< Semiramide
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Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO

SCENA I

Sala regia illuminata in tempo di notte. Varie credenze intorno con vasi trasparenti. Gran mensa imbandita nel mezzo con quattro sedili intorno ed una sedia in faccia.

Sibari e poi Ircano con ispada nuda.

Sibari. Ministri, al re sia noto

che giá pronta è la mensa. (parte una guardia)
  (E beva in questa
Scitalce la sua morte: è troppo il colpo
necessario per me. Scoprir potrebbe
la sua voce, il mio scritto
quanto Sibari un dí finse in Egitto).
Dove, signor? Qual ira (ad Ircano)
t’arma la destra?
Ircano.   Io vuo’ Scitalce estinto.
Additami dov’è.
Sibari.   Ma che pretendi?
Ircano. In braccio alla sua sposa
trafiggere il rival.
Sibari.   Taci, se brami
vederlo estinto: il tuo furor potrebbe
scomporre un mio disegno.
Ircano.   Io non t’intendo:
corro a svenarlo; e poi
mi spiegherai l’arcan. (in atto di partire)

Sibari.   Senti. (Ah! conviene

tutto scoprir.) Poss’io di te fidarmi?
Ircano. Parla.
Sibari.   Per odio antico
Scitalce è mio nemico; ed io... ma taci,
preparai la sua morte.
Ircano.   E come?
Sibari.   È certo
che Scitalce è lo sposo. A lui Tamiri
dovrá, com’è costume,
il primo nappo offrir: per opra mia
questo sará d’atro veleno infetto.
Ircano. Mi piace. E se m’inganni?
Sibari. (gli mostra un picciol vaso)  Ecco il veleno:
se nol porgo al rival, passami il seno.
Ircano. Saggio pensiero. Io tel confesso, amico,
te ne invidio l’onore.
Sibari.   Il re s’appressa:
t’accheta.


SCENA II

Semiramide, Tamiri, Mirteo, Scitalce, seguiti da paggi e cavalieri, e detti.

Semiramide.   Ecco, o Tamiri,

dove gli altrui sospiri
attendono da te premio e mercede.
(Io tremo e fingo.)
Tamiri.   Ogni misura eccede
la real pompa.
Mirteo.   E nella reggia assira
non s’introdusse mai
con piú fasto il piacere.
Semiramide. (a Scitalce)  Al nuovo sposo

io preparai la fortunata stanza,

pegno dell’amor mio.
Scitalce.   (Finge costanza.)
Ah! se quello foss’io,
chi piú di me saria felice?
Semiramide.   (Ingrato!)
Ircano. Come mai del tuo fato (a Scitalce)
puoi dubitar? Saggia è Tamiri, e vede
che il piú degno tu sei.
Mirteo.   Che ascolto! Ircano,
chi mai ti rese umano?
Dov’è il tuo foco e l’impeto natio?
Ircano. Comincio, amico, ad erudirmi anch’io.
Tamiri. Cosí mi piaci.
Mirteo.   È molto.
Scitalce. (a Tamiri ed a Semiramide) Io non intendo
se da senno o per gioco
parla così.
Ircano.   (M’intenderai fra poco.)
Semiramide. Piú non si tardi. Ognuno
la mensa onori; e intanto
misto risuoni a liete danze il canto.

Dopo seduta nel mezzo Semiramide, siedono alla destra di lei Tamiri, e poi Scitalce; alla sinistra Mirteo, poi Ircano: Sibari è in piedi appresso Ircano.

Coro.   Il piacer, la gioia scenda,

     fidi sposi, al vostro cor:
     Imeneo la face accenda
     la sua face accenda Amor.
Parte del coro.   Fredda cura, atro sospetto
     non vi turbi e non v’offenda;
     e d’intorno al regio letto
     con purissimo splendor
Coro.   Imeneo la face accenda,
     la sua face accenda Amor.

