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II.
Ad onta dell’oscurità, la riconobbe subito alla svolta del Campo Marzio. Per riconoscerla gli sarebbe bastato oramai di vederne procedere l’ombra con quel movimento senza ritmo perchè senza scosse, il procedere di un corpo portato da mano sicura, affettuosamente. Le corse incontro e dinanzi al colore sorprendente di quella faccia, strano colore, intenso, eguale, senza macchia, sentì salirsi dal petto un inno di gioia. Ella era venuta e quando si poggiò al suo braccio, a lui parve gli si desse tutta.
La condusse verso il mare, lontano dal viale ove si muovevano ancora alcuni passanti, e, alla spiaggia, si sentiron ben soli. Avrebbe voluto baciarla subito ma non osò ad onta ch’ella, che non aveva detto parola, gli sorridesse incoraggiante. Già l’idea che osando avrebbe potuto posarle le labbra sugli occhi o sulla bocca, lo commosse profondamente, gli tolse il fiato.
— Oh, perchè ha tardato tanto? Temevo ch’ella non venisse. — Parlava così, ma il suo risentimento era dimenticato; come certi animali, in amore sentiva il bisogno di lagnarsi. Tant’è vero che poi gli parve d’aver spiegato il suo malcontento con le parole gioconde: — Mi pare impossibile d’averla qui accanto a me. — La riflessione gli diede intero il sentimento della sua felicità. — Ed io credeva non ci potesse essere una serata più bella di quella della settimana scorsa. — Oh, era tanto più lieto ora che poteva gioire della conquista già fatta.
Troppo presto s’arrivò al bacio, visto che dopo quel primo impulso di stringerla subito fra le braccia, egli ora si sarebbe accontentato di guardare e di sognare. Ma ella capiva ancora meno i sentimenti d’Emilio di quanto egli comprendesse i suoi. Egli aveva osato una carezza timida sui capelli: tanto oro. Ma oro anche la pelle, aveva soggiunto, e tutta la persona. Credeva così d’aver detto tutto mentre ad Angiolina non parve. Ella stette un istante pensierosa e parlò di un dente che le doleva. — Qui, — disse e fece vedere la sua bocca purissima, le gengive rosse, i denti solidi e bianchi, uno scrigno di pietre preziose legate e distribuite da un artefice inimitabile, la salute. Egli non rise e baciò la bocca che gli si era offerta.
Quella sterminata vanità non l’inquietò poichè tanto gli giovava: anzi non se ne avvide. Egli, che come tutti coloro che non vivono, s’era creduto più forte dello spirito più alto, più indifferente del pessimista più convinto, guardò intorno a sè le cose che avevano assistito al grande fatto.
Non c’era male. La luna non era sorta ancora, ma là, fuori, nel mare, c’era uno scintillìo iridescente che pareva il sole fosse passato da poco e tutto brillasse ancora della luce ricevuta. Alle due parti, invece, l’azzurro dei promontorii lontani era offuscato dalla notte più tetra. Tutto era enorme, sconfinato e in tutte quelle cose l’unico moto era il colore del mare. Egli ebbe il sentimento che nell’immensa natura, in quell’istante, egli solo agisse e amasse.
Le parlò di quanto a lui era stato raccontato dal Sorniani, interrogandola finalmente sul suo passato. Ella si fece molto seria e parlò in tono drammatico della sua avventura col Merighi. Abbandonata? Non era la vera espressione perchè era stata lei a pronunziare la parola decisiva che aveva sciolto i Merighi dal loro impegno. Vero è che l’avevano seccata in tutti i modi, lasciando intendere che la consideravano quale un peso nella famiglia. La madre del Merighi (oh, quella vecchia brontolona, cattiva, malata di troppa bile) glielo aveva spiattellato chiaro e tondo: — Tu sei la disgrazia nostra perchè senza di te mio figlio potrebbe trovare chissà che dote. — Allora di propria volontà, ella abbandonò quella casa, ritornò dalla madre — disse dolcemente questa dolce parola — e, dal dolore, poco appresso, ammalò. La malattia fu un sollievo perchè nella febbre si dimenticano tutti gli affanni.
Poi ella volle sapere da chi egli avesse appreso quel fatto. — Dal Sorniani.
Non ricordò subito quel nome, ma poi esclamò ridendo: — Quel brutto coso giallo che va sempre in compagnia del Leardi.
Anche il Leardi ella conosceva, un giovinotto che incominciava allora allora a vivere, ma con una foga che lo aveva posto subito in prima linea fra i gaudenti della città. Il Merighi gliel’aveva presentato molti anni prima, quando tutt’e tre erano quasi bambini; avevano giocato insieme. — Gli voglio molto bene — conchiuse essa con una franchezza che faceva credere nella sincerità di tutte le altre sue parole. E anche il Brentani il quale incominciava a inquietarsi per quel giovine, temibile Leardi che gli si cacciava accanto, a quelle ultime parole si tranquillò: — Povera fanciulla! Onesta e non astuta.
