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SATIRA I.
O cure umane! o quanto voto in tutto!
Chi leggerà tai ciance? P. Ehi, parli meco?
3A. Niun certo. P. Niuno? A. O niuno, o due: ve’ brutto
Caso. P. E perchè? Polidamante, e seco
Le nostre Troe von forse a Labeone
6Pospormi? Inezie. Se mi scarta il cieco
Quirin, tu nol seguir, nè opiníone
Storta in tal lance raddrizzar. Te stesso
9Cerca in te stesso: perciocchè di buone
Teste in Roma... Ah se il dir fusse permesso?
Ma permesso gli è sì, se l’invecchiate
12Barbe osservo, e il mal vivere d’adesso,
E tutto che facciam, quando lasciate
Le noci sputiam tondo: allora allora
15A chi satire scrive perdonate.
A. Nol posso. P. Che far dunque? Il riso fuora
Della milza mi scoppia. — In chiusa stanza
18Noi prosator, noi vati ad or ad ora
Qualche cosa scriviam d’alta importanza,
Che polmon largo aneli. — E tu bianchito
21Per nuova toga, e il crine in eleganza,
Indi la gemma natalizia al dito,
Quest’alte cose al pubblico cospetto
24Leggi eccelso, col gozzo ammorbidito
Dai gargarizzi, e con svenuto occhietto.
E i gran Titi vedrai girsene in guazzo,
27E smodarsi, e applaudir tutti in falsetto,
Come il verso ne’ lombi entra, e in gavazzo
Mette gl’imi precordj. E alle costoro
30Orecchie tu dai pasco, o vecchio pazzo?
All’orecchie di tai, ch’uopo t’è loro,
Benché sfrontato, gridar: basta? — Oh bella!
33Che val ch’io faccia del saper tesoro,
Se il fregolo che il corpo mi rovella,
Se questo caprifico con me nato
36Non sbuccia dalla rotta coratella?
— Ecco dunque il perché smorto e grinzato
T’ha lo studio! O costumi! E fia che resti
39Nulla il saper se altrui non è svelato?
— Bello è l’ir mostro a dito, e udir: gli è questì.
L’andar dettato a lezíon di cento
42Nobili intonsi per sì poco avresti?
— Ecco, tra il ber, di carmi aver talento
I satolli Quiriti; ecco un cotale,
45Che involto in giacintin paludamento
Ti balbutisce con voce nasale
Certi suoi rancidumi, e l’Issifile,
48La Fillide, o argomento altro ferale
Recitando distilla, e per sottile
Laringe invia la voce leziosa.
51Bravo! gridan gli eroi; bravo! gentile!
Or non è veramente avventurosa
Di quel vate la cenere? e su l’ossa
54Più lieve il cippo sepolcral non posa?
Non vuoi che l’ombra a quel plauso riscossa
Si ringalluzzi, e nascan le víole
57Dal fortunato rogo e dalla fossa?
Tu scherzi, mi rispondi, e non si vuole
Poi tanta muffa al naso. Ov’è chi sdegni
60Alte d’applauso popolar parole?
E lasciar versi, che di cedro degni
D’acciughe nè d’aromi abbian paura?
63O tu, chiunque io finsi a’ miei disegni
Avversario; non io, se per ventura
Scrivo alcun chè di meglio, (e raro uccello
66È questo meglio nella mia scrittura)
Non io temo la lode, chè baccello
Non son: ma dell’onesto io non colloco
69L’ultimo fin ne’ tuoi: oh bravo! oh bello!
Pesa quel bello: a che riesce il gioco?
L’Ilíade d’elleboro bríaca
72D’Azzio i’ non vengo a sdolcinar; tampoco
L’elegíuzze, che indigesto caca
Il patrizio, nè quanto altri in forbito
75Desco di cedro a scrivacchiar si sbraca.
In tavola tu sai caldo arrostito
Dar di scrofa il saíme, e al lodatore
78Morto di freddo un ferrajol sdruscito.
Parlami il ver, gli dici, ho il vero a core.
Come parlarlo? Il vuoi da me? La fogna
81D’un ventre sporto un piede e mezzo in fuore
Ti fa dir gofferie, che fan vergogna,
Vate spelato. Te felice, o Giano,
84Cui le terga beccò niuna cicogna;
Nè del ciuccio imitò mobile mano
L’orecchie, nè la lingua sizíente
87D’Apula cagna beffator villano.
Ma tu patrizio sangue, che veggente
Non hai la nuca, volgiti e t’invola
90Al rider che ti fa dietro la gente.
— Roma che dice. — Uh! che ha da dir? Che or cola
Molle il tuo verso, egual, liscio sì bene,
93Ch’aspra ugna non v’intacca: ogni parola
Tiri a fil di sinopia: o regie cene,
O il vizio biasmi, o il lusso, di gran lampo
96Febeo la Musa il suo cantor sovviene.