Parte del coro.   Sorga poi prole felice,

     che ne’ pregi ugual si renda
     alla bella genitrice,
     all’invitto genitor.
Coro.   Imeneo la face accenda,
     la sua face accenda Amor.
Parte del coro.   E se fia che amico nume
     lunga etá non vi contenda,
     a scaldar le fredde piume,
     a destarne il primo ardor,
Coro.   Imeneo la face accenda,
     la sua face accenda Amor.
Semiramide. In lucido cristallo aureo liquore,
Sibari, a me si rechi.
Sibari.   (Ardir, mio core!)
  (va a prendere la tazza e vi pone destramente il veleno)
Ircano. (Il colpo è giá vicino.)
Semiramide.   (Oh Dio! s’appressa
il momento funesto.)
Tamiri. (Che gioia!)
Scitalce.   (Che sará?)
Mirteo.   (Che punto è questo!)
Sibari. Compito è il cenno. (posa la sottocoppa con la tazza avanti a Semiramide, e va a lato d’Ircano)
Semiramide.   Or prendi,
Tamiri, e scegli. (dá la tazza a Tamiri)
  Il sospirato dono
presenta a chi ti piace;
e goda quegli il grande acquisto in pace.
Tamiri. Principi, il dubbio, in cui finor m’involse
l’uguaglianza de’ merti,
discioglie il genio, e non offende alcuno
se al talamo ed al trono
l’uno o l’altro solleva.
Ecco lo sposo e il re: Scitalce beva.
  (posa la tazza davanti a Scitalce)

Semiramide. (Io lo previdi.)

Mirteo.   (Oh sorte!)
Scitalce. (Ah, qual impegno!)
Sibari.   (Or s’avvicina a morte.)
Ircano. Via, Scitalce, che tardi? Il re tu sei.
Scitalce. (E deggio in faccia a lei
annodarmi a Tamiri?)
Tamiri. Egli è dubbioso ancora. (a Semiramide)
Semiramide. Alfin risolvi.
Scitalce.   E Nino
lo comanda a Scitalce?
Semiramide.   Io non comando:
fa’ il tuo dover.
Scitalce.   Sí, lo farò. (L’ingrata
si punisca cosí.) D’ogni altro amore
mi scordo in questo punto...
  (volendo bere, ma poi si arresta)
  (Ah, non ho core!)
Porgi a piú degno oggetto
il dono, o principessa: io non l’accetto.
  (posa la tazza sopra la mensa)
Tamiri. Come!
Sibari.   (Oh sventura!)
Ircano. (a Scitalce)  E lei ricusi, allora
che al regno ti destina?
Non s’offende in tal guisa una regina.
Semiramide. Qual cura hai tu, se accetta
o se rifiuta il dono? (ad Ircano)
Mirteo. Lascialo in pace.
Ircano. (a Semiramide)  Io sono
difensor di Tamiri; e tu non devi (a Scitalce)
la tazza ricusar: prendila e bevi.
Tamiri. Principe, invan ti sdegni: ei col rifiuto (ad Ircano)
non me, se stesso offende,
e al demerito suo giustizia rende.
Ircano. No, no; voglio ch’ei beva.

Tamiri.   Eh! taci. Intanto,

per degno premio al tuo cortese ardire,
l’offerta di mia mano
ricevi tu con piú giustizia, Ircano.
  (presenta la tazza ad Ircano)
Ircano. Io!
Tamiri.   Sì. Con questo dono
te destino al mio trono, all’amor mio.
Ircano. Sibari, che farò? (piano a Sibari)
Sibari.   Mi perdo anch’io. (piano ad Ircano)
Tamiri. Perché taci cosí? Forse tu ancora
vuoi ricusarmi?
Ircano.   No, non ti ricuso.
T’amo... Vorrei... Ma temo... (Io son confuso.)
Semiramide. Principe, tu non devi
un momento pensar: prendila e bevi.
Troppo il rispetto offendi
a Tamiri dovuto.
Mirteo. Ma parla.
Tamiri.   Ma risolvi.
Ircano.   Ho risoluto.
  (s’alza e prende la tazza)
Vada la tazza a terra! (getta la tazza)
Scitalce. E qual furore insano...
Ircano. Cosí riceve un tuo rifiuto Ircano.
Tamiri. Dunque ridotta io sono
a mendicar chi le mie nozze accetti?
Dunque per oltraggiarmi
in Assiria veniste? Il mio sembiante
è deforme a tal segno,
che a farlo tollerar non basta un regno?
Semiramide. È giusta l’ira tua.
Mirteo.   Dell’amor mio
dovresti, o principessa...
Tamiri. (s’alza e seco tutti)  Alcun d’amore
piú non mi parli. Io sono offesa, e voglio

punito l’offensor: Scitalce mora.