Non sarebbe stato meglio di renderla meno onesta e più astuta? Fattasi questa domanda, gli venne la magnifica idea d’educare lui quella fanciulla. In compenso dell’amore che ne riceveva, egli non poteva darle che una cosa soltanto: la conoscenza della vita, l’arte di approfittarne. Anche il suo era un dono preziosissimo, perchè con quella bellezza e quella grazia, diretta da persona abile come era lui, avrebbe potuto essere vittoriosa nella lotta per la vita. Così, per merito suo, ella si sarebbe conquistata da sè la fortuna ch’egli non poteva darle. Subito le volle dire una parte delle idee che gli passavano per il capo. Cessò di baciarla e d’adularla e, per insegnarle il vizio, assunse l’aspetto austero di un maestro di virtù.
Con un’ironia di se stesso in cui spesso si compiaceva, si mise a compiangerla d’essere caduta fra le mani di un uomo come lui, povero di denaro e anche di qualche cosa d’altro, energia e coraggio. Perchè se egli avesse avuto del coraggio, — e facendole per la prima volta una dichiarazione d’amore più seria di tutte le precedenti, la sua voce si alterò in una grande commozione, — egli si sarebbe presa la sua bionda fra le braccia, se la sarebbe stretta al petto e l’avrebbe portata attraverso alla vita. Ma invece egli non si sentiva da tanto. Oh, la miseria in due era cosa orribile; era la schiavitù, la più dolorosa di tutte. La temeva per sè e per lei.
Ella qui lo interruppe: — Io non avrei paura — a lui parve ch’ella volesse prenderlo per il collo e gettarlo in quella condizione che tanto temeva — io vivrei accanto all’uomo cui volessi bene, povera e rassegnata.
— Ma non io — disse egli dopo una breve pausa e fingendo d’aver esitato per un istante. — Io mi conosco. Nelle strettezze non saprei neppure amare. — E, dopo altra breve pausa, aggiunse con voce grave e profonda: — Mai! — mentre ella lo guardava seria, il mento appoggiato al manico dell’ombrellino.
Rimesse così le cose a posto, osservò — e quest’era l’avviamento all’educazione che voleva darle — che per lei sarebbe stato preferibile che le si fosse avvicinato un altro di quei cinque o sei giovanotti che quel giorno l’avevano ammirata con lui: Carlini ricco, Bardi che sprecava spensieratamente gli ultimi resti della sua gioventù e della sua grossa fortuna, Nelli affarista che guadagnava molto. Ciascuno di loro, per un verso o per l’altro, valeva più di lui.
Ella, per un momento, trovò la nota giusta. S'offese! Era però troppo visibile che il suo risentimento era voluto, esagerato, ed Emilio dovette accorgersene; ma non le imputò a colpa tale finzione. Dimenandosi con tutto il corpo, ella simulava uno sforzo per svincolarsi da lui, per andar via, ma la violenza di questo sforzo non arrivava fino alle braccia per le quali egli la tratteneva. Quelle subivano la sua stretta quasi inerti e finì che egli le accarezzò, le baciò e non le strinse più.
Le chiese scusa; non s’era spiegato bene e, coraggiosamente, ripetè con altre parole quello che già aveva detto. Ella non rilevò la nuova offesa, ma conservò per qualche tempo un tono risentito: — Non voglio ch’ella creda che per me sarebbe stato lo stesso di venir avvicinata da uno o l’altro di quei signori. A loro non avrei permesso di parlarmi. — Al loro primo incontro, vagamente avevano ricordato d’essersi visti sulla via un anno prima; egli, dunque — diceva Angiolina — non era per lei il primo venuto. — Io — dichiarò Emilio solennemente, — non volli dire altro se non che io la meritavo.
Soltanto allora egli arrivò a comunicarle gl’insegnamenti che dovevano esserle tanto utili. La trovava troppo disinteressata e la compianse. Una ragazza della sua condizione doveva badare al proprio interesse. Che cosa era l’onestà a questo mondo? L’interesse! Le donne oneste erano quelle che sapevano trovare l’acquirente al prezzo più alto, erano quelle che non consentivano all’amore che quando ci trovavano il loro tornaconto. Dicendo queste parole egli si sentì l’uomo immorale superiore che vede e vuole le cose come sono. La potente macchina da pensiero ch’egli si riteneva, era uscita dalla sua inerzia. Un’onda d’orgoglio gli gonfiò il petto.