Ecco d’eroici sensi menar vampo
Cianciator grecizzante; e lo stivale
99Non sa un bosco schizzar, dire un bel campo,
Corbe, porci, capanne, e le di Pale
Fumanti stoppie; donde Remo uscío,
102E tu logrante al solco il vomerale,
Quinzio, cui la consorte ansia vestío
Nanti a’ buoi dittator, mentre il littore
105Riconducea l’aratro. Affedidio
Bravo poeta! V’ha chi scritta in core
Tien d’Accio la Briseide venosa;
108Tal altro di Pacuvio è ammiratore,
E dell’Antiope sua bittorzolosa
Il cor gramo soffulta di sventura.
111Or come vedi i lippi padri a josa
Insinuar ne’ figli esta lordura,
Chiedi tu donde viene alla favella
114Questa sì rancia del parlar frittura?
Questo smacco di stile, a cui la bella
Guancia lisciato, e di piacer furente
117Per le panche il zerbino ti saltella?
Orator di canuto e reo cliente,
Onta non hai del non saper salvarlo,
120Se non t’odi quel fiacco, egregiamente?
Se’ ladro, un dice a Pedio. A refutarlo
Pedio che fa? In antitesi a capello
123Libra i suoi furti. E allor lodarlo, alzarlo
Perchè ben pianta i tropi. Oh questo è bello!
Bello? ehi, Quirin! se’ forse in frega andato?
126E i’ movermi? io trar fuori il quattrinello
Se cantando mel chiede un naufragato?
Porti agli omeri il voto nelle rotte
129Vele dipinto, e canti, o sciagurato?
Pianga lagrime vere, e non la notte
Parate, chi a suoi lai mi vuole inchino.
132— Ma nerbo cresce e grazia alle mal cotte
Rime. — Oh! si vede. Il Berecinzio Atino,
Bella chiusa di verso! e mi s’accosta
135Quel che il glauco Nereo spacca delfino.
Cosi, sottrammo al lungo Apennin costa
Dolce assai. — Ma non è voto midollo
138Canto l’armi e l’eroe, e tutta crosta?
— Certo: un ramaccio in gran sughera frollo.
— Quali adunque son versi in tuo pensiero
141Molli, e da dirsi inflesso alquanto il collo?
Mimallonj rimbombi i corni empiero
Ritorti; ed Evio una Baccante intuona
144Presta a tagliar la testa a toro altero;
E la Menade insana, che scozzona
Coi corimbi la lince, Evio ripete;
147La reparabil Eco al suon risuona.
Or se scorresse in noi delle segrete
Pallottole paterne un solo spruzzo,
150Queste mattezze si farian? Vedete
Peregrino giojel, che sul labbruzzo
Nuota stemprato a fiore di saliva!
153Menade, e Atino in molle! e il poetuzzo
Nè scaffal batte, nè rode ugna viva.
A. Ma con mordace verità, chè vale
156Punger tenere orecchie? E se t’arriva,
Che si ghiaccin de’ grandi a te le scale?
Statti all’erta: la lettera canina
159Nei nasi illustri ringhia. P. Una cotale
Merce la sia per me dunque divina.
Non m’oppongo: allegría; tutti, sì tutti
162Siete versi stupendi. A. Or ben cammina.
P. Niun quì, dici, a sgravar l’alvo si butti:
E tu due serpi vi dipingi, e al piede:
165Pisciate altrove, è sacro il loco, o putti.
Me la batto. Ma che? Libero fiede
Lucilio la città; frange il sannuto
168Dente in Lupo, ed in Muzio: il pel rivede
Tutto al ridente amico suo l’astuto
Flacco, e per entro al cor ti scherza, esperto
171Nel sospender la gente al naso acuto.
E s’io fiato è delitto? nè coperto,
Nè manco dirla in buca èmmi permesso?
174A. No. P. Pur la voglio sotterrar quì certo.
Ho visto, ho visto, o mio libretto, io stesso:
Mida ha d’asin l’orecchie. Un cotal mio
177Rider da nulla, e mormorar sommesso
No con nessuna Iliade per dio
Nol baratto. O chiunque hai nelle vene
180Dell’audace Cratino il brulichío,
E d’Eupoli, e del gran vecchio d’Atene
Impallidisci su le carte irate,
183Guarda ancor queste, se per man ti viene
Cosa che vaglia. Orecchie vaporate
A quelle fonti io cerco, e cor di foco;
186Non lettor, che in iscarpe inzaccherate
Delle greche pianelle si fa gioco,
E vuoi dir losco al losco, e si dà prezzo,
189Chè fatto Edil municipal di poco,
Superbo dell’onor ruppe in Arezzo
Le false mine. Nè buffon dimando
192A schernir linee su la polve avvezzo,
E calcoli in lavagna; sghignazzando
Se proterva bagascia la severa
195Barba al Cinico svelle. Io costor mando
La mane in piazza, e al lupanar la sera.