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Satira III
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Damasippo, Orazio.
Dam. Sì rado è il tuo compor, che neppur quattro
Volte in un anno intier carta addimandi,
Sempre intento a mutar gli antichi scritti,
E teco irato che soverchio amante
5Del vin, del sonno produr nulla sai
Degno di registrar ne’ tuoi sermoni.
Che sarà mai? Le saturnali feste
Tu già lasciasti per recarti in villa,
Deh qualche cosa or che qui sobrio vivi
10Udir ne fa, che tue promesse adegui.
Comincia. Invan le penna accusi, e incontro
L’innocente parete, a sdegno alzata
Di numi e vati, il tuo furor disfoghi.
Pure il tuo volto fea ben molte e grandi
15Meraviglie sperar, se mai tranquillo
E scioperato te raccolto avesse
Nel suo tepido sen la tua villetta.
Che valse teco addur Plato e Menandro
Ed Eupoli ed Archiloco raggiunti
20In bella compagnia? T’avvisi forse
Virtù fuggendo di placar l’invidia?
Ah misero, t’aspetta onta e disprezzo.
A te l’ignavia, perfida sirena,
Sbandire è d’uopo, o tollerar che tutta
25Pera la gloria de’ tuoi dì migliori.
Or. O Damasippo, quanti sono in Cielo
E Dei e Dee, per così buon consiglio
D’un barbier ti provveggiano. Ma dimmi,
D’onde tanta di me notizia avesti?
30Dam. Dacchè in piazza di Giano i miei tesori
Tutti vidi affondar, de’ proprj sgombro
A cuor mi prendo gl’interessi altrui.
Già mio diletto era cercar que’ vasi,
Entro i quali bagnar Sisifo scaltro
35I piè soleva, e di metalli e marmi
Scernere il pregio, e bene spesi avrei
Due mila scudi anche in un busto solo.
Nessun sapea acquistar con più vantaggio
Orti e palagi; talchè ognun chiamava
40Me di Mercurio prediletto figlio.
Or. Sollo, e stupisco ben, che di tal morbo
Tu sii guarito. Dam. Un nuovo mal l’antico
Mirabilmente discacciò; qual suole
Una doglia di celabro o di fianco
45A’ polmoni passar. Così chi dianzi
Di letargo pativa, or delirante
Fa di sgrugnoni al medicante dono.
Or. Purchè simili don tu non mi faccia,
Sii qual ti piace. Dam. Non ti prenda inganno
50O galantuom. Tu pur sei pazzo e pazzi
Pressochè tutti son, se il vero insegna
Il mio Stertinio, da cui questi appresi
E docile descrissi aurei precetti
Fin da quel giorno che co’ suoi conforti
55Me da Ponte Fabricio appien contento
Ritrasse indietro, e questa nutrir femmi
Filosofica barba. Avend’io tutti
Rovinati gli averi, e me nel fiume
Coverto il capo rovesciar volendo,
60Destro a me sopravvenne, e, ben ti guarda
Da tanta indegnità; t’istiga, ei disse,
Mal concetto rossor, se ti vergogni
Infra cotanti pazzi apparir pazzo.
Veggiamo in prima che cos’è pazzia?
65Se questa è solo in te, nulla soggiungo
Per distornarti dal perir da forte.
Chi da stolido affetto e da ignoranza
Del vero è spinto fuor del dritto calle,
Di Crisippo la scuola e il gregge tutto
70Pazzo il dichiara, e tal sentenza abbraccia
Popoli e sommi re, sol tranne il saggio.
Or senti come al par di te sien matti
Quelli che danno a te di matto il nome.
Come que’ che smarrita hanno in un bosco
75La via, chi qua chi là vansi avvolgendo,
E in varie parti un solo error gli mena,
Così te stesso delirante estima,
In modo tal però che nulla punto
È più saggio di te chi te deride,
80E dietro porta appesa anch’ei la coda.