Ei col primo rifiuto
il mio dono avvilí. Chi sua mi brama,
a lui trafigga il petto:
venga tinto di sangue, ed io l’accetto.
          Tu mi disprezzi, ingrato; (a Scitalce)
     ma non andarne altero:
     trema d’aver mirato,
     superbo! il mio rossor.
          Chi vuol di me l’impero,
     passi quel core indegno:
     voglio che sia lo sdegno
     foriero dell’amor. (parte)


SCENA III

Semiramide, Scitalce, Mirteo, Ircano e Sibari.

Semiramide. (Il mio bene è in periglio

per essermi fedel.)
Ircano.   Scitalce, andiamo:
all’offesa Tamiri
il dono offrir della tua testa io voglio.
Scitalce. Vengo; e di tanto orgoglio
arrossir ti farò. (in atto di partire con Ircano)
Semiramide.   (Stelle, che fia!)
Mirteo. Arrestatevi, olá! l’impresa è mia.
Ircano. Io primiero al cimento
chiamai Scitalce.
Mirteo.   Io difensor piú giusto
son di Tamiri.
Ircano.   Ella di te non cura,
né mai ti scelse.
Mirteo.   Ella ti sdegna, offesa
dal tuo rifiuto.

Ircano.   E tu pretendi...

Mirteo.   E vuoi...
Scitalce. Tacete: è vano il contrastar fra voi.
A vendicar Tamiri
venga Ircano, Mirteo, venga uno stuolo:
solo io sarò; né mi sgomento io solo.
  (in atto di partire)
Semiramide. Férmati. (Oh Dio!)
Scitalce.   Che chiedi?
Semiramide.   In questa reggia
sugli occhi miei Tamiri
il rifiuto soffrí: prima d’ogni altro
io son l’offeso, e pria d’ogni altro io voglio
l’oltraggio vendicar. Qui prigioniero
resti Scitalce, e qui deponga il brando.
Sibari, sia tuo peso
la custodia del reo.
Scitalce.   Come!
Sibari.   Che intendo!
Semiramide. (Cosí non mi paleso e lo difendo.)
Scitalce. Ch’io ceda il brando mio!
Semiramide. Non piú; cosí comando, il re son io.
Scitalce. Cosí comandi! E parli
a Scitalce cosí? Colpa sí grande
ti sembra il mio rifiuto? Ah! troppo insulti
la sofferenza mia. Qui potrei farti
forse arrossire...
Semiramide.   Olá! t’accheta e parti.
Scitalce. Ma qual perfidia è questa? Ove mi trovo?
nella reggia d’Assiria o fra i deserti
dell’inospita Libia? Udiste mai
che fosse piú fallace
il Moro infido o l’Arabo rapace?
No, no: l’Arabo, il Moro
han piú idea di dovere;
han piú fede tra loro anche le fiere. (getta la spada)

          Voi, che le mie vicende,

     voi, che i miei torti udite,
     fuggite, sí fuggite:
     qui legge non s’intende,
     qui fedeltá non v’è.
          E puoi, tiranno, e puoi (a Semiramide)
     senza rossor mirarmi?
     Qual fede avrá per voi
     chi non la serba a me? (parte con Sibari)


SCENA IV

Semiramide, Ircano e Mirteo.

