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Quinto Orazio Flacco - Satire (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Luca Antonio Pagnini (1814)
Libro I

Satira VIII
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Già un tronco er’io di fico, inutil legno,
Quando incerto l’artefice, se avesse
A formarne uno scanno od un Priapo,
Di farmi Dio s’elesse; e quinci io sono
5Un Dio sommo terror d’augelli e ladri.
Perocchè la mia destra, e il rosso palo,
Che spunta fuor dalle mie cosce immonde,
Tiene i ladri in dover, la canna affissa
Su la mia testa gl’importuni augelli

10Da quest’orto novel caccia e spaventa.
Già prima entro vil cassa i servi a prezzo
Feano recar quassù fuor delle anguste
Lor celle i corpi de’ compagni estinti.
Questo era fisso un dì comun sepolcro
15Al più meschino popolo, al decotto
Nomentano, a Pantolabo buffone.
Incisa pietra mille piedi in largo,
Trecento in lungo prescrivea all’avello,
Nè dritto alcun sovr’esso avean gli eredi.
20Or l’Esquilino colle offre alla gente
Salubre stanza, e bel passeggio aprico,
Dove prima apprestava a’ viandanti
Di bianche ossa insepolte un tristo campo.
Ma non tanta però fatica e pena
25Mi danno i ladri, e gli animali avvezzi
Questo luogo a infestar, quanto le streghe
Che travolgendo van gli spirti umani
Con venefici incanti. A nessun patto
Poss’io costoro distornar, nè poi ―
30Che in ciel mostrò la vagabonda luna
Suo bel volto, impedir, ch’esse qua dentro
Vengano a cor nocevol erbe ed ossa.
Ben io stesso qua vidi entrar Canidia

 Succinta in negra vesta, ignuda il piede,
35Scompigliata la chioma, alto ululando
Con Sagana la vecchia. Atro pallore
Avea sformato ad ambedue l’aspetto.
Si dierono a scavar con le unghie il suolo,
E un’agna nera a far co’ denti in brani.
40Iva il sangue a raccorsi entro quel fosso
Per trar fuori di là l’ombre de’ morti,
E pronte averne a’ rei desir risposte.
Due statuette vidi, una di lana,
Di cera l’altra. La maggior di lana
45Gravava la minor di pene e strazj.
Questa, come a perir fosse vicina,
In supplice e servile atto si stava.
Delle due maghe l’una Ecate, e l’altra
Tisifone crudel chiama in soccorso.
50Veduto avresti allor girar serpenti
E stigie cagne, e dietro a’ gran sepolcri,
Per non aver sott’occhio opre sì felle,
Cintia celar la rosseggiante faccia.
S’io punto offendo il ver, possano i corvi
55Mia testa caricar di bianco sterco,
E venga a suo piacer Volano il ladro,
La molle Pediazia e il sozzo Giulio

A scompisciarmi, ed a cacarmi addosso.
A parte a parte rimembrar che vale,
60Come l’ombre con Sagana gli accenti
Alternassero in tuono acuto e tristo?
Come le maghe con furtiva mano
Sotterra riponessero la barba
D’un lupo, e i denti di macchiata serpe?
65E come in larghe fiamme arsa perisse
L’immagine di cera? A cotai voci
E a sì orribile oprar delle due Furie
Testimonio non volli invendicato
Restar; ma le mie natiche di fico
70Spaccando fei scoppiar pari al fragore
Di vescica che crepi una coreggia.
Quelle inver la città di corsa andaro;
E non senza gran riso e gran sollazzo
A Canidia cader veduto avresti
75Di bocca i denti, e la posticcia chioma
A Sagana di testa, e fuor di mano
L’erbe raccolte, e gl’incantati lacci.



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