Una razza di matti evvi che teme
Senza cagione e d’incontrar si lagna
Per piana via rupi, torrenti, e fiamme:
Altra diversa, e non però più sana,
85Si precipita in mezzo a fuochi e fiumi.
Padre e madre e sorella e moglie e amici
Gridin pur, bada a quel profondo fosso,
Bada a quel precipizio; ei non più sente
Di Fusio allor che pien di vin dormìa
90La parte d’Iliona, e non l’avrebbe
Riscosso il suon di mille Cazieni
Gridanti: Ah madre, il tuo soccorso imploro.
Che in tale error sia tutto il vulgo avvolto
Appien ti mostrerò. Privo è di senno
95Damasippo che compra antichi busti.
Ma saggio è forse chi danar gl’impresta?
Se ti dicesse alcun: Prendi una somma,
Ch’io mai da te non riavrò, saresti
Forse sciocco accettandola, e non anzi
100Più sciocco assai, se questa rifiutassi
Preda che a te Mercurio amico offerse?
Ti conduca al banchier perch’egli noti
Il debito contratto; aggiunga in oltre
Del cavilloso intrigator Cicuta
105Cento scritture e mille altre catene,
Tu Proteo iniquo ti saprai sgrupparne.
Se in giudizio ti tragge, i suoi travagli
Deriderai cangiandoti a tua voglia
In cinghiale, in augello, in pianta, in sasso.
110Se chi fa male i suoi interessi, è sciocco,
Chi ben gli fa, assennato; assai più guasto
Di te, mel credi, ha il celabro Perillo
Dandoti quel che non gli fia mai reso.
Or la toga assettandosi m’ascolti
115Chi d’albagìa o d’avarizia porta
Impallidito il volto. E voi che l’alma
Accesa di libidine o di trista
Superstizione o d’altro morbo avete,
Fatevi innanzi, e in ordinata schiera
120Udite me finch’io dimostro a tutti
Che frenetici siete e deliranti.
D’elleboro gran dose, e la maggiore
Che agli altri, si de’ porgere agli avari,
Se pur non voglia di ragione a questi
125Un’Anticira intera destinarsi.
Di Staberio gli eredi in su l’avello
Di lui segnar l’eredità lasciata.
Se non l’avesser fatto, erano astretti
Al popolo donar ben cento coppie
130Di gladiatori, e un pranzo a gusto d’Arrio,
E di più quanto grano Affrica miete.
O bene, o male, io così vo’. Nessuno
Faccia meco il dottor, credo dicesse.
Io però stimo che quell’uom prudente
135Vedesse.... E che mai vide? E qual prudenza
Mostrò volendo che scolpito fosse
Nel marmo sepolcrale il suo retaggio?
Finch’egli visse, povertà gran vizio
Ei reputò, nè verun’altra cosa
140Più di quella fuggì; tal che di vita
Se men ricco d’un soldo uscìa, temuto
Avrebbe d’infamarsi. E veramente
Alle belle ricchezze onore e fama,
Virtude, e quanto v’ha divino, umano,
145Tutto s’inchina, e quei che fenne acquisto
E’ illustre e valoroso e giusto e saggio,
E re pur anco, e tutto ciò ch’ei vuole.
Quindi sperò da sue ricchezze, come
Bel frutto di virtù, gran nome e vanto.
150Oh quanto mai da lui diverso il greco
Aristippo si fu, che gettar via
Fe nella Libia da’ suoi servi l’oro,
Perchè gli fea tal peso ir lenti e pigri,
Il più pazzo chi fu di questi due?
155Nulla un esempio val, per cui si scioglie
Una quistion col suscitarne un’altra.