Essa poi pendeva sorpresa e attenta dalle sue labbra. Parve ella credesse che donna onesta e donna ricca fossero la stessa cosa. — Ah! le superbe signore son dunque fatte così? — Poi, vedendolo sorpreso, negò d’aver voluto dire questo, ma se egli fosse stato l’osservatore che credeva, si sarebbe accorto che ella ora non capiva più il ragionamento che poco prima l’aveva tanto sorpresa.
Egli ripetè e commentò le idee già espresse: La donna onesta sa valere molto; è quello il suo segreto. Bisogna essere onesta o almeno parere. Era già male che il Sorniani potesse parlare leggermente di lei, malissimo ch’ella dichiarasse di voler bene al Leardi, — e qui sfogò la sua gelosia, — quel donnaiuolo compromettente quant’altri mai. Era meglio fare del male che aver l’aria di farlo.
Subito ella dimenticò le idee generali che egli aveva esposte per difendersi vigorosamente da quegli attacchi. Il Sorniani non poteva sparlare di lei, e il Leardi, poi, era un ragazzo non compromettente affatto.
Per quella sera l’istruzione finì lì, perchè egli pensò che quella medicina così potente dovesse venir propinata a piccole dosi. A lui pareva inoltre d’aver portato già un grande sacrificio rinunziando per qualche istante all’amore.
Per una sentimentalità da letterato il nome d'Angiolina non gli piaceva. La chiamò Lina; poi, non bastandogli questo vezzeggiativo, le appioppò il nome francese, Angèle e molto spesso lo ingentilì e lo abbreviò in Ange. Le insegnò a dirgli in francese che lo amava. Saputo il senso di quelle parole, ella non volle ridirle, ma al prossimo appuntamento le disse senz’essere invitata: Sce tèm bocù.
Egli non si meravigliava affatto d’esser giunto tanto oltre sì presto. Corrispondeva proprio al suo desiderio. Certo ella lo aveva trovato tanto ragionevole che le sembrava di poter fidarsi di lui, e infatti per lungo tempo, ella non ebbe neppur l’occasione di rifiutargli qualche cosa.
Si trovavano sempre all’aperto. Amarono in tutte le vie suburbane di Trieste. Dopo i primi appuntamenti, abbandonarono Sant’Andrea ch’era troppo frequentato, e per qualche tempo preferirono la strada d’Opicina fiancheggiata da ippocastani folti, larga, solitaria, una salita lenta quasi insensibile. Si fermavano a un pezzo di muricciuolo che divenne la meta delle loro passeggiate soltanto perchè la prima volta vi si erano assisi. Si baciavano lungamente, la città ai loro piedi, muta, morta, come il mare, di lassù niente altro che una grande estensione di colore misterioso, indistinto: e nell’immobilità e nel silenzio, città, mare e colli apparivano di un solo pezzo, la stessa materia foggiata e colorita da qualche artista bizzarro, divisa, tagliata da linee segnate da punti gialli, i fanali delle vie.
La luce lunare non ne mutava il colore. Gli oggetti dai contorni divenuti più precisi non s’illuminavano, si velavano di luce. Vi si stendeva un candore immoto, ma di sotto, il colore dormiva intorpidito, fosco, e persino nel mare che ora lasciava intravvedere il suo eterno movimento, baloccandosi con l’argento alla sua superficie, il colore taceva, dormiva. Il verde dei colli, i colori tutti delle case rimanevano abbrunati e la luce di fuori, inaccolta, distinta, un effluvio che saturava l’aria, era bianca, incorruttibile, perchè nulla in lei si fondeva.
Nella vicina faccia della fanciulla, la luce lunare s’incarnava, sostituiva quel colore di bambino roseo senz’attenuare il giallo diffuso ch’Emilio credeva di percepire con le labbra; tutta la faccia diveniva austera e, baciandola, Emilio si sentiva più corruttore che mai. Baciava la bianca, casta luce.
Poi preferirono i boschetti del colle al Cacciatore; sentivano sempre più il bisogno di segregarsi. Sedevano accanto a qualche albero e mangiavano, bevevano e si baciavano. I fiori erano presto scomparsi dalla loro relazione, e avevano ceduto il posto ai dolci che poi ella non volle più per non guastarsi i denti. Subentrarono i formaggi, le mortadelle, le bottiglie di vino e di liquori, roba già molto costosa per la scarsa borsa d’Emilio.
Ma egli era dispostissimo a sacrificare ad Angiolina tutte le poche economie fatte nei lunghi anni della sua vita regolata; si sarebbe ristretto nelle spese non appena esaurita la sua piccola riserva. Altri pensieri lo preoccupavano di più: chi aveva insegnato ad Angiolina a baciare? Egli non rammentava più i primi baci ricevuti; allora, tutto occupato del bacio che dava, non aveva sentito, in quello che riceveva, altro che un dolce necessario complemento al suo, ma gli pareva che se quella bocca fosse stata tanto animata, egli ne avrebbe provata qualche sorpresa. Le aveva dunque insegnata lui quell’arte in cui egli stesso era novellino?
