< Semiramide
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Atto terzo
Atto secondo Varianti

ATTO TERZO

SCENA I

Campagna sulle rive dell’Eufrate. Mura de’ giardini reali da un lato, con cancelli aperti. Navi nel fiume, che ardono.

Zuffa giá incominciata fra le guardie assire e i soldati sciti, gli ultimi de’ quali si disperdono inseguiti dagli altri: poi Ircano e Mirteo combattendo. Il primo cade; l’altro gli guadagna la spada.

Mirteo. Cedi il ferro, o t’uccido.

Ircano.   Il ferro avrai,
quand’io rimanga estinto.
Mirteo. Empio! vivrai, ma disarmato e vinto.
  (gli leva la spada)
Ircano. Astri nemici!
Mirteo.   Assiri,
al re lo scita altero
prigionier conducete.
Ircano.   Io prigioniero?
Lacci ad Ircano? Ah, temerario! E sai
chi son io?
Mirteo.   Sí, lo veggo: un vil tu sei
senza onor, senza fede;
che altro dover non vede
che il suo piacer; che insidia le regine;
che sol con le rapine,
pregio de’ traditori,
sa meritar, sa contrastar gli amori.

Ircano. Quest’insolente oltraggio

pagherai col tuo sangue.
Mirteo.   Eh! di minacce
tempo or non è. Grazia e pietade implora.
Ircano. Grazia e pietá! Farò tremarvi ancora.
          In mezzo alle tempeste,
     scoglio battuto in mar
     da lungi fa tremar
     navi e nocchieri.
          Fra l’onde piú funeste
     lo scoglio tuo sarò,
     e il fasto io frangerò
     de’ tuoi pensieri. (parte fra le guardie assire)


SCENA II

Mirteo, poi Sibari con ispada nuda.

Mirteo. Inutile furor!

Sibari.   Mirteo, respira.
Tu il barbaro opprimesti; i suoi seguaci
io dispersi e fugai. Salva è Tamiri:
lode agli dèi. (rimette la spada)
Mirteo.   Quanto ti deggio, amico!
Vieni al mio sen. Con l’opportuno avviso
mi salvasti il mio ben. La trama indegna
a me rimasta ignota
saria senza di te: godrebbe Ircano
della sua colpa il frutto: io piangerei
privo dell’idol mio.
Sibari.   L’opre dovute
alcun merto non hanno.
Mirteo. (Che fido cor!)
Sibari.   (Che fortunato inganno!)
Mirteo. Ecco: un rival di meno
per te mi trovo.

Sibari.   Il tuo maggior nemico

non ti è noto però.
Mirteo.   Lo so: Scitalce
funesto è all’amor mio.
Sibari.   Solo all’amore?
Ah! Mirteo, nol conosci.
Mirteo.   Io nol conosco?
Sibari. No. (S’irriti costui.)
Mirteo.   Chi dunque è mai?
Spiégati, non tacer.
Sibari.   Scitalce è quello,
che col nome d’Idreno
ti rapí la germana.
Mirteo.   Oh dèi, che dici!
Donde, Sibari, il sai?
Sibari.   Molto in Egitto
ei mi fu noto. Io del real tuo padre
era i custodi a regolare eletto,
quando tu pargoletto
crescevi in Battra a Zoroastro appresso.
Mirteo. Potresti errar.
Sibari.   Non dubitarne: è desso.
Mirteo. Ah! non a caso il cielo,
il reo mi guida innanzi. Il suo castigo
è mio dover. (in atto di partire)
Sibari.   Dove t’affretti? Ascolta! (trattenendolo)
Regola almen lo sdegno.
Mirteo. Non soffre l’ira mia freno o ritegno.
          In braccio a mille furie
     sento che l’alma freme:
     tutte le sento insieme,
     tutte d’intorno al cor.
          Delle passate ingiurie
     quella l’idea mi desta;
     l’odio fomenta questa
     del contrastato amor. (parte)


SCENA III

Sibari solo.

Quell’ira, ch’io destai,

molto giovar mi può. Scitalce estinto
dal timor mi difende
ch’ei palesi il mio foglio;
e di lei, che m’accende,
un inciampo mi toglie al letto, al soglio.
Questa dolce lusinga
di delitto in delitto, oh Dio! mi guida.
Ma il rimorso or che giova?
Quando il primo è commesso,
necessario diventa ogni altro eccesso.
          Or che sciolta è giá la prora,
     sol si pensi a navigar.
          Quando fu nel porto ancora,
     era bello il dubitar. (parte)


SCENA IV

Gabinetti reali.