Se in gran numero cetre alcun comprasse
Di cotal suono e d’ogni musica arte
Ignaro affatto, se trincetti e forme
160Chi non è calzolar, se vele e antenne
Chi dalla mercatura ha il cor lontano,
Cert’ei da tutti con ragion sarìa
Chiamato folle e scimunito. Or quale
V’ha differenza tra costoro e quello
165Che l’oro occulta, e non ne sa far uso,
Nè ardisce, qual se fosse a’ numi sacro,
Pur di toccarlo? Se talun disteso
Sempre per terra giorno e notte fesse
Guardia a un’immensa massa di frumento
170Con un lungo bastone, e quando ha fame
Egli padron non s’arrischiasse a torne
Pure un granello, e si cibasse parco
D’amare foglie; se riposti avendo
In sua cantina di Falerno antico
175E di Chio mille, anzi trecento mila
Baril, beesse un disgustoso aceto,
Se un di quasi ottant’anni in su lo strame
Dormisse, e pasto di tignuole e tarme
E coltrici e coperte entro una cassa
180Marcir lasciasse, pochi forse il nome
Darebbongli d’insano: e perchè mai?
Perchè un tal morbo ha quasi tutta infetta
L’umana stirpe. Ah tu da’ numi odiato
Vecchio, risparmi il tuo, perchè il divori
185Figlio o liberto divenuto erede?
O perchè non ti manchi il tuo bisogno?
Di quanto il giorno scemerai tuo stato,
Se il cavolo a condir d’olio migliore,
E se cominci di men vieto unguento
190Lo scarmigliato a untar tignoso capo?
S’è ver che basta a te qualsiasi cosa,
Perchè spergiuri, e della roba altrui
Fai spoglio e preda? E tu la mente hai sana?
Se al popolo e fin anche a’ tuoi famigli
195Compri a gran prezzo tu scagliassi pietre,
Tutti gridar ragazzi e putte udresti
C’hai perduto il cervel. Quando col laccio
La moglie uccidi e col velen la madre,
Hai sano in capo? E che? Tu non in Argo
200Nè col ferro fai ciò, come la vita
Tolse a sua madre il dissennato Oreste.
E credi tu che dopo questa uccisa
Egli perdesse il senno, e già dall’empie
Furie non fosse in frenesia sospinto
205Pria che tepido fesse il crudo brando
Nella materna gola? Anzi dappoi
Che dichiarato fu di mente guasta,
Nulla Oreste operò degno di biasmo
Non a Pilade fe, non ad Elettra
210Col ferro offesa, ma d’acerbi motti
Sol gravò l’uno e l’altra, a questa dando
Il titolo di furia, a quello i nomi
Che gli dettò la sublimata bile.
Opimio in mezzo a’ suoi tesor nascosi
215Meschino ognor, che in un campano orciuolo
Bevea acquerello i dì festivi, e gli altri
Putrido vin, da gran letargo oppresso
Fu sì che intorno alle sue chiavi e scrigni
Correa festoso e lieto omai l’erede.
220Destro medico e fido in cotal modo
S’avvisa di svegliarlo. A piè del letto
Rizza una mensa, e sacchi di monete
Sopra vi spande, e fa contarle a molti
Quivi presenti. Ei sì l’infermo scuote,
225E in un gli dice: Se non prendi cura
Della tua roba, or or la ti rapisce
L’erede ingordo. ― Me tuttor vivente?
― Sta dunque all’erta e di guarir t’ingegna.
― Che deggio far? ― Ti mancheranno i polsi,
230Se allo stomaco fiacco non appresti
Di largo nutrimento un buon rinforzo.
Su dunque mangia questo riso. ― E quanto
Costa? ― Poco. ― Ma pure? ― Otto bajocchi.
― Ahi che importa perir di morbo, oppure
235Di furto o di rapina? ― Or chi è dunque
Sano di testa? ― Chi non è stordito.
― E l’avaro com’è? Stordito e insano.
― Chi non è avaro, è poi di mente sana?
― Mai no. ― Perchè? ― Risponderò in quel modo
240Che Cratero farebbe. Havvi un malato
Che non ha duol di fegato. Sta bene
Forse per questo, e può di letto uscire?
No, ti dirà, perchè da male acuto
Son le sue reni tormentate o i fianchi.
245Sordido il tal non è, non è spergiuro.