Ella confessò! Il Merighi l’aveva baciata molto. Rise parlandone. Certo, Emilio le appariva buffo quando mostrava di credere che il Merighi non avesse approfittato della sua posizione di fidanzato almeno per baciarla a sazietà.
Il Brentani non sentiva alcuna gelosia per il ricordo del Merighi che aveva avuto tanti diritti più di lui. Gli doleva anzi ch’ella ne parlasse leggermente. Non avrebbe dovuto piangere ogni qualvolta lo nominava? Quando egli manifestava il proprio rammarico di non vederla più infelice, ella, per secondarlo, atteggiava la bella faccia a tristezza e, per difendersi dal rimprovero che sentiva esserle fatto, ricordava ch’ella s’era ammalata per l’abbandono del Merighi: — Oh! se fossi morta allora, certo non mi sarebbe dispiaciuto. — Pochi istanti dopo, ella rideva rumorosamente fra le braccia di lui che s’erano aperte per consolarla.
Ella nulla rimpiangeva ed egli se ne sorprendeva altrettanto quanto della propria dolorosa compassione. Come le voleva bene! Era veramente sola gratitudine per quella dolce creatura che si comportava come se proprio per lui fosse stata creata, amante compiacente senz’esigenze?
Quando la sera sul tardi tornava a casa e la pallida sorella lasciava il lavoro per fargli compagnia a cena, egli ancora vibrante di commozione, non soltanto non sapeva parlare d’altre cose ma neppure gli riusciva di fingere un interessamento per le piccole faccende di casa che formavano la vita d’Amalia e delle quali ella soleva parlargli. Finiva ch’ella accanto a lui riprendeva il lavoro e restavano nella stessa stanza ognuno solo coi propri pensieri.
Una sera ella lo guardò a lungo senza ch’egli se ne avvedesse; poi, sorridendo con isforzo, gli chiese: — Sei stato finora con lei?
— Chi lei? — chiese egli subito ridendo. Poi si confessò perchè aveva bisogno di parlare. Oh, era stata una serata indimenticabile. Aveva amato nella luce lunare, nell’aria tiepida, dinanzi a un paesaggio sconfinato, sorridente, creato per essi, per il loro amore. Ma egli non sapeva spiegarsi. Come poteva dare un’idea di quella serata alla sorella non parlandole dei baci d’Angiolina?
Ma mentre egli ripeteva: — Quale luce, quale aria! — ella indovinava sulle sue labbra le traccie dei baci ai quali egli pensava. Odiava quella donna che non conosceva e che le aveva rubata la sua compagnia e il suo conforto. Ora ch’ella lo vedeva amare come tutti gli altri, le mancava l’unico esempio di volontaria rassegnazione allo stesso proprio triste destino. Tanto triste! Si mise a piangere, da prima con delle lagrime silenziose che cercava di celare sul lavoro, poi, quando egli di quelle lagrime s’accorse, con singhiozzi impetuosi che invano tentò di reprimere.
Cercò di spiegare quelle lagrime: era stata indisposta tutto il giorno, non aveva dormito la notte precedente, non aveva mangiato, si sentiva molto debole.
Egli senz’altro le credette: — Domani se tu non stessi meglio, chiameremo il dottore.
Allora al dolore d’Amalia s’aggiunse l’ira che egli così leggermente si lasciasse ingannare sulla causa delle sue lagrime; quella era la prova della più completa indifferenza. Non ebbe più ritegno, e gli disse che lasciasse stare il dottore perchè per quella vita ch’ella faceva non valeva la pena di curarsi. Per chi viveva e perchè? Visto ch’egli non voleva ancora comprendere e la guardava estatico, ella disse tutto il proprio dolore: — Neppur tu hai più bisogno di me.
Egli, certo, non capì, perchè invece di commuoversi s’adirò: Egli aveva passata la sua gioventù solitario e triste; era troppo giusto che di tempo in tempo s’accordasse qualche svago. Angiolina non aveva importanza nella sua vita: era un’avventura che sarebbe durata qualche mese e non più. — Sei veramente cattiva di farmene un rimprovero. — Si commosse soltanto nel vederla continuare a piangere, senza parole, in un’inerzia sconsolata. Per confortarla le promise che sarebbe venuto più spesso a tenerle compagnia; avrebbero letto e studiato insieme come in passato, ma ella doveva procurare d’essere più allegra perchè egli non amava le persone tristi. Il suo pensiero volò ad Ange! Come sapeva ridere a lungo, lei, con risate prolungate e contagiose, e sorrise egli stesso pensando che quelle risate avrebbero echeggiato in modo ben strano nella sua triste casa.