Semiramide. (Conoscerai fra poco

che son pietosa e non crudel.)
Mirteo.   Perdona,
signor, s’io troppo ardisco: il tuo comando
Scitalce a un punto e la mia speme oltraggia.
Ircano. Perché mi si contende
il trionfar di lui?
Semiramide.   Chi mai t’intende?
Or Tamiri non curi, ed or la brami.
Mirteo. Ma tu l’ami o non l’ami?
Ircano. Nol so.
Semiramide.   Se amavi allor, come in te nacque
d’un rifiuto il desio?
Ircano.   Cosí mi piacque.
Mirteo. Se ti piacque cosí, perché la pace
or mi vieni a turbar?
Ircano.   Cosí mi piace.
Mirteo. Strano piacer! Dell’amor mio ti fai
rivale, Ircano, ed il perché non sai?
Ircano. Quante richieste! Alfine
che vorreste da me?
Semiramide.   Da te vorrei
ragion dell’opre tue.

Mirteo.   Saper desio

qual core in seno ascondi.
Semiramide. Spiégati.
Mirteo.   Non tacer.
Semiramide.   Parla.
Mirteo.   Rispondi.
Ircano.   Saper bramate
          tutto il mio core?
          Non vi sdegnate;
          lo spiegherò.
          Mi dá diletto
          l’altrui dolore;
          perciò d’affetto
          cangiando vo.
               Il genio è strano,
          lo veggo anch’io;
          ma tento invano
          cangiar desio:
          l’istesso Ircano
          sempre sarò. (parte)


SCENA V

Semiramide e Mirteo.

Mirteo. Vedi quanto son io

sventurato in amor. Un tal rivale
a me si preferisce.
Semiramide.   A tuo favore
tutto farò. Ti bramerei felice.
Mirteo. Come goder mi lice
la tua pietá?
Semiramide.   Ti maravigli, o prence,
perché il mio cor non vedi:
va’; piú caro mi sei di quel che credi.

Mirteo.   A te risorge accanto

     la speme nel mio sen,
     come, dell’alba al pianto,
     su l’umido terren
     risorge il fiore.
          Se guida mia si fa
     l’amica tua pietá,
     non temo del mio ben
     tutto il rigore. (parte)


SCENA VI

Semiramide.

Di Scitalce il rifiuto

è una prova d’amor. Questa mi toglie
de’ tradimenti suoi
l’immagine dal cor; questa risveglia
le mie speranze, e questa
mille teneri affetti in sen mi desta.
T’intendo, Amor: mi vai
la sua fé rammentando, e non gl’inganni.
Quanto facile è mai
nelle felicitá scordar gli affanni!
          Il pastor, se torna aprile,
     non rammenta i giorni algenti;
     dall’ovile all’ombre usate
     riconduce i bianchi armenti,
     e le avene abbandonate
     fa di nuovo risonar.
          Il nocchier, placato il vento,
     piú non teme o si scolora;
     ma contento in su la prora
     va cantando in faccia al mar.
  (parte col séguito de’ cavalieri e paggi)


SCENA VII

Appartamenti terreni.

Ircano, trascinando a forza Sibari.

Ircano. Sieguimi; invan resisti.

Sisari. Ma che vuoi?
Ircano.   Che a Tamiri
discolpi il mio rifiuto.
Sibari.   E come?
Ircano.   A lei
scoprendo il ver. Tu le dirai ch’io l’amo;
che, per non ber la morte,
la ricusai; ch’era la tazza aspersa
di nascosto velen; che tua la cura
fu d’apprestarlo...
Sibari.   E pubblicar vogliamo
un delitto comun? Fra lor di colpa
differenza non hanno
chi meditò, chi favorí l’inganno.
Ircano. D’un desio di vendetta
voglio esser reo, non d’un rifiuto. Andiamo.
Sibari. Senti. (Al riparo.) Io parlerò, se vuoi;
ma col parlar scompongo
un’idea piú felice.
Ircano.   E qual?
Sibari.   Non hai
pronte tu su l’Eufrate a’ cenni tuoi
navi, seguaci ed armi?
Ircano.   E ben che giova?
Sibari. Ai reali giardini il fiume istesso