Sveni un majale a’ suoi benigni Lari,
Ma perchè è pien d’ambizion, d’ardire,
Spieghi pur verso Anticira le vele.
Che differenza è tra ’l gittare il suo
250In cupo abisso, e il non usarne mai?
Il facultoso Servio Oppidio avea
Due poderi in Canusio, e tra due figli,
Che al suo letto chiamò vicino a morte,
Gli ripartì dicendo: Io da gran tempo
255Te, Aulo, ho visto dissipar le noci,
E giocarle e donarle a larga mano,
Te, Tiberio, contarle ad una ad una,
E affannoso riporle in qualche buca.
Quinci ho temuto non di voi s’indonni
260Pazzia diversa, e vi sospinga l’uno
A seguir Nomentan, l’altro Cicuta.
Ond’io vi prego per gl’iddii Penati
Che non iscemi l’un, nè l’altro accresca
Quanto a voi stima il genitor bastante,
265E Natura assegnovvi. Ambo dipoi
Astringo con solenne giuramento
A far che non v’adeschi amor di gloria.
Inabile a testare ed esecrando
Dichiaro quel che fia pretore o edile.
270E sarà ver che scialacquar vogliate
I vostri beni pazzamente in ceci,
Fave, e lupin, perchè si faccia largo
A voi nel circo, e rimanere ignudi
Delle sostanze e degli aver paterni
275Per comparire effigiati in bronzo?
E alcun di voi potrà qual volpe astuta,
Emula del magnanimo lione,
Que’ plausi sostener che fan le genti
Sonare intorno al valoroso Agrippa?
280Or a te passo Atride: E perchè, dimmi,
Del sepolcro l’onor neghi ad Ajace?
― Son Re ― Plebeo qual son più in là non cerco.
― Quel ch’io comando è giusto e s’evvi alcuno
Che giudichi altramente, io gli permetto
285Che senza tema il suo parer m’esponga.
― Sommo regnante, se a te il ciel consenta
Di ricondur dall’espugnata Troja
In salvo le tue navi, a me concesso
Dunque è parlarti e replicar pur anco?
290― Parla ― Per qual cagione Ajace, eroe
Dopo Achille il maggiore, a cui son tanti
Greci di lor salvezza debitori,
Insepolto marcisce, onde s’allegri
Priamo e la sua gente al veder privo
295Di sepoltura quel che tanta escluse
Gioventù frigia dal paterno avello.
― Ei diè morte impazzito a una gran mandra
Di pecore gridando che uccidea
Me con l’inclito Ulisse e Menelao?
300― E tu quando inuman la dolce figlia
In Aulide locasti innanti all’ara,
In vece d’immolare una vitella,
E farro, e sale in capo a lei spargesti,
Eri forse in buon senno? ― A che proposto?
305― Ajace insano, quando a terra stese
Quella greggia, che fe? Molte bestemmie
Contra gli Atridi profferì, ma nullo
Ei recò danno alla consorte o al figlio,
E non a Teucro, nè al medesmo Ulisse.
310― Ma io per distaccar da lido ostile
Gli affissi legni, accorto il Ciel placai
Col sangue. ― Col tuo sangue, o furibondo.
― Col mio; ma furibondo io no, non fui.
― Chiunque adotta immagini dal vero
315Discordi e miste di malnati affetti
È forsennato, nè divario alcuno
V’è che a mal far lo spinga ira o stoltizia.
Ajace impazza quando mette a morte
Greggia innocente, e tu la mente hai salda
320Quando per vani titolo dai mano
Con pieno accorgimento a un atto indegno?
Gonfio d’orgoglio un cor dal vizio è sgombro?
Se alcun volesse una lisciata agnella
Seco in lettiga, e le comprasse vesti
325Come a sua figlia, e fregi d’oro e serve,
Cento le desse leziosi nomi,
E un buon marito ancora le destinasse,
Certo il pretor levandogli il maneggio
Il darebbe in tutela a’ suoi parenti.