Semiramide, una guardia, poi Scitalce.

Semiramide. Nol voglio udir: da questa reggia Ircano

parta a momenti. Egli perdé nel vile
tradimento intrapreso
ogni ragione all’imeneo conteso.
Odi: Scitalce a me s’inoltri. (alla guardia, che parte)
  Io tremo
ripensando a Mirteo. Con quale orgoglio
or mi parlò! Non è suo stil. Che avvenne?

Che vuol? Mi ravvisò? Principe, ah! siamo

  (a Scitalce che giunge)
in gran periglio entrambi: ho gran sospetto
che Mirteo ci conosca. Ai detti audaci,
all’insolito sdegno, alle minacce
misteriose e tronche, io giurerei
ch’ei ci scoprí. Per questi istanti a pena,
ch’io parlo teco, a differir la pugna
indussi il suo furor.
Scitalce.   Rendimi il brando;
lasciami dunque in libertá.
Semiramide.   Vincendo,
che giovi a me, quando ei mi scopra? Ah! pensa
che all’estrema sventura
io ridotta sarei.
Scitalce.   Questa è tua cura.
Semiramide. Ma, se senza tuo danno
tu potessi salvarmi,
nol faresti, o crudel?
Scitalce.   La tua salvezza
non dipende da me.
Semiramide.   Da te dipende.
Odimi sol.
Scitalce.   Parla. (con disprezzo)
Semiramide.   E che vuoi ch’io dica,
se m’ascolti cosí? Fin ch’io ragiono,
placa quell’ira, o caro;
modera quel dispetto;
prometti di tacer.
Scitalce.   Parla: il prometto.
Semiramide. (M’assisti, Amor.)
Scitalce.   (Che mai può dirmi?)
Semiramide.   Or senti:
se la tua man mi porgi...
Scitalce. Che! la mia man?
Semiramide.   Rammenta

che déi tacer. M’avanza

molto ancor che spiegarti.
Scitalce.   (Oh tolleranza!)
Semiramide. Se la tua man mi porgi,
tutto in pace sará. Vedrá Mirteo
col felice imeneo
giustificato in noi l’antico errore.
Piú rivale in amore
non gli sará Scitalce. E quando uniti
voi siate in amistá, l’armi d’Egitto,
le forze del tuo regno, i miei fedeli,
se ben scoperta io sono,
saran bastanti a conservarci il trono.
Oh viver fortunato,
oh dolce uscir di vita,
con l’idol mio, col mio Scitalce unita!
Scitalce. (Se men la conoscessi,
al certo io cederei.)
Semiramide.   Perché non parli?
Scitalce. Promisi di tacer.
Semiramide.   Tacesti assai:
è tempo di parlar.
Scitalce.   Rendimi il brando:
altro a dir non mi resta.
Semiramide. Non hai che dirmi? E la risposta è questa?
Scitalce. Vuoi dunque ch’io risponda? Odimi. Esposto
degli uomini allo sdegno,
all’ira degli dèi,
prima d’esserti sposo, esser vorrei.
Semiramide. E questa è la mercede,
che rendi a tanto amore,
anima senza legge e senza fede?
Tradita, disprezzata,
ferita, abbandonata,
mi scopro, ti perdono,
t’offro il talamo, il trono;

e non basta a placarti?

e a pietá non ti desti?
Qual tigre t’allattò? Dove nascesti?
Scitalce. E ancor con tanto orgoglio...
Semiramide. Taci: ingiurie novelle udir non voglio.
Custodi, olá! rendete
il brando al prigionier. Libero sei:
va’ pur dove ti guida
il tuo cieco furor. Vanne, ma pensa
ch’oggi, ridotta alla sventura estrema,
vendicarmi saprò: pensaci e trema.
          Fuggi dagli occhi miei,
     perfido, ingannator:
     ricòrdati che sei,
     che fosti un traditor,
     ch’io vivo ancora.
          Misera! a chi serbai
     amore e fedeltá?
     A un barbaro, che mai
     non dimostrò pietá,
     che vuol ch’io mora. (parte)


SCENA V

Scitalce, poi Tamiri.