bagna le mura, e si racchiude in quelli

di Tamiri il soggiorno: ove tu voglia
col soccorso de’ tuoi
l’impresa assicurar, per tal sentiero
rapir la sposa e a te recarla io spero.
Ircano. Dubbio è l’evento.
Sibari.   Anzi sicuro. Ognuno
sará immerso nel sonno; a quest’insidia
non v’è chi pensi; incustodito è il loco.
Ircano. Parmi che a poco a poco
mi piaccia il tuo pensier; ma non vorrei...
Sibari. Eh! dubitar non déi; fidati. Io vado,
mentre cresce la notte,
il sito ad esplorar; tu co’ piú fidi
dell’Eufrate alle sponde
sollecito ti rendi.
Ircano. A momenti verrò: vanne e m’attendi.
Sibari.   Vieni; ché in pochi istanti
     dell’idol tuo godrai,
     e ogni rival farai
     d’invidia impallidir.
          Piangono i folli amanti
     per ammollire un core;
     per te non fece Amore
     le strade del martír. (parte)


SCENA VIII

Ircano, Tamiri e poi Mirteo.

Ircano. Ah! non si perda un solo istante. Oh, come

delusi rimarranno,
se m’arride il destino,
e Scitalce e Mirteo, Tamiri e Nino!
  (in atto di partire)

Tamiri. Che si fa? che si pensa? Ancor non turba

il valoroso Ircano,
né pur con la minaccia, i sonni al reo?
Ircano. Hai difensor piú degno: ecco Mirteo.
  (partendo, addita ironicamente Mirteo che giunge)
Tamiri. Mirteo, son vendicata?
È punito Scitalce?
Mirteo.   Egli di Nino
è prigionier: come assalirlo?
Tamiri.   E Nino
perché l’imprigionò?
Mirteo.   Perché ti offese
nella sua reggia; e vuole
della sorte del reo
che decida Tamiri.
Tamiri.   Addio, Mirteo.
  (in atto di partire in fretta)
Mirteo. Dove?
Tamiri.   A Nino. (come sopra)
Mirteo.   Ah! sí presto,
tiranna, m’abbandoni?
Tamiri. (impaziente)  (Aimè!)
Mirteo.   Lo veggo,
nacqui infelice.
Tamiri. (come sopra)  (Oh che importuno!)
Mirteo.   Ascolta.
Non ho pace per te; de’ miei sospiri
tu sei l’unico oggetto...
Tamiri. Mirteo, cangia favella o cangia affetto.
Io tollerar non posso
un querulo amator, che mi tormenti
con assidui lamenti,
che mai pago non sia, che sempre innanzi
mesto mi venga, e che, tacendo ancora,
con la fronte turbata
mi rimproveri ognor ch’io sono ingrata.

          L’eterne tue querele

     soffribili non sono:
     odiami, ti perdono,
     se amar mi vuoi cosí.
          Co’ pianti dell’aurora
     cominciano i tuoi pianti;
     né son finiti ancora
     quando tramonta il dí. (parte)


SCENA IX

Mirteo, Semiramide e poi Sibari.

Mirteo. Piú sventurato amante

non v’è di me.
Semiramide.   Né giunge ancor? S’affretti
Scitalce. (verso la scena)
Mirteo.   Ah! se sapessi,
signor, quai torti io soffro...
Semiramide.   Un’altra volta
gli ascolterò: parti per ora.
Mirteo.   Oh Dio!
Un solo istante...
Semiramide.   E ben, che fu? Ti spiega,
ma spedisciti.
Mirteo.   Il fasto
dell’ingrata Tamiri...
Sibari. (a Semiramide)  Il prigioniero,
signore, è qui.
Semiramide.   Fa’ che s’appressi.
  (Sibari parte per eseguire il comando)
Mirteo.   Il fasto...
Semiramide. Lasciami solo.
Mirteo.   E udir non vuoi?
Semiramide. (con impazienza)  Non posso.

Mirteo. Deh! per pietá...

Semiramide. (con impeto)  Mirteo,
t’imposi di partir; basti. Cotesta
tua soverchia premura è poco accorta.
Mirteo. Ah, per me la pietá nel mondo è morta! (parte)


SCENA X

Semiramide, Scitalce, Sibari.