330E quei che in cambio d’una muta agnella
Sacrifica una figlia, ha intero il senno?
No certo. Colà dunque ove risiede
Il vizio sta quasi in suo trono insania.
Lo scellerato è furioso ancora:
335E chi da fama più che vetro frale
Tirar si lascia, attoniti e storditi
Dal furor di Bellona ha tutti i sensi.
Ora il lusso prendiam de’ Nomentani
A scandagliar. Ragion chiaro dimostra
340Che lo scialacquator non ha cervello.
Questi a pena al possesso entra dell’ampio
Suo patrimonio, fa bandir che tutta
La turba di Velabro e dell’infame
Toscano borgo, cucinier, buffoni,
345Venditori di pesce e salvaggina,
Giardinier, profumieri alla sua casa
Compajan l’indoman. Vengono in folla;
E per tutti il sensal così favella:
Signor, di quanto ho in casa mia, di quanto
350Hanno costoro, a tuo piacer disponi
Oggi, domani e sempre a tutte l’ore.
Egli pien d’equità così risponde:
Tu, perch’io ceni un buon cinghial, tra nevi
Lucane dormi co’ calzari in piede,
355Tu per me peschi alle tempeste in mezzo;
Ed io sono un codardo, indegno ah troppo
Di tanto ben. Su via to’ cento doppie,
E tu altrettante: a te vo’ dare il triplo,
Perchè tua moglie su la mezza notte
360Quand’io vorrolla, meco venga a veglia.
D’Esopo il figlio una solenne perla,
Che Metella si tolse dall’orecchio,
Stemperò nell’aceto, onde vantarsi
D’aver solo in un sorso trangugiate
365Più migliaja di scudi. Ei forse in questo
Più senno dimostrò, che se gittata
L’avesse in un torrente o in una fogna?
Di Quinto Arrio i figliuoli, egregia coppia,
Gemelli per goffaggine ed inerzia
370E per distorte voglie, alle lor mense
Rosignuoli imbandivano a gran prezzo.
Qual darem lor conveniente nome
Da notarsi con creta o con carbone?
Se un uom cercasse con la barba al mento
375Casucce edificar, sotto il carretto
I topi unir, giocare a pari e caffo,
Ir cavalcion sovra una lunga canna,
Ch’ei fosse rimbambito ognun direbbe.
Or se ragion ti proverà, ch’è cosa
380Più puerile ancor l’innamorarsi,
Nè differenza v’ha dal trastullarti,
Qual festi di tre anni, in su la polve,
Al lagrimar ne’ lacci avvinto e stretto
D’una bagascia, imiteresti forse
385Del cangiato Polemone l’esempio
Ponendo giuso manicin, fascette,
Collane, del tuo morbo aperti segni,
Come quello ubbriaco le ghirlande
Furtivamente tirò giù dal collo,
390Poichè sgridato dalle sagge voci
Fu del sobrio maestro? A un adirato
Fanciullo porgi un pomo, ei lo rifiuta.
Su prendilo, mio bene; egli nol vuole.
Se non gliel dai, di voglia se ne strugge.
395Qual è tra lui distanza e quel ch’escluso
Dalla sua bella bilanciando vada
S’ei rieda o no là dove andrebbe ancora
Non richiamato, e su l’ingrata porta
S’arresta. E neppur or che a sè m’appella,
400Fia che ad essa ritorni? E non è meglio
Ch’io mi risolva a terminar mie pene?
Mi cacciò, mi richiama. Ho da tornarvi?
No, se mi cada ancora supplice a’ piedi.
Ma un servo accorto più di lui: Padrone,
405Il vostro affar, gli dice, non ammette
Misura, nè ragione, e per tai modi
Vano è trattarlo. Amore ha nel suo regno
Or guerre, or paci. Chi a fissar tai cose
Mobili a guisa di procella e in cieco
410Alternare ondeggianti s’affatica
Nulla conchiude più che s’ei cercasse
Impazzir con ragione e con misura.