Scitalce. Dove son! Che ascoltai! Tanta fermezza

può mostrar chi tradisce? Oh dèi! Se mai
ingannato io mi fossi?
Se mai fosse fedel? Se tanti oltraggi
soffrisse a torto?... Eh! che son folle. Ah! dunque
maggior fede io dovrei
a’ suoi detti prestar che agli occhi miei?
Risolviti, o Scitalce;
e detesta una volta i tuoi deliri.
Tamiri. Principe...

Scitalce. (risoluto)  Alfin, Tamiri,

m’avveggo dell’error: teco un ingrato
so che finora io fui; ma piú nol sono.
Concedimi, io l’imploro, il tuo perdono.
Tamiri. (Nino parlò per me.) Tutto, o Scitalce,
tutto mi scorderei; ma in te sospetto
di qualche ardor primiero
viva la fiamma ancor.
Scitalce.   No, non è vero.
Tamiri. Finger tu puoi: nol crederò, se pria
la tua destra non stringo.
Scitalce. Ecco la destra mia: vedi s’io fingo.


SCENA VI

Mirteo e detti.

Mirteo. Cosí vieni a pugnar? Chi ti trattiene?

Piú non sei prigionier. Libero il campo
il re concede: a che tardar? Raccogli
quegli spirti codardi.
Scitalce. Mirteo, per quanto io tardi,
troppo sempre a tuo danno
sollecito sarò.
Mirteo.   Dunque si vada.
Tamiri. No, no; giá tutto è in pace:
che si pugni per me piú non intendo.
Scitalce. Soddisfarlo convien. Prence, t’attendo.
          Odi quel fasto? (a Tamiri)
     Scorgi quel foco?
     Tutto fra poco
     vedrai mancar.
          Al gran contrasto
     vedersi appresso
     non è l’istesso
     che minacciar. (parte)


SCENA VII

Tamiri e Mirteo.

Tamiri. (S’impedisca il cimento;

si voli al re.) (in atto di partire)
Mirteo.   Così mi lasci? Almeno
guardami, ingrata, e parti.
Tamiri. Mirteo, non lusingarti: io ben conosco
tutti i meriti tuoi; quanto io ti deggio
in faccia al mondo intero,
sempre confesserò; saprò serbarti,
per fin ch’io viva, un’amistá verace:
ma Scitalce mi piace;
sol per lui di catene ho cinto il core.
Mirteo. Ma la ragion?
Tamiri.   Ma la ragione è amore.
          D’un genio che m’accende,
     tu vuoi ragion da me?
     Non ha ragione amore,
     o, se ragione intende,
     subito amor non è.
          Un amoroso foco
     non può spiegarsi mai.
     Di’ che lo sente poco
     chi ne ragiona assai,
     chi ti sa dir perché. (parte)


SCENA VIII

Mirteo solo.

Or va’, servi un’ingrata; il tuo riposo

perdi per lei; consacra a’ suoi voleri
tutte le cure tue, tutti i pensieri:

ecco con qual mercé

poi si premia la fé di chi l’adora:
diviene infida, e ne fa pompa ancora.
               Sentirsi dire
          dal caro bene:
          — Ho cinto il core
          d’altre catene: —
          quest’è un martíre,
          quest’è un dolore,
          che un’alma fida
          soffrir non può.
               Se la mia fede
          cosí l’affanna,
          perché, tiranna,
          m’innamorò? (parte)


SCENA IX

Anfiteatro con cancelli chiusi da’ lati, e trono da una parte.

Semiramide con guardie e popolo, Sibari ed Ircano.

Ircano. A forza io passerò; vuo’ del cimento

trovarmi a parte anch’io.
Semiramide.   Così partisti?
Qual mai ragion sopra una man pretendi,
che ricusasti?
Ircano.   Io ricusai la morte:
avvelenato il nappo
Sibari avea. Fu suo consiglio ancora
la tentata rapina. Egli è l’autore
d’ogni mio fallo.
Sibari.   Ah, mentitor!
Ircano.   Sugli occhi
del tuo re questo acciar... (in atto di ferirlo)

Semiramide.   Non piú; per ora

non voglio esaminar qual sia l’indegno.
Olá! si dia della battaglia il segno.

