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Quinto Orazio Flacco - Satire (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Luca Antonio Pagnini (1814)
Libro II

Satira VI
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Meta a’ miei voti era di campi un breve
Tratto, ove un orto fosse e un rio perenne
Vicino a casa e un po’ di bosco! I numi
Di più e di meglio diermi. Io gli ringrazio:
5Altro i’ non chieggo a te, figlio di Maja,
Sennonchè di tai doni il dolce frutto
Tu m’assicuri. Se con arti inique
Io gli aver non accrebbi, e se per vizio
E colpa mia non gli verrò scemando.
10Se a nessun mai di quegli stolti preghi
Scendo: ah mio fosse quel canton di terra
Che il poder mi sfigura; ah la fortuna
Scoprisse a me piena d’argento un’urna,
Come a colui che per favor d’Alcide
15Fattosi ricco d’un tesor trovato
Comprò quel campo ch’ei già prima a prezzo

Per altri arava: se contento e pago
Son di quanto possiedo, il gregge e ogni altra
Cosa fa’ pingue a me fuorchè l’ingegno,
20E sommo vegghia egnor su me custode.
Or ch’io mi son dalla città sottratto
In queste rupi, qual farà mia Musa
Primo subbietto a’ suoi pedestri carmi?
Qui non malnata ambizion mi strazia,
25Nè ferreo Noto, nè gravoso Autunno,
Che a Libitina ampio guadagno appresta.
O padre del mattino, o s’altro nome
T’è più gradito, o Giano, onde la gente
(Sì piacque a’ Numi) i suoi lavor comincia,
30Tu da’ principio a’ versi miei. Tu in Roma
A farmi altrui mallevador m’astrigni,
E a tale ufficio m’accalori e sproni,
Perchè in prontezza alcun non mi sorpassi:
E o le terre aquilon devasti e rada,
35O il verno adduca entro più stretto giro
I suoi nevosi giorni, andar conviene.
Poi quando ho fatto in suono aperto e chiaro
Tali proteste che mi fien di danno,
Aprir la folla e urtar m’è d’uopo i tardi,
40Più d’uno irato e brusco a me imprecando

Va mille mali: E tu che vuoi? Che tenti,
O strafalcion? Tu quando a Mecenate
Coi pensier voli, ogni ritegno atterri.
Dolce qual mele emmi udir questo, il giuro.
45Giunto ch’i’ sono all’atre Esquilie, sento
Salirmi al capo di negozj altrui
Una gran turba. Al tribunal domane
Dopo un’ora di sol comparir dei
Per istanza di Roscio. A me ricordo
50Fer gli scrivani di tornar quest’oggi
Per un comune affar di gran rilievo
E tutto nuovo. Mi pregò colui
Ch’io fessi suggellare a Mecenate
Questa scrittura. Proverò, gli dissi:
55Ei replicommi. È in tuo poter, se il vuoi.
Il settim’anno è corso a mano a mano
Presso all’ottavo, che allo stuol de’ suoi
Mecenate m’unì solo a quest’uso
Di seco avermi viaggiando in cocchio,
60E di fidare a me cotai segreti:
Quant’ore son? Vogliamo dir che il Tracio
Gallina potrà star col Siro a fronte?
Il freddo del mattin mordace offende
Chi non s’ha cura; e simil altre baje

65Da potersi deporre entro un orecchio
Forato come un vaglio. In tutto questo
Tempo io fui sempre più di giorno in giorno
Scopo all’invidia. L’uno all’altro dice:
Ehi quel nostro figliuol della Fortuna
70Con Mecenate dimorò in teatro,
Con lui si sollazzò nel campo Marzio.
Se dalla piazza per le vie si spande
Un debole romore, ognun che a sorte
In me si scontri, mi domanda: O caro,
75Tu dei saperlo, perchè a’ nostri Dei
Ti stai vicin, che nove hai tu de’ Daci?
― Nessun in vero. ― Di burlarne hai voglia.
― Che mi fulmini il Ciel se ne so nulla.
― Dinne, se Augusto assegnerà le terre
80― Promesse a’ suoi guerrier nella Sicilia
O dentro Italia? S’io protesto e giuro
Che ciò m’è ignoto, me qual uomo d’insigne
Secretezza profonda ognuno ammira.
In tai miserie il giorno intier si perde
85Non senza sospirar: Quando, o mia villa,
Ti rivedrò? Quando tra’ prischi libri,
Tra ’l sonno e l’ozio a me gustar fia dato
Di così amara vita un dolce obblìo!