Se’ forse in te quando estraendo i semi
Dalle mele picene in cor t’allegri
415Se con essi a toccar giungi la volta?
E tu che nel palato annoso spezzi
Le blande parolette scilinguate,
Hai più giudizio di chi fa casucce?
Aggiungi a’ folli amor le stragi e il sangue.
420Mario che non ha guari Ellade uccise,
E poi giù si lanciò dalla finestra,
Fu forsennato? Oppur da questo biasmo
L’assolvi e il danni di crudel misfatto,
Dando alla cosa, com’è in uso, nomi
425Consimili e tra lor quasi parenti?
Un liberto pien d’anni iva girando
A stomaco digiuno e ben lavate
Le man di borgo in borgo ogni mattina,
A gran voce gridando: O dei, me solo
430Solo scampate dal poter di morte;
Che poco o nulla costa a voi tal grazia.
Ei d’ambe orecche ed occhi era ben sano,
Ma non per sano di cervel l’avria
Padrone esperto in litigar, venduto.
435Alla razza feconda di Menenio
Tal gente ancora è da Crisippo ascritta.
Dice una madre, che da quattro mesi
Tien di quartana infermo un figlio a letto:
Gran Giove, che ogni mal ne mandi e togli,
440Se dal febbril ribrezzo il mio bambino
Scampi, nel dì, che il tuo digiun prescrivi,
Del Tevere starà nell’acque ignudo.
Dal medico o dal caso è risanato;
La madre delirante col calarlo
445Giù dalla riva nella gelid’onda,
Se non l’affoga, gli rinnova il male.
Qual frenesìa sconvolse a lei la mente?
Vano timor de’ numi. ― Ecco di quali
Armi guernito m’ha Stertinio amico,
450E tra i saggi l’ottavo, affinch’io possa
Di chi m’insulta far le mie vendette.
Se alcun mi chiama pazzo, a lui risposta
Io farò per le rime, e saprà quali
Sciocchezze ignote porti al tergo appese.
455Or. Stoico, se il Ciel di ristorar tuoi danni
Ti dia vendendo cara ogni tuo merce,
Dimmi qual credi tu che in me pazzìa
(Giacchè ve n’ha più sorte) abbia radice.
A me sembra di star bene in cervello.
460Dam. Quando Agave portò reciso il teschio
Dell’infelice figlio al tirso infitto,
Forse credea d’aver perduto il senno?
Or. Sì, pazzo io sono, (abbia suo loco il vero)
E furioso ancor. Ma tu mi svela
465Sol di che morbo la mia mente è guasta.
Dam. Odimi. In prima hai di murar la smania,
E di lungo parer tu che due piedi
Hai di statura, e di Turbon ti ridi
Che mostri in giostra un portamento, un cuore
470Maggior della persona. Or ben sei forse
Tu men di lui ridicolo? E far quello
Che Mecenate fa pretende Orazio
Dissimil tanto? E gareggiar con lui
Tanto maggior di te non ti vergogni?
475D’un bue la zampa infranti avendo i figli
D’una ranocchia assente, un che salvossi
Corse alla madre, e le narrò che grossa
Belva schiacciati i suoi fratelli avea.
Ella cercò quant’era grande, e tutta
480Gonfiandosi diceva: è così fatta?
― No, molto più. ― E così? Vie più la madre
Gonfiando sè medesima, il figlio disse;
No, se tu crepi ancora, tu non l’agguagli.
Da te non lungi va questo ritratto.
485S’arroge che fai versi (e questo è un olio
Giugnere al fuoco), e s’ebbe mai giudizio
Uom che versi compose, ancora tu l’hai.
Io non rammento la tua rabbia orrenda.
Or. Ehi basta. Dam. Quel tuo lusso oltra le forze
490Esorbitante. Or. Damasippo, bada
A’ fatti tuoi. Dam. Mille amoracci. Or. O pazzo
Maggior di me, rispetta un ch’è minore.