disertano i letti degl’infermi; per non patire, i ricchi non visitano le case dei poveri; per non patire, si sciolgono i nodi dell’amicizia, si violano i giuramenti dell’amore, si calpestano le sacre promesse dell’onore, si frangono i vincoli del sangue, si dimentica il caro suolo della patria, si dimentica il caro volto materno! Nessuno vuole patire e tutti vogliono godere: tutti vogliono arricchire, senza lavorare; tutti vogliono riuscire, senza affaticarsi; tutti vogliono ottenere, per favore, quello che solo il merito può strappare alla fortuna; e mentre il desiderio è bruciante, la volontà è fiacca, mentre la cupidigia è violenta, la tenacia manca, mentre il premio fa delirare, non vi sono le forze per raggiungerlo. Chi, chi mai, entrando nella vita, pensa e sa quanto la vita sia un lungo e greve esercizio di lavoro, di costanza e di tacita energia? Quale uomo, avviandosi all’esistenza, si prepara alle sue lotte inevitabili? Quale uomo che non voglia vincere, oramai, senza esporre il suo petto ai colpi nemici? Quale donna, movendo i primi passi verso l’amore, verso le giuste nozze, verso la famiglia, che pensi, che sappia gli inevitabili travagli morali che l’attendono? Quale donna che non speri, non si sa perchè, non sa come, di esserne salva, per una eccezione che mai non si avvera? Ed ecco, tutto il criterio, sentimentale e morale, della vita è falsato. O soffrire, o morire! grida la grande donna di Avila. Ed ella sola ha ragione, ella sola è nel vero, ella sola ha compreso l’immenso segreto dell’ anima umana. O Dolore! O Dolore, forma ideale, purissima, celeste, che discendi nella compagine umana, chi dirà mai i tuoi prodigi mirabili? O Dolore, tu sei l’ospite Incomparabile, che batti, alle porte del cuore, che batti alle porte dell’anima, e le dischiudi impetuosamente, e ti assidi in noi, aspro, rovente, e ogni cosa di noi travolgi, e tutto distruggi, e tu solo esisti, e tu solo grandeggi in noi, imponente e solenne, maestoso, o Dolore! L’anima designata, in cui tu metti il tuo trono spirituale, sente, ad un tratto, moltiplicarsi tutte le sue energie, ed esaltarsi tutta la sua possanza: e le cime inaccesse, così vicine al Divino, sono toccate in una vertigine di strazio e di pianto. Ove tu prolunghi la tua dimora, o Dolore, le grettezze, le bassezze, le trivialità che contristano e deturpano l’uomo, spariscono innanzi alla tua grandezza: e le più sconosciute virtù si fanno preclare, e innanzi alla luce del mondo e nel segreto del cuore, l’anima martirizzata si fa eroica. La storia dell’ umanità ti deve le sue pagine più belle, e il debito di gratitudine verso di te, o Dolore, o forma più efficace e più alta della vita, non si scioglierà giammai. Beati coloro che piangono, dice Nostro Signore, nell’indimenticabile e indimenticato sermone sulla montagna, ed egli stesso si dedica nella sua essenza umana al patimento ed al martirio. O soffrire o morire, esclama santa Teresa, e chiede la grazia di poter patire, di poter piangere; chiede la grazia di sfuggire alla freddezza, alla indifferenza, alla viltà; chiede la grazia di veder provata la sua tenacia nel sapere soffrire bene, la sua ostinazione nel tutto sopportare, la sua fermezza incrollabile. O giorni in cui piangemmo, o giorni memorabili, assai più profondi, nel cuore, di quelli che ci dettero un fugace, un fallace sorriso, o giorni di pianto che foste il lavacro dei nostri errori e la purificazione delle nostre colpe! O belle lacrime lunghe e copiose, che saliste dal cuore agli occhi, come un maroso irresistibile; o lacrime che sgorgaste e copriste il nostro volto e portaste via, via, lontano, le perfidie ed i tradimenti, i propositi di vendetta e gl’inutili rimpianti, le amarezze dell’orgoglio e le ribellioni oltraggiose; belle lacrime, ove tutto il nostro essere parve si disciogliesse, dal suo nodo più tetro e, più truce; belle lacrime ove fuggì, via, via, per sempre, la parte peggiore di noi stessi; belle lacrime, voi, che ci salvaste, che ci liberaste, che ci redimeste! Chi non ha mai pianto, non ha vissuto: chi non piange, non è degno di vivere. Oh! apriamo le braccia al dolore, nel nome di Dio, e lasciamo che esso compia in noi la sua opera rigeneratrice: chiediamo di soffrire come Teresa chiedeva, e facciamo della sofferenza la nostra elezione e la nostra grandezza. Rammentiamoci che il dolore fu il pascolo dei martiri e l’alimento dei poeti; che esso fu la scuola dei grandi reggitori di popoli, ed il compagno segreto dei grandi uomini di Stato; che esso fu il creatore e l’animatore di mille atti virtuosi, di mille opere ammirevoli, di mille testimonianze di bene; che esso fu, è, la sorgente di ogni cristiana e civile pietà; che esso è la prima radice, la più rigogliosa della carità. Non fuggiamo la sofferenza e chiediamo di soffrire! E dentro di noi, fuor di noi, lasciamo che il patimento trasformi in luce tutto la oscurità della vita, e trasformi in oro puro tutta l’argilla della nostra compagine. Non respingiamo questo dono tremendo e meraviglioso, ma riceviamolo con obbedienza e con pace, ma onoriamolo con timore e con rispetto. E, invece di abbatterci e di smarrirci, cerchiamo, nel dolore, le novelle fonti di una esistenza migliore, più degna di noi, più degna del nostro nome di uomini e di cristiani. Che le lacrime non siano miserabili e vane; che lo strazio non sia arido e sterile; che l’angoscia non sia inutile. Fecondiamo il dolore! Diventi, in noi, attaccamento più saldo e più fedele alla religione dei nostri padri: coscienza, più rigida e più assoluta dei nostri molteplici doveri: amore dei nostri, della nostra, casa, più indulgente, più tenero, più perdonevole: amore del nostro prossimo, più pietoso, più caritatevole: esercizio più frequente e più serio di virtù che dimenticammo, che trasandammo: criterio della vita più umano, più misericordioso: aspettativa della morte più serena, più tranquilla. Fecondiamo il dolore! Facciamone della forza operosa ed utile; facciamone della bontà giudiziosa ed efficace; facciamone dell’affetto gentile e securo; facciamone del lavoro oscuro, ma necessario; facciamone del lavoro grande ed imperituro! Verrà giorno in cui, voltandoci indietro, vedendo il cammino asprissimo vittoriosamente percorso, sentendo in noi guarite soavemente tutte le ferite onde fummo insanguinati, notando l’umile bene sparso intorno a noi, guardando verso l’orizzonte, oltre l’orizzonte, ove ci aspetta il riposo, finalmente, finalmente, di chi molto si affaticò e molto travagliò, verrà giorno in cui ci accorgeremo di avere, con l’aiuto supremo, compiuto il miracolo: cioè, tratto tutto il Bene da tutto il Male, cioè, tratto dal dolore l’ultima sua essenza, la purissima gioia.
Conferenza pronunciata in Palermo il giorno venticinque Maggio 1902, nella gran sala del Liceo Vittorio Emanuele, a totale beneficio della Società. Margherita, pel patronato dei ciechi.