Mentre Semiramide va sul trono, Ircano si ritira da un lato in faccia a lei. Sibari resta alla sinistra del trono. Suonano le trombe, s’aprono i cancelli, dal destro de’ quali viene Mirteo, e dall’opposto Scitalce, ambedue senza spada, senza cimiero e senza manto.


SCENA ULTIMA

Mirteo, Scitalce, poi Tamiri e detti.

Mirteo. (Al traditore in faccia il sangue io sento

agitar nelle vene.) (guardando Scitalce)
Scitalce.   (Io sento il core
agitarsi nel petto in faccia a lei.)
  (guardando Semiramide)
Semiramide. (Spettacolo funesto agli occhi miei!)

Due capitani delle guardie presentano l’arme a Scitalce ed a Mirteo, e si ritirano appresso i cancelli. Mentre Mirteo e Scitalce si muovono per combattere, esce frettolosa Tamiri.

Tamiri. Ah! fermati, Mirteo. Sai ch’io non voglio

piú vendetta da te.
Mirteo.   Vendico i miei,
non i tuoi torti. È un traditor costui:
mentisce il nome, egli s’appella Idreno;
egli la mia germana
dall’Egitto rapì.
Sibari.   (Stelle, che fia!)
Scitalce. Saprò, qualunque io sia...
Semiramide.   Mirteo, t’inganni.
Mirteo. Nella reggia d’Egitto
Sibari lo conobbe; egli l’afferma.
Sibari. (Aimè)!
Scitalce.   Che! mi tradisci, (a Sibari)

perfido amico? È ver, mi finsi Idreno;

è ver, la tua germana
lá del Nilo alle sponde
rapii, trafissi e la gittai nell’onde.
Mirteo. Empio! inumano!
Scitalce. (cava il foglio)  In questo foglio vedi
s’ella fu, s’io son reo.
Sibari lo vergò: leggi, Mirteo. (lo dá a Mirteo)
Sibari. (Tremo.)
Semiramide.   (Che foglio è quello?)
Mirteo.   (legge) «Amico Idreno,
ad altro amante in seno
Semiramide tua porti tu stesso.
L’insidia è al Nilo appresso. Ella, che brama
solo esporti al periglio
di doverla rapir, ti finge amore:
fugge con te, ma col disegno infame
di privarti di vita,
e poi trovarsi unita
a quello a cui la stringe il genio antico.
Vivi. Ha di te pietá Sibari amico».
Semiramide. (Stelle, che inganno orrendo!)
Mirteo. Sibari, io non t’intendo. In questo foglio
sei di Scitalce amico; e pur poc’anzi
da me, lo sai, tu lo volevi oppresso.
Come amico e nemico
di Scitalce esser può Sibari istesso?
Sibari. Allor... (Mi perdo.) Io non credea... Parlai...
Mirteo. Perfido, ti confondi! Ah! Nino, è questi
un traditor: da’ labbri suoi si tragga
a forza il ver.
Semiramide.   (Se qui a parlar l’astringo,
al popolo ei mi scopre.) In chiuso loco
costui si porti; e sará mia la cura
che tutto ei sveli.
Sibari.   A che portarmi altrove?
Qui parlerò.

Semiramide. No, vanne: i detti tuoi

solo ascoltar vogl’io.
Scitalce. Perché?
Mirteo.   Resti.
Ircano.   Si senta.
Sibari.   Udite.
Semiramide.   (Oh Dio!)
Sibari. Semiramide amai: lo tacqui. Intesi
l’amor suo con Scitalce: a lei concessi
agio a fuggir. Quanto quel foglio afferma
finsi per farla mia.
Scitalce.   Fingesti! Io vidi
pure il rival, vidi gli armati.
Sibari.   Io fui
che, mal noto fra l’ombre,
sul Nilo v’attendea. Volli assalirti,
vedendoti con lei;
ma fra l’ombre in un tratto io vi perdei.
Scitalce. Ah, perfido! (Che feci!)
Sibari.   Udite: ancora
molto mi resta a dir.
Semiramide.   Sibari, basta!
Ircano. No; pria si chiami autore
de’ falli apposti a me.
Sibari.   Tutti son miei.
Semiramide. Basta, non piú!
Sibari.   No, non mi basta.
Semiramide.   (Oh dèi!)
Sibari. Giá che perduto io sono,
altri lieto non sia. Popoli, a voi
scopro un inganno: aprite i lumi. Ingombra
una femmina imbelle il vostro impero...
Semiramide. Taci. (È tempo d’ardir.) (s’alza in piedi sul trono)
  Popoli, è vero:
Semiramide io son. Del figlio invece
regnai finor, ma per giovarvi. Io tolsi