Semiramide. Come mi balza in petto

impaziente il cor! Piú non poss’io
con l’idol mio dissimular l’affetto.
Scitalce. Eccomi. A che mi chiedi?
Semiramide. (a Scitalce)  Or lo saprai.
Sibari, t’allontana. (a Sibari, che parte)
Scitalce.   A nuovi oltraggi
vuoi forse espormi?
Semiramide.   Oh Dio!
Non parliam piú d’oltraggi. Io di tua fede
tutto il valor conosco.
Di Tamiri il rifiuto
m’intenerí; mi fe’ veder distinto
che vero è l’amor tuo, che l’odio è finto.
Deh! non fingiamo piú. Dimmi che vive
nel petto di Scitalce il cor d’Idreno:
io ti dirò che in seno
vive del finto Nino
Semiramide tua; che per salvarti
ti resi prigionier; ch’io fui l’istessa
sempre per te, che ancor l’istessa io sono.
Pace, pace una volta: io ti perdono.
Scitalce. Mi perdoni! E qual fallo?
Forse i tuoi tradimenti?
Semiramide.   Oh stelle! oh dèi!

I tradimenti miei! Dirlo tu puoi?

Tu puoi pensarlo?
Scitalce.   Udite! Ella s’offende,
come mai non avesse
tentato il mio morir, com’io veduto
non avessi il rival, come se alcuno
non m’avesse avvertito il mio periglio!
Rivolgi altrove, o menzognera, il ciglio.
Semiramide. Che sento! E chi t’indusse
a credermi sí rea?
Scitalce.   So che ti spiacque:
la tua frode svaní: dell’innocenza
i numi ebber pietá.
Semiramide.   Quei numi istessi,
se v’è giustizia in cielo,
dell’innocenza mia facciano fede.
Io tradir l’idol mio! Tu fosti e sei
luce degli occhi miei,
del mio tenero cor tutta la cura.
Ah! se il mio labbro mente,
di nuovo ingiustamente,
come giá fece Idreno,
torni Scitalce a trapassarmi il seno.
Scitalce. Tu vorresti sedurmi un’altra volta.
Perfida! m’ingannasti:
trionfane, e ti basti.
Piú le lagrime tue forza non hanno.
Semiramide. Invero è un grande inganno
a uno straniero in braccio
se stessa abbandonar, lasciar per lui
la patria e il genitore!
Se questo è inganno, e qual sará l’amore?
Scitalce. Eh! ti conosco.
Semiramide.   E mi deride! Udite
se mostra de’ suoi falli alcun rimorso!
Io priego, egli m’insulta;

io tutta umile, egli di sdegno acceso;

la colpevole io sembro, ed ei l’offeso.
Scitalce. No, no, la colpa è mia; pur troppo sento
rimorso al cor; ma sai di che? D’un colpo
che lieve fu, né vendicommi allora.
Semiramide. Barbaro, non dolerti: hai tempo ancora.
Eccoti il ferro mio: da te non cerco
difendermi, o crudel. Sáziati, impiaga,
passami il cor: giá la tua mano apprese
del ferirmi le vie. Mira: son queste
l'orme del tuo furor.
Scitalce.   (Se piú l’ascolto,
mi scordo i torti miei.)
Semiramide.   Ti volgi altrove?
Riconoscile, ingrato, e poi mi svena.
Scitalce. Va’, non ti credo.
Semiramide.   Oh crudeltade!
Scitalce.   Oh pena!
Semiramide.   Crudel! morir mi vedi
     e il mio dolor non credi?
     e insulti al mio dolor?
Scitalce.   Empia! mi sei palese,
     e vanti ancor difese?
     e vuoi tradirmi ancor?
Semiramide.   Che crudeltá!
Scitalce.   Che inganno!
A due   Che affanno è quel ch’io sento!

Sei nata per tormento,
Sei nato
barbara, del mio cor.
barbaro,
          Qual astro in ciel splendea

     quel dí che un’alma rea
     seppe inspirarmi amor?

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