O quando mi vedrà di pingue lardo
90Ben condite apparir sovra la mensa
Le fave di Pittagora parenti
Con altri eletti erbaggi? O notti o cene
Degne de’ numi! Quando sto co’ miei
Cibandomi dinanzi a proprj lari
95E a’ nati in casa orgogliosetti servi
Vo dispensando i delibati cibi.
Ciascun de’ convitati a suo buon grado
D’ogni indiscreta legge appien disciolto
Bee molto o poco. Altri la man distende
100Robusto alle gran giare, altri la gola
Inaffiar gode co’ mezzan bicchieri,
Non d’altrui case o ville unqua si parla,
E non se bene o mal Lepore danzi;
Ma ciò che giova all’uopo nostro, e nuoce
105Il non saperlo, a rintracciar prendiamo.
Se ricchezza o virtù faccia beati
I cuori uman; se l’utile o l’onesto
Ci tragga all’amistà; qual la natura
Del bene sia, e qual de’ beni il sommo.
110Fra tai discorsi acconciamente Cervio
Mio buon vicin sue novellette intreccia.
Per mo’ d’esempio se talun d’Arellio

Le affannose ricchezze ignaro esalta,
Così incomincia: Un topo di campagna
115Già diede alloggio entro sua cava angusta
A un topo di città suo vecchio amico.
L’albergator benchè tenace ed aspro,
Pure allargava agli ospitali ufficj
Il picciol cuor. Di sua dispensa in copia
120Trasse fuor ceci, avena, e con la bocca
Portando acini secchi, e rosicchiati
Pezzi di lardo si studiò con vario
Imbandimento d’espugnar la nausea
Di lui che l’uno dopo l’altro cibo
125Toccava appena col superbo dente.
E intanto esso padron cedendo all’altro
I migliori boccon su fresca paglia
Steso mangiava un po’ di farro e loglio.
Alfine il topo cittadin: che giova
130A te, gli disse, amico in dorso a questa
Rotta montagna dimorar penando?
Vorresti forse alle ferine selve
Tu gli uomini anteporre e le cittadi?
Vien meco, ah vieni: il mio consiglio abbraccia.
135Giacchè vita mortal tutti sortiro
Gli animali terrestri, e scampo alcuno

Nè il picciolo nè il grande ha dalla morte,
Dunque o mio caro, de’ tuoi giorno il corso
Breve rimembra, e finchè puoi, la vita
140Mena in grembo a’ piacer lieta e contenta.
Vinto da tai lusinghe il topo agreste
Agile salta fuor di casa. Entrambi
Ver la città si mettono in viaggio
Disiando rampar sovra le mura
145Chiusi fra l’ombre. Già la notte avea
Fatto mezzo il cammin, quando ambedue
Dentro ricca magion posero il piede.
Quivi splendeano sovra eburnei letti
Strati in porpora tinti, e molti avanzi
150Di sontuosa cena in bei canestri
Stavan riposti. Il cittadino topo
Fa l’agreste sedere agiatamente
Su porporin tappeto, e qual succinto
Servo qua e là discorre, e di vivande
155Copia incessante a lui dinanzi arreca,
Prima leccando, per seguir l’usanza
Cortigianesca, tutto ciò che appresta.
Quegli sdrajato si sollazza, e gode
Di sua mutata sorte. Ecco repente
160S’ode di porte un gran fragor, che feo

L’uno e l’altro balzar giuso da’ letti.
Paurosi girar tutta la sala,
E il terror crebbe, quando fero i cani
D’alti latrati rintronar l’albergo.
165Il topo agreste allor: Cotesta vita
Non fa per me. Te la rinunzio. Il bosco
E la mia tana da’ perigli immune
Di secche vecce mi faran contento.


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