del regno il freno ad una destra imbelle,

non atta a moderarlo; io vi difesi
dal nemico furor; d’eccelse mura
Babilonia adornai;
coll’armi io dilatai
i regni dell’Assiria. Assiria istessa
dica per me se mi provò sinora,
sotto spoglia fallace,
ardita in guerra e moderata in pace.
Se sdegnate ubbidirmi, ecco depongo
il serto mio. (depone la corona sul trono)
  Non è lontano il figlio:
dalla reggia vicina
porti sul trono il piè.
Coro.   Viva lieta, e sia regina
          chi finor fu nostro re.
  (Semiramide si ripone in capo la corona)
Mirteo. Ah, germana!
Semiramide.   Ah, Mirteo!
  (scende dal trono ed abbraccia Mirteo)
Scitalce.   Perdono, o cara:
son reo... (s’inginocchia)
Semiramide. Sorgi, e t’assolva
della mia destra il dono. (porge la mano a Scitalce)
Scitalce.   Oh Dio! Tamiri,
coll’idol mio sdegnato,
io ti promisi amor...
Tamiri.   Tolgano i numi
ch’io turbi un sí bel nodo. In questa mano
ecco il premio, Mirteo, da te bramato.
  (dá la mano a Mirteo)
Scitalce. Anima generosa!
Mirteo.   Oh me beato!
Ircano. Lasciatemi svenar Sibari, e poi
al Caucaso natio torno contento.
Semiramide. D’ogni esempio maggiori,

principe, i casi miei vedi che sono: (ad Ircano)

sia maggior d’ogni esempio anche il perdono.
Coro.   Donna illustre, il ciel destina
     a te regni, imperi a te.
          Viva lieta, e sia regina
     chi finor fu nostro re.

Nel tempo del coro che termina l’opera, del suo ritornello e della sinfonia che precede la Licenza, tutta la scena si ricopre di dense nuvole; le quali, diradandosi poi a poco a poco, scopron nell’alto la luminosa reggia di Giove sulle cime dell’Olimpo, ed una porzione d’arcobaleno, che si perde nel basso fra le nuvole, che circondan sempre le scoscese falde del monte. Si vede Giove assiso nel suo trono, nel piú distinto luogo della reggia: all’intorno e sotto di lui Giunone, Venere, Pallade, Apollo, Marte, Mercurio, e la schiera degli dèi minori e de’ geni celesti, e la dea Iride a’ suoi piedi in atto di riceverne un comando. Questa (quando giá sia la scena al suo punto), levandosi rispettosamente, va a sedere in un leggiero carro tirato da pavoni, e giá innanzi preparato sull’alto dell’arcobaleno; e, servendole di strada l’arco medesimo, scende velocemente al basso, dove, smontata dal carro, corteggiata da’ geni celesti, si avanza a pronunciare la seguente

Licenza

Il giubbilo festivo

di questo giorno, a cui
sí gran parte del mondo è debitrice
di sua felicitá, non è ristretto
fra gli angusti confini, o gran Fernando,
della terra e del mar. Lá su l’Olimpo
lo risenton gli dèi; ne è Giove a parte;
e dall’eccelsa sfera, ov’ei risplende,
Iride messaggiera a te ne scende.
Ed è ragion: Giove in Fernando onora
un’immagine sua. Padre ei de’ numi;
tu il sei di tanti regni: astro funesto
il suo seren non turba; e il tuo sereno
a turbar le sventure atte non sono.

Piovono dal suo trono

sempre influssi benigni;
sempre grazie dal tuo: Giove è nel cielo
fra le schiere de’ numi; e fra le schiere
di tante tue virtù più che reali,
il lor Giove anche in terra hanno i mortali.
          Immagine sí bella
     grata l’Iberia onori;
     ed in Fernando adori
     la sua felicità.
          Di sí propizia stella
     finché scintilla il lume,
     padre, monarca e nume
     Fernando a lei sará.

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